Category: XPlore

«A detta degli apritori la via volle essere un invito a raggiungere, per tutti i frequentatori della valle, un felice equilibrio con la natura, libero da qualsiasi desiderio eroico, competitivo e di conquista».

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L’Asino chiama, il Tasso risponde

L’Asino chiama, il Tasso risponde

1-dscf7174E’ appollaiato sulla dodicesima cassetta impilata che mi rendo conto di quello che sto facendo. Dall’alto la colonna mi appare assolutamente inclinata, fuori controllo: fuori baricentro muovo tutto il peso fuori asse tentando di mantenerla in equilibrio. Provare ad aggiungere una cassetta ormai per me equivale a precipitare.

Per un istante mi sento come il Dottor Sam Beckett di Quantun Leap: «Che diavolo sono venuto a fare quassù? Ed ora come scendo!?»

Questo è l’annuale party degli AsenPark, l’Animal House per l’alpinismo del Lario Orientale. Ai piedi della colonna, con il naso all’insù verso un anziano Birillo incrodato sulle cassette di plastica dell’acqua minerale, c’è una platea di giovani arrampicatori, sciatori ed alpinisti. Berna ed il Tarlo ne hanno impilate venti: chissà, forse mi serviva un’altra birra per aggiungere la mia tredicesima. “Ciò che non riesce ad andare su deve per forza andare giù”. Speriamo che Gandalf tenga! Volo, la colonna crolla, cassette schizzano in ogni dove mentre resto appeso ad uno stravagante imbrago da lavoro! Accidenti! In dodici mesi è la seconda volta che volo: l’altra era sulla nord del Moregallo, ma la strizza è la stessa!

“Accidenti che agghiaccio! Andiamo a bere!”. La catarsi è compiuta, si accendono i falò, attaccano la musica e si riempiono i bicchieri: ora si inizia davvero a fare festa!   

1-dscf7217La mattina successiva è intrisa d’erba fradicia sulle pendici del Moregallo, ogni passo trasuda di quell’intruglio che è il “220”, una magica pozione composta da vino bianco, campari e gin che noi sull’Isola chiamiamo “Coppa Aurora”. Abbandoniamo il sentiero del Cinquantenario Osa per inseguire tracce ormai quasi dimenticate che si immergono sui fianchi delle valli più nascoste. “L’asino chiama ed il tasso risponde”. Lontano dagli uomini, sotto lo sguardo dei Mufloni, gli animali del Moregallo si scambiano i segreti pazientemente carpiti alla montagna selvaggia.

Vecchi casotti, scolorite indicazioni e passaggi insospettati per mille metri di dislivello fuori sentiero: gli animali dell’Isola hanno la loro arca di Noè.

Davide “Birillo” Valsecchi

A.B. Normal

A.B. Normal

dscf6946“I’d sail across the ocean, I’d walk a hundred miles, If I could make it to the end, Oh just to see a smile” Gli Iron Maiden urlano nelle casse della mia sveglia che l’infanzia è finita (Childhood’s End). Il piede di Bruna comincia finalmente a sistemarsi e lei si è svegliata prima delle sette per allenarsi in salotto. Mentre si accanisce con gli addominali io mi presento in pantofole, con una tazza di caffè e l’aria smarrita di Vincent Vega: mi sono appena svegliato e sono stanco solo a guardarla!

Quando esce per andare al lavoro anche io imbraccio il mio zainetto: “Bene Birillo, andiamo a farci un giretto”. Sono rimasto chiuso in casa per via dell’influenza e del mal di schiena, ora ho solo voglia di sfogarmi, di immergermi nel mondo e concedermi un avventura. Senza un piano ben preciso mi ritrovo in via Stelvio a Lecco, all’attacco del sentiero dei Pizzetti. Risalgo rapidamente la serpentina che rimonta la prima rampa e devio sulla punta del Pilastro Pensa per dare un occhiata alla grande ed imponente parete del San Martino.

