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Ulisse d’Acqua Dolce

Ulisse d’Acqua Dolce

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Ivan mi ha regalato un sacco di libri ed annuari: forse voleva imparassi qualcosa, o forse voleva solo liberare un po’ di spazio in casa, non so… Sta di fatto che prima di uscire mi sono soffermato su un articolo che affrontava le differenze tra Alpinismo e Arrampicata: era chiaramente la trascrizione di un discorso tenuto durante l’annuale incontro del Club Alpino Accademico. Come consuetudine introduceva il concetto di “pace con l’alpe”, la visione moderna che si contrappone alla “lotta con l’alpe” tipica degli anni ante-guerra. Onestamente io non saprei cosa dire, grandi o piccole le montagne continuano a prendermi a calci nelle palle e questa visione “pacifista” fa un po’ troppo boyscout hipster per i miei gusti. Le montagne restano gli invincibili giganti di una moderna odissea: serve astuzia, azzardo e fortuna per ascoltare il canto delle sirene e fare ritorno ad Itaca. Inoltre questa pace “puzza” della superbia compiacente di chi si sottrae al conflitto convinto (a torto) della propria inevitabile vittoria: sembrano politici che inneggiano al trionfo senza mai essere scesi in trincea con la fanteria. Io la furia delle montagne l’ho solo fortunatamente intravvista, ma da quel poco che ho visto vi garantisco che nell’occhio del ciclone o combatti o muori.

L’articolo poi continuava creando un parallelo piuttosto ardito: l’arrampicarore è come un velista di lago, l’alpinista invece solca gli oceani. Credo che i Laghéé ed il vento che cala da Nord sul Lario potrebbero obbiettare piuttosto pesantemente su questa semplificazione. Forse l’autore dimentica come, quando la sorte si fa avversa, anche i giganti possano affogare in un bicchiere d’acqua. Tuttavia il mondo è bello perchè è vario e così, uscendo di casa, ero piuttosto compiaciuto di sentirmi un “Ulisse d’Acqua Dolce”.

Sguero si era già attaccato alla roccia, superando il primo muretto calcaero ben appigliato, giungendo alla grande pancia strapiombante: due grandi fori sferici, simili a due occhi, sovrastavano quel tratto aggettante. Ogni tanto si gira e storpicciando la voce del Gerry mi urla ridendo: “Che Sbuatta!”. Da quando gli ho presentato “Gigi Che Sbatta” questa è diventata la sua gag preferita. Poi, quando gli do corda per rinviare, ricomincia: “AseeeenPark… Che Sbuatta… però è davvero un ragazzo simpatico: mi piace la corda che ci ha consigliato”. Sguero è fatto così: in perenne e dinamico equilibrio tra l’assolutamente serio e l’inevitabilmente ridicolo.

Lo strapiombo però è una faccenda complessa ed iniziamo a lavorarci con impegno. Come una rana si alza in ricongnizione e poi si riabbassa. Pianta due chiodi in una fessura sotto il tettino, ma entrambi sono troppo bassi e troppo poco buoni. Rinvia e si rialza in ricognizione. Potrebbe passare, anzi, in pratica è già passato. Tuttavia da quando Bruna si è fatta male qualcosa è cambiato ed è proprio lui il primo ad ammetterlo: c’è in lui un’attenzione nuova nel proteggere i passaggi. Non gli basta più passare, proteggersi, vuole avere la certezza che il secondo possa fare altrettanto con adeguata sicurezza. “Sai, forse quello che è successo a Bruna è un avvertimento: chissà, forse ci ha salvato la vita”. Dopo innumerevoli e celebri solitarie Sguero, nonostante un impareggiabile esperienza ultra quarantennale, apparentemente riesplora in modo critico la progessione in cordata: che culo!

Si rialza e cerca di piantare un chiodo oltre lo strabiombo, ma il suono a rimbalzo di ogni martellata dichiara cieche tutte le fessure. Inesauribile si alza e si riabbassa ma il risultato è un misero chiodo da strozzare mezzo fuori. “Biriz, mandami su i friend grandi che proviamo con quelli!” Con il quattro in mano si rialza sullo strapiombo e prova ad incastrarlo tutto storto nel fondo cieco di uno dei due occhi: “Poi sistemo tutto.” Si riabbassa, si riposiziona e riparte. Supera lo strapiombo e si alza in piedi sopra gli occhi: “Calma e gesso, c’è ancora tanto da fare! …che sbuuatta!!”.

Fettucce, speroncini e friend: Sguero guadagna lo spigolo e l’ultimo passaggio aggettante. Io, fermo ad una sosta a nat ancora in ombra, inizio a sentire il freddo farsi strada nelle gambe e nelle spalle. Poi, finalmente, dall’alto spunta la testa del Guero: “Sbiriz… che Sbuatta! Molla tutto!”. Allaccio le scarpette: “Vengo!”. Con lentezza approfitto della roccia lavorata per scaldarmi in ampi movimenti. Poi, sotto la pancia, inizio a schiodare ed il freddo passa di colpo. Pim Pum Pam! “No Sguero, non ti prederò più in giro perchè non sai piantare i chiodi: questo mi sta facendo dannare!” Finalmente, dopo una piccola lotta, il Cassin tutto ritorto abbandona la fessura e trova spazio nel mio imbrago. Per togliere il successivo però devo alzarmi.

Mi attacco a due piccole manette e punto il piede sinistro. Mi raddrizzo cercando un appoggio ma il piede destro scompare a casaccio sotto lo strapiombo: “Come accidenti ha fatto a chiodare in questa posizione?!” Devo scaricare parte del peso sulla corda ma ho paura che il friend mi schizzi in faccia prima di pendolare lungo verso sinistra. Così traffico con un cordino ed il chiodo mezzo fuori cercando un compromesso accettabile: poi, con il respiro leggero, mi appendo ed inizio a schiodare il secondo chiodo. La corda di Gigi che Sbatta è davvero buona!

Riparto e raggiungo lo spigolo “Ma che accidenti!?! Strapiomba anche qui?!!” Sguero se la ride ed ora siamo abbastanza vicini anche per chiacchierare. Mi posiziono per il passaggio studiando la solidità degli appigli diponibili prima di avvicinare il barricentro alla verticale strisciando verso l’alto. “STONK!”. La corda fa saltare uno degli spuntoni che avevo scartato appoggiandomi di botto una mattonella in equilibrio sul casco. “Ecco, appunto!”. E’ troppo grosso perchè con la testa riesca a buttarmelo alle spalle senza tirarmelo sulla schiena. Quindi, tenendo in equilibrio il nuovo amico, mi riposiziono, libero una mano e libero la testa. “Accidenti, le comiche!” sbotto mentre Sguero ride.

Da secondo ai sassi ci si abitua alla svelta sebbene siano un pericolo più che concreto: shrapnel che fischiano ed esplodono sordi in mille scheggie. Tuttavia la mia fobia è un altra, un’atavica paura di ritrovarsi appeso ad un massiccio pilastro di quattro o cinque metri che decide di mollarsi verso il basso. Forse un sasso puoi provare ad evitarlo ma una mostruosità del genere come la risolvi? Già, questa è la grande paura che caratterizza il mio modo di arrampicare, il mio scivolare garbato ed attento su un mondo pronto a crollare: probabilmente la paura più utile e funzionale al tipo di arrampicata esplorativa che si fa con il Guero.

Il secondo tiro della via degli “Occhi Ciechi” è un trenta metri tra guglie a sbalzo nel vuoto: aereo e godibilissimo! Giunti sulla sommità si fa sentire all’orizzonte il boato di un temporale incalzante. Ci cambiamo le scarpe abbassandoci lungo un canale. Sul sentiero di ritorno troviamo un grande pilastro monolitico di venticinque metri che si innalza dall’erba: “Dici che ce la facciamo prima che arrivi la pioggia?” “Bhe, non resta che provare!”. Ovviamente il temporale ci investe in pieno quando è il mio turno di salire a recuperare il materiale. Dicono che il calcare sotto la pioggia, prima di diventare viscido e scivoloso, diventi per qualche minuto più ruvido e poroso. Chissà, forse la pioggia rende più evidenti le forme oppure i fulmini hanno la capacità di darti quella scossa in più. Comunque sia mangio il tiro, fortunatamente di roccia assolutamente compatta, e raggiungo rapido in sosta un inzuppato Guerini. “Biriz, non sembra di stare in cima all’Eghen?” Mi sfotte,  io mi guardo intorno e sghignazzo “No di certo, amico mio. Nemmeno lontanamente…”. Arrotoliamo la corda alla meglio, scendiamo a recuperare gli zaini e ci spazziamo il più lontano possibile dalla cresta (…perchè non si sa mai!).

“Mi piace arrampicare con te, Biriz: riesci a trasmettere una grande tranquillità anche quando le cose si fanno difficili”. Fradicio dalla testa ai piedi quasi arrossisco per un simile complimento.

Per via della pioggia siamo in anticipo sulla tabella di marcia e così raggiungiamo Bruna e Mimma a Lecco: un litro di birra a stomaco vuoto non è certo la colazione del campione ma, in qualche modo, i provvidenziali panini al pomodoro di Bruna evitano la sconfitta (anche se uscito dalla doccia sono crollato addormentato sul divano!)

La sera spulcio su internet le foto pubblicate dagli amici: “Hey Bru, sai dove sono stati oggi quelli della scuola con il corso?” L’indifferenza di Bruna è assoluta così come il cippiglio disinteressato con cui attende la mia risposta a quella domanda pretestuosa. “Al Sass Negher! – faccio io – E sai chi è stato ad aprire le prime vie quando la parete non era stata devastata dai fittoni?” Bruna è ormai rassegnata, alza lo sguardo al cielo, sbuffa e lascia la stanza prima di rispondermi divertita dal corridoio: “Ivan Guerini… e chi sennò? Ormai questa è la risposta Jolly!” Eh già…che sbuatta!

Davide “Birillo” Valsecchi

Giaggiolone dove sei?

Giaggiolone dove sei?

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Dalla stazione ferroviaria di Lecco fuoriesce un fiume di studenti ed impiegati che come una mandria disordinata si riversa sul marciapiede della fermata dell’autobus. Io, parcheggiato dentro la Subaru con le quattro frecce lampeggianti, li osservo preoccupato mentre incuranti mi scorrono attorno, come se fossi niente più che nuovo masso adagiato lungo il loro corso della loro routine. Ero preoccupato che in quella posizione potessi dare loro fastidio, essergli di intralcio. Ero preoccupato che quella mia “attesa forzata” potesse apparire come una prepotenza e cercavo un modo o un luogo per togliermi di impiccio. Ma il loro stesso scorrere mi impediva ogni scelta: non ero io ad intralciarli, erano loro a circondarmi. Così, dentro la mia sempre più scassata “BirilloMobile”, non ho potuto fare altro che alzare il volume dei Rancid – “Life won’t wait”- studiandoli e catalogando i gesti ed i movimenti. La maggior parte era persa nel cellulare camminando a piccoli passi con la testa bassa. Poi, là in fondo, leggermente più alto, vestito di rosso con uno zainetto arancione, avanza uno a testa alta, stonando in quella massa uniforme. “Eccolo, ecco il Guero…” Quando mi vede il suo sorriso si allarga ancora un poco: davvero curioso il modo in cui il destino accomuna le persone estraniandole da tutte le altre. Apre lo sportello e si infila nel Subaru, il suo sorriso è ora un ghigno compiaciuto: «Buongiorno Biriz, andiamo?». Appoggio le mani sul volante con in un film di Mad Max mentre il ringhio del vecchio ed orgoglioso motore Boxer Impreza spalanca la folla manco fosse il mar rosso: «Sì, Sguero: andiamo!»

Due ore più tardi siamo alla base della parete. Figlio di un cacciatore della Carnia individuo senza diffoltà i camosci mimetizzati tra le rocce. Sguero, stupito dal mio colpo d’occhio, si ferma ad ammirarli mentre, nel silenzio, spuntano anche i cuccioli dell’ultima estate. I camosci si accoppiano in autunno e partoriscono in tarda primavera: figli dell’inverno sono i signori delle montagne. Mufloni e Stambecchi non avranno mai la nobiltà e l’eleganza di un Camoscio.

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«Ma noi una via di quarto grado riusciremo mai a trovarla?» Guero mi aspetta in sosta e, dalla quantità di chiodi con cui la sta rinforzando, comprendo che il tiro rischia di essere anche più complicato di quanto appare. Rimonto fino ad una profonda fessura nera, infilo le mani, stacco i friend cercando di spingermi in alto in spaccata con i piedi: la fessura è solida ma quello che la circonda un po’ meno. Questa volta non strapiomba ma la verticalità e lo sforzo sono continui. Il secondo tiro è una placca con un passaggio strapiombante nel mezzo. All’uscita un grosso sasso sposato sembra appartenere ad una partita interrotta di “Jinga”. «Biriz, fai attenzione: non uscire dritto ma evita sulla sinistra uno spuntone che sporge. Non toccarlo…» Ecco, appunto… Come un elefante con il tutù da ballerina mi muovo delicato e leggero: sono peso fragile in una foresta di cristalli. L’attacco del terzo tiro richiede un chiodo, l’unico su tre tiri, l’unico che abbiamo lasciato in loco. Sguero lo supera in libera, ridendo sornione quando le prese gli si sgretolano sotto le mani. Poi dall’alto mi urla: «Biriz! L’ultimo metro è quarto grado: davvero!»