“Secondo me di là si passa…” Accanto alla croce osservo le balze rocciose che sopra la parete rimontano fino alla cresta attraverso cenge e boschi “Io dico che un modo per passar su dritto forse lo trovo…” Non dovrei, ma la fantasia corre ormai da sola ed ogni mio vano proposito di raggiungere il sentiero del GER sfuma miseramente. Appena faccio un passo fuori dal sentiero mi imbatto in un camoscio che, sotto di me, mi guarda stupito dal basso: “In fondo un camoscio è un Tasso con le corna…”  

dscf6931Inseguendo le tracce degli animali rimonto un primo salto: la roccia è abrasiva e densa di lame ed appigli marcati. L’inizio è incoraggiante. Piego verso destra rimontando un secondo salto, ma questa volta sono grossi massi incastrati sporchi di terra e pieni di rovi. Con cautela guadagno una bella cengia erbosa e quello che trovo davanti quasi mi fa scordare i trecento metri di vuoto che incombono lì vicino.

Un diedro aggettante strapiombante rimonta in diagonale per sette o otto metri, il cuore del diedro è una fessura concrezionata di una bellezza straordinaria. Una piccola pianta nel primo quarto ed un’enorme clessidra nel centro, poi fessure e concrezioni prima del piccolo tetto d’uscita. Sono rapito dal quell’incontro: “Gli arrampicatori inseguono le difficoltà con il trapano senza rendersi conto della bellezza incontaminata che dona la natura, il solo grado che davvero abbia importanza”.

Scatto qualche foto mentre vengo assalito dai dubbi: “E se poi qualcuno viene e la spitta prima che tu possa salirla?”  Per un’istante penso al Burka, all’idea di nascondere la bellezza per proteggerla dalla barbaria e dalla brama degli uomini. Ma penso anche al medio-evo culturale che questa precauzione, forse in buona fede, finisce per generare. No, la bellezza è fuggevole per propria natura, non c’è modo di salvarla da chi non è disposto a comprenderla: forse l’unica cosa saggia è condividerla, conservarne il ricordo in modo che non vada sprecata.

dscf6952Una piccola cengia si sfila sotto la parete e mi permette di passare oltre raggiungendo la cresta. “Solitaria Esplorativa”. Rido affettuosamente pensando alle parole di Ivan ed al suo “gioco arrampicata”. Forse poche altre espressioni sono state tante fraintese: io di certo non ho il suo livello o la sua esperienza, ma in questo “gioco” la “posta” resta uguale per tutti.

La roccia è bella ed invitante, una fessura offre una strepitosa dulfer fino a delle grandi lame traverse che attraversano una placca pulita e ruvida. Speranzoso mi alzo di tre o quattro metri, la placca sembra abbattersi in una serie di onde ma anche le lame e gli appigli vivi sembrano sparire. Mi alzo quanto posso ma prima di entrare in appoggio sulla placca mi fermo. Per raggiungere i grossi massi sopra la placca devo fare un paio di movimenti in aderenza prima di allungare le mani oltre il culmine per uscirne. “Birillo, se non trovi niente per uscire la fai a pelle d’orso la discesa?” Alla base della placca una bella clessidra mi sorride ma io non ho fettuccia, corda o compagno con cui farne buon uso. Provo ad aggirare la placca sulla destra ma trovo solo blocchi e terra. A malincuore disarrampico con attenzione i quattro metri consolato solo dalle parole di Giancarlo Bolis “Mica è stupido, se non riesce a passare scende e prova da un’altra parte!”. Una fessura verticale sulla sinistra  sembra offrire un’alternativa ma all’uscita mi attendono ancora le incognite della placca.

“Forse se non avessi le scarpe da trekking…” Ma in certi casi un “se” equivale ad un “no”. Mi abbasso nuovamente cercando ancora più a sinistra dove la cresta è più esposta ma sembra più lavorata. “Forse si passa” mi alzo sfruttando una bella lama e mi imbatto in qualcosa di strano: un accrocchio di tubi di plastica bianca un tempo tenuti insieme da nastro adesivo nero. Ci sono pezzi di tubo da tutte la parti e tutto fa pensare che l’accrocchio sia venuto a basso dall’alto. “Chissà che diavolo era?!”.

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Ancora una volta mi scontro con un passaggio in placca viva verso sinistra. Ho una buona presa per la destra e la tentazione di rimontare è forte quanto il rischio. “No Birillo! Usa la testa!”. Così desisto e sulla destra mi infilo in spaccata tra enormi blocchi incastrati dall’aria poco rassicurante: “Basta non toccarli…” Mi sfilo verso un diedrino appoggiato pieno di terra ma munito di una piacevole pianticella.