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Quando lo raggiungo all’ultima sosta mi guardo intorno osservando gli enormi blocchi di roccia che, senza giustificazione apparente, mantengono un equilibrio instabile sporgendosi nel vuoto. «Io le Dolomiti me le immagino così: sassi ovunque e roba enorme che si sgretola in secoli o in qualche istante». Guero sorride. «Infatti sono esattamente così». Ripenso alle difficoltà della salita e a come il vecchio adagio “saldo come la roccia” non si possa applicare al calcare. «Sai, forse potrà sembrarti presuntuoso ma a volte credo che arrampicare sul granito sia più facile: forse a volte è tecnicamente più difficile ma immagino tutto grande e solido, mentre sul calcare ogni cosa è un incognita di cui dubitare.» Tempo fa avevo fatto un discorso simile con Gianni Mandelli e lui, con grande saggezza rappresentativa, mi aveva detto «Il granito riesce ad esaltarti, a spingerti oltre i tuoi limiti. Il calcare invece spesso ti opprime, ti respinge soffocandoti.» Alla mia domanda Ivan ride, come sempre, e curiosamente mi da ragione. Il Profeta delle grandi placche della Val di Mello mi guarda e annuisce: «Sì Biriz, sul calcare ci sono molti problemi in più e spesso anche proteggersi, piazzare un friend o un chiodo, diventa molto più difficoltoso». Viviamo su un pianeta dove il granito è la roccia più diffusa in assoluto ma, ahimè, siamo figli del Calcare, figli di un Dio minore che, emerso dalle profondità abissali, punta al cielo trasformando la vita in roccia: già, forse non poteva essere diversamente…

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 La sera ho trovato Mattia, il mio socio di cordata, il 75% de “I Due dei Corni™”, e Simone, il marito di mia sorella, il padre dei miei nipoti e compagno della spedizione “cima-asso” nel lontano ‘99. Gli ho raccontato dove avevamo aperto la nuova via e lui, divertito, si era limitato a dire «Ma lì è tutto un marcione?!» Io, facendo spallucce, ho semplicemente annuito «Il Guero dice che quella è Dolomia Monolitica, assolutamente solida salvo i detriti di deposito. Io non so, forse ha ragione. Oppure è come quella storia del calabrone: tecnicamente dovrebbe restare su ma, visto che nessuno glielo ha detto, continua a venire a basso!»

Davide “Birillo” Valsecchi

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Sopra e Sotto

Sopra e Sotto

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 In un mondo surreale soreseggio birra al bancone, giggioneggiando ammiccante con un signorina della Nuova Caledonia, alla deriva nei suoi marcati lineamenti esotici e nell’intenso accento francese. Sguero intanto sale in cattedra e snocciola perle di saggezza sulle meraviglie alpinistiche e speleologiche del piccolo arcipelago francese, sperduto nell’oceano Pacifico sudoccidentale. Chissà in quale strano modo lui, che neppure possiede una tv, conosce tanto di un posto così lontano!

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Se il tramonto ci coglie con la mente in paesi lontani, l’alba era stata assolutamente indigena ed il calcare tra i più nostrani. Le stranezze però sono omni-presenti e per una caotica serie di coincidenze alla nostra brigata si è aggiunto un personaggio d’eccezione: Rino Bregani.

Rino è un medico in forza al Corpo Nazionale del Soccorso Alpino Speleologico ed è uno dei tre medici italiani che sono intervenuti nel difficile e famoso intervento di soccorso a Riesending Schachthohle, nel 2014 in Baviera. Un’operazione internazionale in cui le squadre italiane del CNSAS si sono distinte per competenza e resistenza: Rino ha trascorso 85 ore filate attaccato alla barella ad oltre 900 metri di profondità! Sovraumano!

Tempo fa TeoBrex si era lasciato sfuggire sulla mailing-list speleo delle Grigne che arrampichiamo con Ivan Guerini. Rino, leggendo quel messaggio, aveva contatto Teo raccontando il loro primo incontro negli anni ‘80 ai giardini milanesi, dove all’epoca si allenavano molti arrampicatore cittadini. Un rapido giro di telefonate tra i “tassi” e due giganti, di mondi diametralmente diversi, formano per la prima volta una cordata insieme: ecco l’occasione e l’ospite speciale per cui qualche giorno fa abbiamo comprato un canapone nuovo!

rino ed ivan

La nostra esplorazione continua al Gran Madornale che, insieme alla Rocca dei Malandrini, è una delle tante “ZoneNoSpit” ancora taciute e tetutelate da Ivan (…prima o poi sarà lui a raccontarvi qualche dettaglio in più). Un nebbiolina fredda ci accoglie tra i torrioni ma la compagnia è spassosa e niente ci impedirà di godere della giornata insieme. Io e TeoBrex, mai come oggi, siamo le due matricole del gruppo e questo ci dà la possibilità, mentre Ivan insegue linee via via sempre più agghiaccianti, di essere anche più casinisti e petulanti del solito.

La prima via è di due lunghezze, rimonta l’esterno di un diedro e supera dall’alto uno stupendo camino a forra prima di raggiungere la sommità del torrione. La roccia è magnifica ma come sempre, essendo una “prima”, è tutta da capire, da leggere. Nonostante qua e là sia fragile è un “calcare vaporoso”, lavorato dagli elementi ed arricchito nelle forme. Leggisi: c’è uno sfrego di roba che si muove e si stacca, anche decisamente grossa, ma è pieno anche di magnifici appoggi che, se reggono, sono una vera goduria!

La seconda è una sola lunghezza, rimonta un camino (scelto per farmi contento “Così il nostro nat umano si incastra per bene!”) prima di attaccare un rimonto aggettante delicato e fisico. Guero fa un gran lavoro di friend e, con un cambio piede fulminante, rimonta lo strapiombo svincolandosi sotto il “tavolo” instabile che capeggia l’uscita. “Mi raccomando, questo non toccatelo!” Io e Teo disegniamo, corda dall’alto, varianti più mansuete mentre Rino, ormai in piena intesa con Ivan, lo insegue nei passaggi più complessi.

Mentre noi recuperiamo il materiale Ivan, in libera solitaria, attacca la parete buia del Gran Madornale inseguendo un fessura aggettante a caccia di una piccola clessidra. La roccia non è più vaporosa,  lavorata dal sole e dalla pioggia, è scura, poco invitante e buia. La grande fessura attraversa evidendente la parete in un doppio obliquo, per raggiungerla si deve però superare un attacco decisamente violento. Ogni volta Ivan era tentato ma, fortunatamente per noi, appariva sempre nera ed umida. “Aspettiamo asciughi…”. Oggi però c’è un ospite speciale e non sembra intenzionato a trascurala oltre.

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Tocca a me fargli sicura e seguirlo nei passaggi delicati. Rimonta il primo strapiombo raggiungendo un “quasi” terrazzo su cui è appoggiato un pilastro instabile che gli arriva al petto. Lo strapiombo successivo è la porta per la grande fessura ma deve riuscire a superarlo senza toccare il gigante inquieto. “Biriz, spostati più sopra a farmi sicura che se questo si muove vi esplode davanti… sempre che non prenda a rotolare già per la valle…”. Non so se mi agghiaccia più quel roccione o l’idea di dovere andar dietro al Guero per recuperare il materiale. Guero si alza e piazza un chiodo: io da sotto mi sposto ed inizia il suo movimento, lento, delicato, cruciale. Come quel vecchiaccio alla sua età possieda tanta forza e controllo è un mistero tutto yogico! Poi, comunque, passa: “Biriz, questo chiodo lo lasciamo. Lascia anche il cordino nelle fessura. Il resto toglilo. Ora comunque diventa più semplice: preferite che faccia sosta qui o vado fuori in cima?” Io e Teo speravamo desistesse ed ora ci guardiamo l’un l’altro spaesati: “Tu vai su? io no…” “…io neanche, ho già dato con i boccioni instabili!”. All’unisono ci giriamo verso Rino: “Bhe, Rino, questo è il tuo primo giorno: tocca a te!” Rino accetta divertito e per nulla intimorito.