Quella che doveva essere una gitarella distensiva è ora una salita vera e propria nell’ignoto. Da dentro un canale guadagno nuovamente la cresta da dove cerco di orientarmi e decidere la mia rotta. Posso continuare a seguire la crestina oppure ridiscendere nel canale e attraversare in obliquo verso la cresta principale del San Martino: “Non infilarti in un cul de sac, tieniti aperte più soluzioni!” Devo fare attenzione, restare concentrato: ormai sono troppo solo e troppo in alto per fare errori.

Seguo la crestina cercando di rimanere nel lato più protetto verso il canale: con calma e pazienza traccio la mia linea e finalmente arrivo in un boschetto d’uscita da dove ormai riesco a vedere i pali gialli della teleferica. “Dai che ci siamo!!”. Poi l’inaspettato: un ometto di sassi!

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Lo osservo con meraviglia. Sto esplorando: forse dovrei essere contrariato che qualcuno abbia impilato dei sassi per testimoniare il proprio passaggio sminuendo il mio? Forse sì, forse no, ma c’è qualcosa di atavico negli ometti di pietra, qualcosa che ha la forza di unire il cammino di sconosciuti attraverso una storia comune. Le difficoltà sono finite, non fa differenza, ma sono genuinamente felice di seguire quell’ometto ed incontrare i suoi compagni.

Trovo un sentiero ed una palina: cammino allegro e veloce raggiungendo l’arrivo della teleferica, le casette sopra la chiesetta bianca del San Martino. Non c’ero mai stato e mai avrei pensato di trovarmi davanti persino un campo di bocce con tanto di recinzione ed asse per la battuta!

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Mi godo il panorama mentre la foschia cala sul Crocione: senza visibiltà è ormai inutile proseguire verso il Ger in cerca di foto. Curiosamente mi suona il cellulare ed al telefono è proprio Ivan: “Davidone, dove sei?” Io gli racconto il mio giretto e lui mi descrive una via, la via delle Poiane, che dovrebbe essere vicino a dove sono salito io. Chiacchieriamo un po’, poi mi rimetto in marcia verso il Rifugio Piazza, scendendo lungo la parte alta dei Pizzetti e tornando al punto dove avevo lasciato il sentiero.      

Trovo dei segni ed un numero “10” scritti con della vernice rossa ormai sbiadita. I segni probabilmente indicano verso sinistra l’attacco della via mentre io, senza vederli, ho puntato direttamente a destra rimontando sull’altro lato. Alla fine, studiando lo schizzo della Via delle Poiane, scopro di aver rimontato la cresta destra di quella parete a due gradoni che la via risale direttamente. Per questo salendo non ho trovato chiodi imbattendomi poi negli ometti d’uscita.

In effetti per me è stata una bella fortuna perchè, conoscendomi, trovare un chiodo o i segni di un’altra via avrebbero condizionare pericolosamente tanto le mie scelte quanto la mia concentrazione. Senza niente sono stato libero di andare dove più preferivo e dove più mi sentivo sicuro, libero di tracciare una nuova via, l’ennesima “irripetibile” che è esistita solo nei momenti in cui la percorrevo.

Davide “Birillo” Valsecchi

La grotta rosa del Moregallo

La grotta rosa del Moregallo

dscf6480Il sole illuminava la Crestina Osa invitandomi ad approfittare della mattinata di sole che stava asciugando la roccia: infilo le scarpette da arrampicata in uno zainetto e mi metto in cammino dietro casa. Quando arrivo alla fontana di Sambrosera delle voci dall’alto mi arrivano chiare e distinte: “Molla tutto!” “Vengo?” “Recupero!” “Ma vieni o no?” “Aspetta!”. Non potevo vederli ma era chiaro che una cordata stava risalendo la Crestina: questo mandava a monte i miei piani. Raggiungerli solo e slegato mi sembra irrispettoso per la loro salita, ma sopratutto un loro eventuale errore può costarmi la pelle.