Ivan se la ghigna dall’alto ed esce in cima al Gran Madornale inseguendo la spaccatura che da tanto tempo voleva vedere. Quando Rino attacca il primo strapiombo io e Teo ci rendiamo conto di tre cose: la prima è che ci è andata di lusso schivando il tiro, la seconda è che Rino è davvero forte, la terza è che l’esperienza di quei due, acquisita in decenni, è qualcosa che spesso appare fisicamente visibile nei movimenti. “Bhe, Teo, mettiamola così: era quasi quarantanni che dovevano legarsi insieme, lasciamo che questa via sia qualcosa di speciale solo tra loro. Aspettiamoli qui…”

Poi vabbè, la via verso casa è sempre lunga e spesso, prima di ritrovarsi davanti la pasta asciutta di Bruna, si allunga anche in improbabili deviazioni attraverso il Pacifico: la vita è un curioso viaggio avventuroso!

Davide “Birillo” Valsecchi

Esami a Settembre

Esami a Settembre

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«Questo non è il VietNam! Ci sono delle regole!» L’elicottero del soccorso alpino, trecento metri sotto di noi, continuava le esercitazioni nel canalone Bobbio. Il frastuono rimbalza tra le pareti saturando l’aria di caos e confusione. Due camosci si fermano ad una trentina di metri da noi quasi vogliano domandarmi «Che accidenti di fracasso state combinando oggi?! Siete strani forte voi bipedi! Voi altri due, poi, non lo avete visto il sentiero?» Mi piacerebbe fargli una foto ma, in quel pandemonio, ho le mani occupate a fare sicura al Guero sopra di me.

L’accordo era chiaro: andiamo a fare delle roccette semplici semplici che sono fuori allenamento con la testa. Eccoci quindi qui, con il Guero che ammucchia tra loro friend e piazza un chiodo (evento raro) per proteggere un passaggio strapiombante: «Dal parcheggio non sembrava buttasse tanto fuori!» Già, mille metri di dislivello tendono ad appiattire le prospettive…

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Finalmente capisco che è in sosta ma, con il fracasso dell’elicottero, è impossibile capire cosa mi stia urlando. Quindi parto e, per far prima, mi lego a metà della corda senza aspettare che la recuperi tutta. Già, roccette facili…

Rassegnato mi applico alla salita cercando di lavorare bene di piedi e di guadagnare il più possibile evitando movimenti troppo intensi o faticosi: in pratica arrampico come andrebbe fatto. Rimonto fino a dove strapiomba, studio i piedi e mi alzo oltre il passaggio. Mi attaccato ad una manetta ma prendo il martello con l’intento di schiodare. Il mio economico canapone arancione dell’ 11 però non ne vuole sapere ed appena provo ad appoggiarci il peso si allunga verso il basso. Cercando di metterlo in tensione mi abbasso e rimonto nuovamente lo strapiombo (e siamo a due). Nel fracasso urlo a Guero di tirare ed il canapone sembra irrigidirsi un po’ ma ad ogni tentativo mi riappoggia comunque sotto lo strapiombo. Risalgo un’altra volta (e siamo a tre) ma non c’è verso di riuscire ad utilizzare quella corda per schiodare: devo riuscirci tenendomi con una mano sola.

Prendo un appiglio verticale con la destra e provo ad usare il martello da mancino tenendomi sui piedi. I risultati sono scarsi, il corpo è tutto fuori asse e comincio ad essere stanco: il chiodo non vuole uscire. Per un secondo accarezzo l’idea di abbandonarlo mentre la stanchezza comincia a sussurrare maligna «Arrenditi, lasciati cadere, lasciati sulla corda e fatti calare. Vai a casa, lascia perdere, accettati.» Strani momenti quando arrampichi.

«Nella migliore delle ipotesi la sosta sarà un cordino attorno ad una pila di sassi su cui sta seduto a gambe incrociate il Guero…» Un pensiero buffo, distorce la realtà descrivendola però nella sua essenza. «Non puoi arrenderti Birillo, questa è la realtà. Semplicemente non puoi». Dura un istante ma finalmente qualcosa scatta, qualcosa che non sentivo da tanto, forse troppo tempo. Non c’è rabbia, non c’è ansia, ma solo una ritrovata consapevolezza: sono lì.

Cambio mano, ed incrocio le braccia mentre riposiziono i piedi. Riprendo il martello e schiodo, …finalmente. Riparto, rimonto ancora lo strapiombo e mi appoggio con i piedi su un ballatoio. Ho il fiato corto, incastro un avambraccio in una fessura e sgagio qualche sasso con i piedi fino a trovare un appoggio solido. Diritto non salgo, respiro, giro le anche e vado in spaccata con la gamba sinistra cercando dove pareggiare con il piede destro. Vado, arrampico, un diedrino delicato e sbuco con la testa su una cengia erbosa. Il rumore dell’elicottero si è finalmente allontanato: «Hey Biriz! Fermo lì che ti faccio una foto!» (…quel curioso aggeggio che usa per farmi sicura bloccherà se lascia le mani?)

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Quando arrivo in sosta (assolutamente solida) mi sento diverso. La mattina, quando mi ero alzato lavandomi i denti davanti allo specchio, mi sentivo stanco, sentivo crampi e dolori ovunque. Il morale era sotto i tacchi. L’altra sera, a cena dai miei, mio padre mi aveva fissato dritto negli occhi «Che stai combinando? Sembri invecchiato tutto di colpo!». Ma ora, a quella sosta, sembra esserci una persona diversa: «Ciao Sguero, eccomi finalmente!»

DSCF4885Il tiro successivo la roccia è bellissima, “leggermente” friabile all’attacco ma poi strepitosa. Mi muovo e respiro, lasciando che siano i movimenti a guidarmi. Devo essere grato a quel vecchiaccio: forse non siamo sulle roccette che mi aveva promesso ma il risultato è stato di certo quello sperato. Eccomi qui, sono di nuovo qui.

L’ultimo tiro è un camino, un po’ orrido, ma piacevole. Poi eccoci qui, appena sotto la cima del Dente, mentre traversiamo su altre roccette curiosando qua e là. Insacchiamo il materiale e giù, nuovamente per il canalone Bobbio. A Lecco ci infiliamo nella solita birreria «Esami a Settembre: chiamiamola così.» Al Guero piace, o forse manco gli interessa: è felice, della via, della roccia, di come abbiamo arrampicato. Ingolliamo un paio di birre medie mentre ci servono patatine per pranzo. «Sguero, prima del treno abbiamo ancora tempo: cambiamo finalmente il vecchio canapone arancione? Mi aiuti a sceglierlo?» Come due adolescenti molesti e logorroici ci infiliamo nel negozio di “Gigi Che Sbatta” che, con pazienza stoica, appoggia sul bancone la nostra nuova corda. Esami a Settembre: finalmente passati.

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Doooliiivan

Doooliiivan

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Giovedì mattina finivo di preparare lo zaino ed ero decisamente contrariato: la corda, i rinvii, l’imbrago, le scarpette strette… non ero più abituato all’equipaggiamento pesante. Camminare senza meta con il sacco quasi vuoto era stato un piccolo lusso che mi avevano concesso le Grigne. Ma Ivan voleva arrampicare ed effettivamente erano passati quasi tre mesi (da quando Bruna si è fatta male) che non facevamo nulla insieme. Era tempo di rimediare… ma lo zaino, il peso, l’asfissiante noia di attendere in ansia appeso alla sosta …il secondo di cordata porta una croce pesante, spesso senza medaglie.

Poi suona il telefono: «Davide, tu non ci crederai, sono in stazione ma ho perso il treno. Le macchinette non funzionano e non ho trovato nessuno che mi facesse il biglietto!!» Immaginarmi Ivan Guerini, arrampicatore leggendario capace di orientarsi senza incertezza nelle verticalità più spaventose, mentre si aggira come un “Travolta Confuso” in cerca di biglietto attraverso il marmo della Stazione Centrale era qualcosa di assolutamente spassoso!

«Sguero, non ti preoccupare: tanto oggi qui è brutto! Bruna però ha voglia di vederti: veniamo giù noi e mangiamo un boccone tutti insieme per pranzo?» Così ho preso Bruna e mio fratello e, con calma, siamo scesi in città a trovare Ivan e Monica. Il nostro pranzo è diventato una piccola festa ed un occasione per ritrovarci nella tranquillità domestica. Ovviamente abbiamo mangiato un paio di salutarie foglie di insalata e steso una mezza dozzina di birre!! Compresa quella artigianale regalatami da Geatano! (Grazie!)

Sabato quindi ci riproviamo, ma il duo diventa un trio e si unisce alla squadra anche TeoBrex. Recuperiamo l’anziano in stazione a Lecco con la consapevolezza che anche oggi, noi giovinastri, dovremmo darci gran da fare per riuscire a stargli dietro, sia sulla roccia che in tutto il resto.

Il mio zaino è carico come un macigno, ma il mio umore non sente il peso. La giornata è bella e la compagnia ottima: vagabondiamo spensierati inseguendo i nostri pensieri, sghignazzando felici come ragazzini in gita. Sguero storpia una canzone dei Creedence Clearwater Revival trasformando “Molina” in “Dolina”. Noi rilanciamo e “Dooooliiivan” diventa il ritornello in coro con cui rimarchiamo ogni sua uscita o battutaccia.  I CCR sono un ottima colonna sonora per una selvaggia giornata NoSpit.

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 La roccia è buona, lavorata e bella. Ivan ha capito che per me non è periodo per stressarmi verticalmente, che sono stato fermo troppo a lungo per stamparmi sul muso l’ansia dell’arrampicata. Sceglie con cura le sue linee e la natura sembra assecondarlo regalandoci clessidre, appigli ed appoggi. Lo vedo ingaggiare un passaggio complesso, ma poi mi rendo conto di come si soffermi solo per valutare e proteggere la salita del secondo: è un vecchiaccio generoso ed attento, un buon amico. Sono contento di avergli dato retta: lascio che la ruggine che appesantisce pensieri e gesti si dissolva. Mi piace arrampicare, anche se devo tirarmi dietro tutto quel materiale.

Ogni tanto ricado nel mio periodo “Preussiano”: “La misura delle difficoltà che uno scalatore può affrontare in discesa, con sicura e piena coscienza delle proprie capacità, deve rappresentare l’estremo limite delle difficoltà da lui affrontate in salita.” Liberarmi dall’imbrago, dalla corda, dai mille aggeggi ed appoggiare le mani solo sulla roccia che vuole essere toccata. Poi Ivan, mentre io e Teo sistemiamo la corda, si innalza slegato con disinvoltura su una colonna alta otto o nove metri. Arriva in cima e ridiscende ancor prima che noi si abbia finito di riordinare.  “Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità.” …avrebbe aggiunto Paul Preuss continuando con le sue regole. Così capisco che la corda ed i chiodi non servono a salire, servono a tenere insieme una cordata.

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Forse i miei pensieri lampeggiano sulla mia fronte perchè Ivan mi fa una proposta nuova: «La prossima volta io e te ci portiamo una corda da venti metri e passiamo la giornata ad arrampicare su quegli speroni più bassi.» L’idea mi piace, ho voglia di immergermi nuovamente nei movimenti, in quei gesti che muovono il corpo sulla roccia ridefinendo equilibri interni molto più ampi di quelli fisici. Accetto e rilancio prendendolo in giro: «Okay! Dooooliiiivan!»

Tutti e tre sghignazziamo e cominciamo a ridiscendere verso valle. Sul sentiero incontriamo due signori attempati: camicia da montagnino, berretta e cordone appeso sullo zaino. Avevano ripetuto la normale, una classica, di una delle torri lì vicino. Il più anziano dei due, stuzzicato da Ivan, attacca bottone: «Ho ottant’anni ma sono salito ancora!» e poi rilancia (senza sapere con chi sta parlando) con un romboante: «Giovane… io sono un alpinista, non un arrampicatore: faccio prima a dirti quello che non ho fatto che quello che ho fatto in vita mia!»

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 Un vero spasso! Io e Teo stavamo per scoppiare a ridere terrorizzati dal polverone che poteva nascere da un uscita del genere. “Giovane….” Ivan invece non solo era divertito, ma era davvero contento di parlare con loro: abbiamo fatto un lungo pezzo di strada insieme e, sempre senza presentarsi, abbiamo parlato a lungo di arrampicate e di vie classiche. Ivan è un anima libera, libera sopratutto da tutte le etichette che negli anni hanno provato ad appioppargli: ascoltarlo mentre chiacchierava con quegli sconosciuti era un piacere per tutti noi. Alla fine è scattata pure la foto di gruppo tra simpatici estranei, semplicemente felici di aver condiviso parte della propria giornata tra i monti.

Sulla via del ritorno ci siamo fermati nella nostra consueta birreria del sabato pomeriggio …per reidratarci! Adolescenti, siamo anziani adolescenti: solitamente è a questo punto che le cose si fanno davvero complicate! «Doli-i-i-i-van, where you goin’ to? She’s daughter to the mayor, Messin’ with the sheriff, Drivin’ in a blue car, She don’t see no red light.»

Davide “Birillo” Valsecchi

Ivan il Terribile

Ivan il Terribile

20160817_134558Era un po’ di tempo che Ivan voleva andare ad arrampicare da solo con me. Ultimamente i BADGERS più attivi sono alle prese ognuno con i propri problemi, con le proprie vite e con il fattore ferie, per cui riuscire a fare qualcosa insieme risulta un attimo incasinato da organizzare.

La scorsa settimana un nutrito (nel senso che ci nutriamo per bene) gruppo formato da Veronica, Daniela, Andrea, Ale, Mav ed io (guidati da Fabrizio Pina) è riuscito comunque a mettere insieme una giornata di canyoning nella spaziale Val Bodengo; ringrazio ancora tutti per la magnifica giornata, ci siamo divertiti come dei bambini in un grande parco giochi acquatico!

Josef è occupato con la sua splendida famiglia, Nicky già lavora, Keko organizza party selvaggi in piscina (ahahah), Bruna è ancora infortunata (ma sempre molto attiva e propositiva) e Birillo è alle prese con la scoperta delle Grigne e temo che per un bel pezzo per far qualcosa con lui, toccherà seguirlo nelle sue ravanate 😉

Quindi a me tocca “stare dietro” al vecchietto. Assicuro che non è cosa semplice, ma risulta essere sempre molto divertente ed istruttiva. Appuntamento mercoledì (17 Agosto 2016) alle 9.15 alla Stazione di Lecco. Puntuali partiamo ed in poco tempo, traffico pressoché inesistente, arriviamo a parcheggiare l’auto. Dividiamo il materiale ed iniziamo a salire. Condizioni meteo perfette, ci troviamo a ripercorrere per un breve tratto il sentiero che porta alla VIA DEI MAGNIFICI QUATTRO, ma la zona da esplorare è da tutt’altra parte e di tutt’altra fattura. Abbandoniamo il sentiero sicuro ed iniziamo a seguire le tracce degli animali che portano alla base di pareti praticamente identiche a quelle più famose dell’arco Dolomitico.