Così, vista la situazione, ho deciso di andarmene a zonzo curiosando nella zona della Crestina Verde. Dopo le piogge dei giorni precedenti non era consigliabile avventurarsi in qualche ravanata ma, ormai, ero deciso quantomeno a scattare qualche foto. Nonostante i miei propositi venti minuti più tardi ero appeso sulla roccia a curiosarne le forme e la compattezza. Quel settore è formato da guglie e creste non altissime, quasi soffocate dalle piante del bosco, in qualche modo ricorda i pilastri del Moregallo senza però averne l’estensione o la difficoltà. Mi sono alzato sulla roccia di una decina di metri e, come un giardiniere ho cominciato a guardarmi intorno.

La vegetazione, le piante morte e le foglie cadute dai settori sovrastanti, ricopre una distesa molto ampia di roccia umida quasi invisibile da lontano. Placche, pilastri e piccole creste quasi mai completamente verticali: qualcosa che da queste parti, dove tutto strapiomba, è decisamente raro. Faccio saltare un paio di sassi instabili e rimonto altre prese solide: questa zona può diventare il giusto anello di congiunzione tra le “Rocce degli Elfi”, la “Crestina Osa” ed i “Giardini Pensili”.

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Ci si può alzare abbastanza per spingersi oltre il bouldering, ma i tiri rimangono comunque corti e non verticali, c’è la possibilità di uscire e di riparare su piante. Certo, al momento tutto questo non è ancora visibile e la precarietà della roccia rende tutto decisamente pericoloso, tuttavia ripulendo il giusto, non troppo, e sfoltendo i rami delle piante (assolutamente da proteggere) si può permettere ai raggi del sole di asciugare e pulire la roccia. Ci vorrà un po’, ma confesso che è un esperimento che mi rilassa e mi diverte.

Ormai sotto di me ci sono una quindicina di metri e per proseguire oltre, fintanto che non è esplorato e ripulito, mi serve perlomeno un pezzo di corda con cui assicurarmi a qualche pianticella. Così, piego in un canale ed inizio una ravanata da antologia! Già il canale si rivela molto più arrembante del previsto e sono costretto a guadagnarmi l’uscita del “couloir” mettendomi decisamente d’impegno con qualche passo piuttosto impegnativo (ma mi sono anche divertito una cifra!!)

Uscito dal canale a colpi di spaccate e mastrufolate selvagge ed ardite mi ritrovo davanti un’altro canalone formato da due creste verticali e parallele. Decisamente meno impegnativo lo risalgo sbirciando il Corno Orientale da un punto d’osservazione insolito. Ridiscendo il canale puntando verso casa ma, visto che ormai sono lì, rimonto il camino dietro la grande placca abbattuta rimontandolo fin sotto l’uscita. Ad incastro tra le due pareti del camino mi manca solo un passo per uscire in cima, ma slegato e con le scarpette da trekking, non me la sento di saltare in piedi allo sperone e mi limito ad allungare il naso oltre le spigolo. Il camino è formato da un’enorme lama che appoggia sulla parete, sul lato opposto a quello in cui forma il camino è una placca che in una decina di metri arriva a terra: non è completamente verticale ed offre difficili ma rugose prese (minimo 6a credo). Senza bucare la roccia la placca è improteggibile, tuttavia attraverso il camino è possibile provarla corda dall’alto e questo per me al momento può decisamente bastare.

Sono ormai deciso a tornare verso casa ma nel bosco vedo un grosso pilastro che si innalza tra le piante: è una pila di sassi tenuta insieme dal muschio e dall’umidità ma dalla sua cresta conto di scattare qualche bella foto alle pareti di rimpetto. Con prudenza raggiungo il mio nuovo punto d’osservazione e mi godo il panorama: “Ma quella è una grotta?”. Ai piedi della parete appare una curiosa insenatura nascosta dietro una pianta: “Bhe, andiamo a vedere”.

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Riattraverso il bosco e raggiungo la parete. Ad un paio di metri da terra una vecchissima rosa selvatica nasconde una vulva rocciosa che si innalza verso l’altro di tre o quatto metri. In spaccata cerco di raggiungere la rosa. Il tronco è enorme, ma anche antichissimo e fragile.Le parti morte si sbriciolano al tocco ed ho paura che caricandoci il mio peso si stacchi tutta la pianta. Inzio uno strazno balletto da contorsionista sgusciando con il corpo tra le spine allungando le braccia fino alle labbra della grotta: sembra un parto al contrario! Finalmente riesco a distendermi all’interno rimanendo stupito da quello che mi circonda: mi aspettavo una piccola nicchia ma la camera interna è decisamente molto più grande ed alta di quanto mi aspettassi o apparisse dall’esterno. Inoltre la volta della grotta è completamente ed incredibilmente rosa! Uscire è una specie di parto nel vuoto in cui serve la giusta attenzione per slvaguardare la rosa e la propria pelle. Una grotta rosa nascosta dietro una rosa selvatica: davvero una scoperta inattesa e bellissima!