Lungo il cammino siamo circondati dalle marmotte che spuntano fuori da ogni roccia ed il silenzio totale di quel luogo magistrale viene a volte rotto solo dal loro classico richiamo; sembra di essere chissà dove ed invece laggiù in valle riesco quasi a scorgere la forma inconfondibile della montagnetta di casa. Iniziamo una ricognizione attorno alle pareti camminando su materiale di frana molto instabile e su paglioni non propriamente invitanti, il sole inizia a friggere la pelle e quindi decidiamo di cominciare da una parete completamente in ombra. Ivan sale con calma ed in silenzio, io allongiato ad una roccia con un cordino legato con un doppio inglese lo seguo assicurandolo, sì …ma dove se non mette mai niente!?!

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Non ci fossi io salirebbe totalmente slegato come solo lui sa fare ed invece la sua ascensione è spesso interrotta perché attentamente mette e rimette friends e nuts per non creare troppa difficoltà a me che per secondo dovrò ripulire e riprendere il materiale. È incredibile come meticolosamente calcoli il punto esatto per assicurare la via e come sia in grado di vederla mentre la apre. Spende tempo per prepararmi l’uscita di un traverso non proprio rassicurante, dicendomi che preferisce perdere qualche momento in più di tempo ma evitare che nel caso di caduta io faccia un pauroso pendolo tra le due pareti. Paurosa è invece la tranquillità che ha a preparare il tutto in una posizione agghiacciante!

Nel frattempo inizio ad avere freddo (si lo so è incredibile) e mi scaldo le mani soffiandoci sopra e sfregandole, ma è arrivato il momento di partire. Salgo leggero col respiro tranquillo ed in poco tempo sono alle prese col primo friend che riesco a togliere velocemente recuperando il cordino, arrivo ad un kevlar infilato magistralmente in una clessidrina stupenda (quando Madre Natura ci si mette d’impegno crea cose stupefacenti) ma non riesco a fare abbastanza forza.

Cerco una posizione migliore ma la gravità si percepisce forte, lo strapiombo mi spinge fuori! Cerco il modo di trovare l’equilibrio ed incastro nel vero senso della parola la mano destra in una fessura e coi denti e la sinistra tento di sciogliere il nodo galleggiante del cordino. La fessura è bagnata e gelida e nel giro di pochissimo perdo completamente la sensibilità delle dita percependo un principio di congelamento, inoltre anche l’avambraccio comincia ad “inghisarsi” non poco.

Utilissima per imparare è stata l’ascesa fatta col buon Josef qualche tempo fa in Grignetta (Via Albertini 150m IV al primo Magnaghi, Via Lecco 140m IV+ al terzo Magnaghi, Via Chiappa-Mozzanica 50m V+ al terzo Magnaghi) dove spesso e volentieri mi lasciava materiale da recuperare nelle clessidre o nelle fessure per capire i movimenti giusti, per rimanere fermo in parete ed avere l’equilibrio sufficiente per tenere una mano libera da usare per recuperare cordini, moschettoni e rinvii.

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Riesco a togliere tutto, ma non riesco a ripartire perché la destra è inutilizzabile, Ivan è dall’altra parte che mi assicura in sosta e non mi può vedere allora gli urlo di tenermi serrato perché devo far riprendere la circolazione alla mano, perché il passaggio chiave della via deve ancora arrivare.

Gentilissimo mi rassicura dicendomi che le prossime vie le faremo al sole, seguendomi perfettamente con la sicura. Ripresa la sensibilità salto fuori dal traverso e monto su un altro strapiombo e liberando l’ultimo cordino sono in cima. Ivan soddisfatto smonta la sosta e con il suo solito tono da presa in giro se ne esce con una delle sue: “Teo, girati! Perché quelle guglie ci stanno guardando?” Chi lo conosce non potrà non farsi che grassa risata immaginando il suo modo di parlare quando spara stupidate 🙂

Si comincia a scendere verso la parete esposta al sole, riusciremo poi a portare a casa altri tre tiri stupendi, sempre lasciando inalterata la Motagna e la difficoltà. Lasciamo solo un chiodo come testimonianza poco prima del passaggio chiave della via più stupenda della giornata. Un passaggio tecnico strapiombante valutato da lui in VIII+ ma che per la bellezza della salita non pensavo potesse essere di tale difficoltà; che poi, onestamente, questa cosa dei gradi non l’ho mai capita e mai la capirò: beata ignoranza!

Scendiamo pensando già alla prossima visita a quei luoghi e che a quanto pare sarà l’ultima in quanto in quella zona non c’è più altro da scoprire. In macchina giriamo cercando un bar aperto, ma alla fine ci ritroviamo a bere birra commerciale in bottiglia seduti all’ombra di una cartello segnaletico lungo la banchina della stazione di Lecco. Che disagio!

Una giornata stupenda, ricca di chiacchiere, racconti, risate e momenti di serietà (ben pochi) ma sopratutto di insegnamenti che solo la Montagna ed una persona che sta dedicando una vita intera a lei ti possono dare. Il treno per Milano arriva puntuale, il vecchietto sale sorridendo ed io me ne torno a casa con lo zaino carico di un’altra bellissima esperienza.

Matteo “TeoBrex” Bressan

Bergamo non cede

Bergamo non cede

Frattura multipla, ma composta, dell’alluce con lacerazioni da scoppio. Sabato la nostra cordata è rimasta vittima di un piccolo ma importante incidente: fortunatamente le conseguenze non sono state troppo gravi e questo, per me, è il momento del debrifing. Il momento di capire cosa è andato storto e cosa è stato fatto per raddrizzare la situazione.

Io, Guero e Bruna volevamo festeggiare la primavera arrampicando un po’ insieme, per questo abbiamo scelto il Pizzo Molteni, la struttura rocciosa alla sinistra del Pizzo Boga. La natura a gradoni di quella struttura verticale offre la possibilità di frazionare la continuità dell’arrampicata facendo sosta su piccoli terrazzi. D’altro canto la natura di quella roccia, a volte splendidamente compatta, a volte spaventosamente instabile, rende la progressione tutt’altro che banale anche, ma forse soprattutto, dove la difficoltà sembrano apparentemente basse.

Abbiamo cominciato ad esplorare una zona vicina a quella in cui con Mattia, tempo fa, avevamo aperto un interessante monotiro (probabilmente sulla stessa linea di “Millenium” dei Condor di Don Agostino). Conoscevo la zona e non mi impensieriva l’idea di continuare ad esplorare. I primi due tiri, protetti a fettucce e friend, erano abbastanza buoni sebbene la qualità della roccia richiedesse una lettura che forse l’esperienza di Bruna non permetteva.

Ivan tirava davanti, io e Bruna seguivamo ognuno sulla propria mezza. Io disarmavo e seguivo da vicino Bruna indicandole dove andare e cosa evitare. A metà del primo tiro Bruna si schiaccia un dito della mano tirando una presa: niente di grave, un graffio che avvolgo con un giro di nastro adesivo.