Davide “Birillo” Valsecchi

Moregallo Live and Let Die

Moregallo Live and Let Die

dscf6181Alle otto, come ogni stramaledetta domenica mattina, la mia vicina ha cominciato a berciare contro i suoi figli. Più o meno nello stesso istante Bruna ha cominciato a darmi gomitate nelle costole cercando di zittire le “madonne” con cui facevo eco alla vicina. Ormai svegli abbiamo scoperto che il sole era finalmente, ed inaspettatamente tornato: il che era una fortuna visto che a Valmadrera si festeggiava la giornata “Vivi il Moregallo”. Ci siamo fatti un caffè ed un’interminabile colazione. Bruna, per via del piede, ancora non può affrontare una salita alla cima, così si è preparata per un’oretta di riabilitazione in palestra. Io invece ho infilato le mie FiveTen nuove di pacca e sono partito per un saluto a quelli in vetta.

Quasi di corsa sono arrivato a Sambrosera: c’era un sacco di gente sul sentiero e qualcuno, visto che ormai erano già le undici, scendeva dalla cima con la classica maglietta ricordo. Per far prima ho scelto il percorso più diretto e meno affollato infilandomi diretto nel canalone Belasa. Volevo arrivare in cima in fretta, salutare il “Perru” e tutti gli altri prima di tornare di corsa a casa da Bruna. Un piano semplice, lineare diretto.”Sì, però, che noia: quante volte l’hai già fatto il Belasa negli ultimi due mesi?” In effetti quando lavoravo a Bergamo, con le giornate più lunghe, lo percorrevo a giorni alterni prima di cena…

Così, consapevole che questo avrebbe stravolto ogni piano e proposito, ho messo un piede fuori del sentiero deviando verso sinistra oltre l’orizzonte della collina. Speravo di scoprire qualcosa di nuovo, di affascinante, ma ero anche consapevole che probabilmente avrei trovato solo bosco e rovi. Ero abbastanza rassegnato e, forse anche per questo, le mie aspettative sono state stravolte e superate.

“Che spettacolo!” Davanti a me ho una specie di via di mezzo tra una piccola “Crestina Osa” ancora selvatica ed un mini “Grissino”. Attacco di lato e mi alzo di qualche metro cercando di capire la roccia. Le difficoltà contenute e la possibilità di uscire di lato su solide piante rendono quella cresta un regalo inaspettato: il luogo ideale dove poter condurre qualche esperimento in solitaria. Ma non oggi, serve di certo qualche chiodo ed una buona dose di pazienza per rimontare questo lungo tiro nascosto nel bosco.

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Potrei accontentarmi ma vien voglia di salire, così mi infilo in un canale/camino lì affianco puntando ad raggiungere l’uscita della guglia. La terra è nera e gonfia di acqua: il peggio! C’è umidità che cola, la terra cede sotto il peso ed i sassi ballano. Dovrei lasciar perdere ma insisto appeso agli arbusti. Mi piazzo di traverso, seduto sul tallone sono in una strana posizione a metà tra il salto dell’ostacolista e la spaccata: un piede su roccia bagnata e l’altro su terra nera. Mi viene un po’ da ridere: “Quando c’è da seguire Ivan con una corda dall’alto ti tiri indietro facendo la figura del pollo, poi slegato ti infili in questi casini… no, no, proprio bravo Birillo!” Mi allungo ed affero una pianticella, sposto il peso ed inizio a gradinare con la punta delle scarpe nuove. “E vai! Sempre meglio Birillo! Gigi che Sbatta è sul granito a provare un 7b trad circondato da tre affascinanti ragazze mentre tu, che un 7b manco con le Jumar, sei qui a ravanare in mezzo allo schifo. Già, già, proprio bravo Birillo!”

Butto via la testa: ho speso una fortuna per un paio di picche piolet da usare in queste “ravate dry-tool” e mai uno straccio di volta che le abbia con me quando mi servono!! Poi, con un elegante spaccata in aderenza erborea afferro il tronco di una pianta e mi tiro sù: “Vetta!”. Assesto un poderoso calcio alla sommità del pilastro e, visto che non è venuta a basso, ci rimonto sopra. Finalmente in cima mi gusto l’inconsueto punto di vista sulle guglie del Moregallo dimenticando tutte le incertezze del canale!!

“Davvero bello. Ed ora? Come si scende?” La vegetazione nasconde la verticalità che mi circonda rendendo insidiose le mie scelte. Posso insistere salendo ma rischierei di impegnare tutta la giornata cercando un’uscita in quel labirinto verticale. Se invece cerco un’uscita laterale devo fare attenzione a non passare di sotto infilandomi in qualche canale munito di salto finale. “Brillo, qui finisce che per scendere ti tocca appenderti alle stringhe delle scarpe. Che poi morire durante il “Vivi il Moregallo” sarebbe davvero di pessimo gusto!”

Fortunatamente la soluzione si dimostra molto più facile del previsto e, seguendo una comoda cengia, riesco a riabbassarmi in un bosco altrettanto pieno di piacevoli sorprese. Dopo una strepitosa placca con pianta mi ritrovo in un anfiteatro di roccia. “Porca vacca! Qui c’è da fare per tre inverni di fila!!” Tutta roba selvatica ed hard-core, vegetazione e sassi instabili, diedri e canali sporchi: se apri gli occhi e guardi bene sembra di essere nel cuore di una di quelle montagne famose, di quelle che spaventano gli alpinisti più eroici. Accidenti che posto!

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Studio eccitato le linee di affascinanti monotiri privi di senso e dignità quando tra le piante appare la grande parete grigia.“BAAAM! Quella non è uno dei miei giochi! Quella è roba seria!” Una spaccatura/diedro che attraversa, che sembra sfuggire tra lo zoccolo verticale e la strapiombante parete compatta. Rimonto un muretto erboso allungandomi verso la roccia: “Sorpresa, una catenella attaccata ad una clessidra” La scoperta aumenta la mia eccitazione: “Qualcuno è stato qui, qualcuno ha avuto la mia stessa idea!” Mi alzo nel diedro canale seguendo la catenalla fino alla base della parete. Vedo un chiodo rosso all’uscita dell’avvolgente semi-camino iniziale. “Ma gli altri?” Guardo e cerco ma non vedo altri chiodi o altri segni. “Bisogna chiedere, bisogna scoprire!”

Il vociare dal bosco si fa più intenso. Un papà prende in giro il figlio chiedendogli quanto manchi al rifugio. Escursionisti felici risalgono da Sambrosera. Sono tutti molto lontani, giù sul sentiero nella valle, ma la loro voce rimbalza ovunque. Vorrei rimontare il canale dove una promettente pianta si staglia sull’azzurro ma, senza corda, ho paura di dare inizio ad una nuova infinita perigrinazione: “Tanto torniamo!”

Mi riabbasso alla base del canale cercando una comoda via di ritorno: non voglio lasciare Bruna a casa tutta sola e le tre ore che mi sono concesso stanno per scadere. Curiosamente mi imbatto in qualcosa di inaspettato: la testa arrugginita e dimenticata di un piccone. Le possibilità che vi sia una cosa simile in un posto come quello sono scarse quasi quanto le possibilità che io, in tutto il bosco, riesca a trovarla: cose strane che mi succedono alle volte. A caval donato non si guarda in bocca e così me lo sono preso e portato a casa: un’altro cimelio!

Prima di addentrarmi nel bosco un ultimo regalo: una crestina Osa in miniatura che a stento emerge tra le piante. Spettacolo!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Nota: Mi spiace di non essere arrivato in cima al Moregallo per salutare gli amici. Spero non me ne vogliate troppo e che le foto possano compensare la mia mancanza. Se poi si riuscisse a far saltare fuori una maglia commemorativa anche per me non sarebbe affatto male 🙂

Il ritorno di Tasso Selvaggio

Il ritorno di Tasso Selvaggio

dscf5692Quando ero sbarbatello il mio maestro di Karate mi chiese “Birillo, secondo te è più pericoloso un avversario che ha provato 4000 calci differenti o uno che ha provato solo un calcio, ma quattromila volte?” Queste sono domande dannatamente strane, uno cerca di ignorarle ma rimangono appese e rimbalzano tra i pensieri per anni. Qualche giorno fa Ivan mi ha chiesto invece: “Biriz, secondo te è più forte uno che risale un tiro estremo o uno che risale 1000 tiri diversi di quarto?” Curiosamente questa domanda era diametralmente opposta alla prima e forse, finalmente, avevo la soluzione per entrambe.