Ivan risale un dietro, dall’alto butta giù qualche sasso instabile ma la nostra sosta è fuori linea e sicura. Mentre faccio sicura ad Ivan, Bruna si siede a prendere il sole ad occhi chiusi. Non mi piace che si distragga ma non posso essere sempre un brontolone petulante. Bruna è molto forte, forse più forte di me, ma la poca esperienza forse non le permette di comprendere la vera natura del “gioco”. Non siamo in una falesia “addomesticata”, stiamo arrampicando nel senso più profondo ed autentico del termine. Ci si può concedere momenti di distensione, di gioia, ma non si può abbassare la guardia: smettere, nel senso buono, di avere “paura”. Bruna non sembra essere in giornata, non sembra avere la testa per affrontare questa roccia. Forse è stanca, la sua mente non ha lo spazio o la libertà necessaria. Al prossimo tiro voglio parlare con Ivan: ripiegare verso le vie più battute del pizzo Boga.

Quando chiama la sosta ci prepariamo a ripartire. Ivan è molto più in alto, fuori dalla nostra vista, riusciamo a sentirci ma è molto distante. Bruna traversa e risale un muro di tre/quattro metri infilandosi in un diedro. Non vedo particolari difficoltà, smonto la sosta e mi appresto a partire. Poi tutto inizia a muoversi troppo in fretta. Due grossi massi appaiono e fuoriescono da dentro il diedro. Bruna si sposta di lato mentre il rumore di roccia spaventosamente in movimento irrompe sulla scena. Poi, mentre i massi precipitano nel vuoto per trenta metri, un’istante di irreale silenzio. Ma quei giganti silenziosi tornano a ruggire quando il loro schianto si fa fragoroso ed appocalittico piombando sugli alberi e sulla roccia sottostante.

Scatto e di slancio risalgo il primo muro quasi senza rendermene conto. “Sono qui!” Parlo a Bruna con il solo scopo per farle sentire la mia voce, non credo possa davvero ascoltare. Come uno scanner analizzo tutto quello che vedo: squadro le gambe, le braccia, il modo in cui si piega. Non vedo ferite ma c’è rabbia e dolore. Prima che possa intervenire Bruna slaccia le stringhe e toglie la scarpetta. L’alluce sembra aver preso una martellata ed inizia a coprirsi di sangue. La scarpetta era intatta, lo schiacciamento aveva creato le lacerazioni da cui perdeva sangue: la pelle era letteralmente scoppiata attraverso due grossi squarci.  Quei due massi erano crollati davanti a lei non appena li aveva toccati: era riuscita a spostarsi evitando che la travolgessero ma uno le aveva centrato la punta del piede prima di rotolare oltre.

“Merda!” lo penso ma non lo dico: devo darmi da fare. Le tolgo il giro di nastro che le avevo messo della mano e lo uso per “scocciare” l’alluce. Voglio chiudere quei buchi, subito. Dal suo zainetto prendo le sue scarpe da trekking e gliele infilo al posto delle scarpette da arrampicata. A botta calda mi serve qualcosa che contagna il piede e che lo protegga. Ivan, più in alto, non poteva vederci ma gli era chiaro che qualcosa era andato storto: ”Ivy!! Cala la rossa! La riporto in sosta!” Aiuto Bruna a muoversi, a spostarsi sul muretto. Tengo la corda mentre Ivan la cala fino al terrazzino sottostante. “Ora la Blue! Ivy! La Blue!” Prima che la corda vada in tensione disarrampico fino a Bruna. Piazzo un nat in una fessura a strozzo ed una fettuccia su una radice mettendola in sosta in un’angolo riparato del terrazzino. Le tolgo nuovamente la scarpa e le avvolgo il dito nella carte igenica (il primo emostatico fuoriuscito dal mio zaino) e lascio che lo stringa tamponando a mano. Dobbiamo ricompattare la squadra. Con un’altra fettuccia mi fisso ad uno spuntone: “Ivy!! Tocca a te!”

Ivan mi urla “Recupera le corde!”. Credevo si calasse in doppia ma le corde mi dicono qualcosa di diverso. Non capisco chiaramente ma le infilo in un moschettone e ne strozzo una in un mezzo barcaiolo. Poi capisco: Ivan non si sta calando, sta arrampicando in discesa rimuovendo le protezioni. Per questo a volte “chiede” corda mentre a volte devo recuperare in fretta: sta fecendo tutto da solo, la mia è solo una protezione formale. Solo a metà tiro capisco che ha trovato qualcosa su cui calarsi (un piccolo albero) e lo vedo riapparire nel diedro. Il vecchiaccio a volte può sembrare uno stramboide anacronistico ma posside davvero una classe infinita!

Tutti e tre di nuovo insieme in sosta iniziamo a “trattare” seriamente Bruna. Il sangue continua ad uscire. Diamo una pulita versando un po’ d’acqua. Poi, cerotto e nastro, impacchettiamo stretto dito e ferite. Il piede ha già iniziato a gonfiarsi e le sue scarpe sono ormai troppo strette. Togliamo la soletta ad una delle mie scarpe da avvicinamento e gli infiliamo quella (lei hai il 39, io il 43). Bruna, nonostante il dolore e le lacrime, continua a scusarsi senza senso: ”Vi aspetto qui, voi continuate, tornate a riprendermi dopo…” “Bergamo! Concentrati: dobbiamo andarcene da qui e devi aiutarci! Stiamo evacuando!”. Bruna capisce, finalmente entra in modalità da combattimento.

L’idea di calare Bruna nel vuoto non mi piace: è ancora spaventata e non sarebbe in grado di gestire la parte tecnica da sola. Mi serve una soluzione “low-tech”: scomoda ma sicura. Decidiamo quindi di ridiscendere un canale pieno di alberi, più scomodo ma più proteggibile. Ivan affianca Bruna mentre li calo. Bruna si muove bene, è dolorante ma riesce a sfruttare la corda ed il piede sano. Ivan la supporta e libera il canale da tutti i sassi instabili buttandoli giù. Più sotto si sopostano al riparto fuori dalla linea di discesa: è il mio turno. Tolgo la sosta a nat ed inizio a disarrampicare. Bruna ha le mie scarpe, io ho solo le scarpette d’arrampicata: fanno un male cane e scivolano sulla terra, ma sfruttando le piante riesco ad abbassarmi sulle roccette mentre mi fanno sicura da sotto. Quando li raggiungo ripetiamo la stessa manovra per altri cinquanta metri.

Bruna riesce ad appoggiare solo il tallone sostenendosi quasi a gattoni sulle mani. Nel bosco ha ancora la forza di scherzare: “Sembro quello del documentario. Quello che scendeva a gattoni nel bosco. Quello che ti assomiglia.” Per la cronaca si riferiva ad Alex Huber quando si infortunò in Yosemite allenandosi per il Nose (“Am Limit”, 2007). Superate le calate inizia la parte meno pericolosa ma decisamente la più penosa: lentamente, tremendamente lentamente, raggiungiamo insieme la macchina al parcheggio del Boga.

Infiliamo gli zaini e le corde alla rinfusa nel bagagliaio. Ho ancora ai piedi le scarpette d’arrampicata, ormai ridotte ad un paio di ciabatte, ma per guidare mi servono un paio di scarpe della mia misura. Quando Bruna mi rende le mie ho un attimo di esitazione. Una è inevitabilmente piena di sangue: mi concentro e la infilo, cercando di ignorare che quella liquida sensazione appiccicosa e calda è il sangue di mia moglie.

Al ponte della Gallina facciamo un’altra tappa. Prendo in braccio Bruna e la porto al lavatoio per mettere il piede sotto l’acqua corrente: è il momento di guardare cosa è davvero successo. L’acqua rende pulita la pelle e toglie emotività alla scena, tuttavia non ci sono alternative: è una faccenda che va sistemata, “rattoppata”. Bruna resiste mentre le fascio il piede per la terza volta. Lungo la strada lasciamo Ivan nei pressi della stazione e puntiamo all’ospedale di Lecco.

Ci sono volute due ore per tirarci fuori dal Pizzo Boga, ma ci sono volute otto ore prima di lasciare il Pronto Soccorso: la maggior parte del tempo lo abbiamo speso in attesa. Questa però non vuole essere una critica ai medici o allo staff del PS: ci hanno trattato al meglio nonostante quelle sale siano diventate un campo di battaglia durante l’attesa. L’ortopedico, che non era di turno, è entrato in servizio proprio per visitare Bruna: non riusciva a capacitarsi che fosse riuscita a fare tanta strada in quelle condizioni (… e non aveva nemmeno visto che tipo di strada era stata fatta!!) Le fratture all’alluce sono multiple, ma composte: questo dovrebbe semplificare di molto la guarigione. Le ferite, a scoppio, sono profonde ed in punti scomodi. Ci è voluto un po’, anche dopo le suturazioni, perchè smettessero di sanguinare. Servirà pazienza ed attenzione per farle guarire in fretta.

Sul Pizzo sapevo cosa fare, come muovermi e come valorizzare l’esperienza di Ivan. Bruna ha tirato fuori la sua parte “titanica” ed ha retto come meglio non sarebbe stato possibile. Ma in Ospedale, quando tutto quello che potevo fare era attendere, confesso di aver vacillato: la fame, la stanchezza, la tensione ed i dubbi si sono fatti pesanti. Quelli come me il destino o li annienta frontalmente o li logora a tradimento: le emozioni alla fine hanno spazzato la freddezza. Mentre Bruna era a fare i raggi non riuscivo a stare fermo, la mia mente ha dovuto arrendersi alla speranza ed è stata travolta da un unico pensiero: “Fa che non sia troppo grave, per favore, fa che non sia troppo grave”. Fortunatamente non lo è stato.

In salotto abbiamo steso un materasso tra i divani trasformando il soggiorno in una specie di “stanza-unica”. La notte i dolori si fanno sentire ma, con calma, ci stiamo attrezzando per completare la “riparazione”. Ci vorrà un po’, cercheremo di dare un senso a tutto questo tempo e a tutta questa storia.

Davide “Birillo” Valsecchi

Alla Rocca dei Malandrini

Alla Rocca dei Malandrini

DSCF7743Era da un po’ che Ivan ed io non arrampicavamo insieme: era tempo di fare qualche nuova “esplorazione”. Anche Mav era stato invitato ad unirsi alla nostra piccola scorribanda: i due si erano incontrati alla festa ed avevano avuto modo di chiacchierare e conoscersi.

Mav ed Andrea, nonostante la giovane età, fanno parte dei Badgers fin dalla primissima formazione. Sono entrambi due colossi e, sebbene siano molto diversi nel carattere, sono molto legato ad entrambi. In questi due anni osservarli crescere, soprattutto come persone, è stata davvero una piacevole esperienza.

Al momento Mav è in gran forma, è giovane e scalpita, è desideroso di confrontarsi con sogni un po’ più grandi. Per me, che sono “nonno gufo”, è una fatica consigliarlo perchè cresca di intensità senza sconfinare nell’azzardo.

Come molti alla sua età si trova nella “terra di mezzo”: vomitato nel mondo reale dai corsi d’alpinismo ha fatto la sue esperienze con gli altri ragazzi ed ora, inevitabilmente, vuole di più. Il rischio è che affronti qualcosa fuori portata o che, ancor peggio, banalizzi le difficoltà che non è ancora in grado di comprendere, precipitando nella deriva dell’arrampicata sportiva contemporanea.

Arrampicare con Ivan, nei modi e nell’attitudine con cui arrampica Ivan, era l’occasione migliore per trarre la giusta ispirazione e conoscenza: un piccolo assaggio di un illuminazione superiore.

Il gruppetto roccioso che ci eravamo prefissati di esplorare era ancora in ombra e così, Bruna, si è avvolpacchiata al sole nei prati soprastanti. Noi, invece, abbiamo iniziato allegri il nostro gioco.

Per me arrampicare con Ivan è stata una piccola rivelazione. Molti dei pregiudizi e dei preconcetti che mi erano stati inculcati dal “pensare comune” si sono sciolti come neve al sole. All’improvviso rocce che sembravano prive di valore sono diventate stupendi mondi da scoprire in piena ed assoluta libertà.

Speroni di roccia alti venti o trenta metri che, ignorati da tutti, custodiscono la stessa bellezza ed intensità delle pareti più grandi. Anfratti sconosciuti che offrono ancora la magia e l’incognita della scoperta. L’arrampicata si trasforma, le scale di difficoltà o i “gradi” perdono di senso mentre la complessità che ti circonda diviene avvolgente e travolgente.

“Hey Mav, ti diverti? Meglio qui o in falesia?” Il suo sorriso, mentre in spaccata stacca un friend, è la miglior risposta. Tasta la roccia, controlla i movimenti della corda ed i sassi più piccoli. Camini, fessure, strapiombi aggettanti, appigli ed appoggi tutti da capire: tutto attorno a noi è una meraviglia da esplorare.

Pensateci. La maggior parte di noi ha iniziato da bambino aggrappandosi ai sassi o alle roccette. Salivamo più in alto possibile e l’unica via era quella che riuscivamo ad affrontare, quella che ci portava là dove la nostra curiosità ci spingeva. Poi, all’improvviso e senza una vera ragione, tutto si è fatto complicato, difficile, macchinoso, obbligato. Ci hanno convinto che senza resinati o fix non si possa e non si debba arrampicare, che ci si debba diligentemente attenere alle linee prefisse da altri che saranno sempre migliori di noi. Si fa un gran parlare di sicurezza senza rendersi conto che è l’ignoranza e la mancanza di cultura il pericolo peggiore. No, questo mondo mi spaventa: non è quello che vorrei per i ragazzi della squadra.

Osservo Mav, incastrato in una fessura, mentre smonta una strepitosa protezione a tre punti di Ivan: un cordino in una clessidra, un friend piccolo in un buco, uno grande del cuore della fessura. Tutto raccordato abilmente insieme per un passaggio elegantemente da brivido.

Sono davvero felice che abbia “visto” o anche solo “intravvisto” la differenza. Quattro vie, nuove ed estemporanee, per “ricalibrare” il concetto d’arrampicata: “Malandrino”, “Il camino del Marrano”“Fedifrago” e la bellissima fessura di “Brindiamo: viva l’Italia, viva la Bruna!”.

Ora che Mav ha toccato con mano, ora che ha compreso, spetterà a lui definire la sua strada. Per me, Nonno Gufo, è una piccola gioia sapere che non ho nient’altro di importante da mostrargli sull’arrampicata.

Davide “Birillo” Valsecchi

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