Stavo risalendo verso Sambrosera puntando alla Crestina Osa: un giretto in solitaria per festeggiare l’arrivo dell’autunno. Ed ecco la soluzione. “Birillo, sei un pollo! Pesa più un chilo di ferro o un chilo di piume?” Già, la soluzione è semplice: “non è nè più forte nè più pericoloso, possono solamente essere la stessa persona”.

Un karataka, ammesso che non sia un decelebrato che pedissequamente ripeta gesti in modo meccanico, studiano un singolo calcio, anche il semplice calcio frontale, finirà inevitabilmente per esplorare tutti i suoi scenari d’impiego. Avanzando, indietreggiando, di lato, schivando, girando le anche, dandogli una piccola o una grande rotazione, cambiando la posizione d’impatto del piede. Senza rendersene conto le sue 4000 prove gli insegneranno 4000 calci. Anzi, questo è il solo modo in cui qualcuno può davvero imparare 4000 calci.

Un arrampicatore che chiude 1000 tiri diversi di quarto esplorerà roccia di tipologia e forme diverse, posizioni e movimenti diversi, imparerà a muovere il proprio corpo adattandosi alle diverse sfumature della difficoltà. Esplorerà emozioni diverse e formerà tanto il suo corpo quanto la sua mente: questo è il solo modo in cui qualcuno può davvero affrontare e superare un singolo tiro estremo. Certo …ammesso che il tipo del tiro estremo non l’abbia imparato a memoria cadendo mille volte sugli spit come si usa oggi.

Così mi sono chiesto se ripetere la bellissima Crestina Osa mi avrebbe dato quello che stavo davvero cercando. Forse il caldo, forse il vento, ho pensato che potesse essere più interessante curiosare alle base delle pareti. Volevo solo fare qualche foto ma poi, piano piano, ho iniziato ad alzarmi, a curiosare tra le rocce. “Purtroppo” mi ero ormai alzato troppo e non restava che proseguire 🙂

Un biacco ozioso mi è sfilato davanti bello pacifico, ricordandomi che la vera stagione esplorativa al Moregallo inizierà solo tra qualche settimana. Nonostante la foglia ancora alta ho visto grandi pareti e piccoli passaggi di boulder bellissimi, roccia saldissima nascosta tra le piante.

Mi sono alzato ed ho iniziato a seguire la cresta ovest riemergendo da un canale al buio. Fin quando non si supera in altezza i Pilastri del Moregallo (Grissino, Floreanna, ecc) si può scollinare nel canalone Belasa. Superati in altezza i Pilastri il fianco sinistro del Belasa diventa quasi impraticabile in discesa e, per uscire, non resta altro che puntare verso l’alto.

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Una spaccata su un canaletto verticale inquadra la mia situazione “Ecco Birillo, ora siamo in quella parte della giornata in cui se sbagli muori: quindi vedi di non sbagliare”. Per risalire si seguono le tracce dei mufloni abbandonandole per muretti di roccia buona quando queste si inoltrano per canali e terreni poco solidi. Man mano si sale il passaggio diventa sempre più obbligato e, prima del tratto finale di cresta, si deve sgusciare in una serie di diedrini erbosi a rimbalzo tra loro. Ero un po’ preoccupato di infilarmi in un “coul de sac” ma con un po’ di pazienza ho trovato gli incastri giusti. Purtroppo più si sale e più peggiora la qualità dei diedrini che, sebbene molto corti, iniziano ad essere decisamente fragili. Quelli rivolti verso il Belasa a volte sono parzialmente franati e sopratutto nei punti esposti questo non è rincuorante. Forse con una cordata si può rimontare direttamente alcune di queste strutture rocciose.

L’ultima parte di cresta è in comune con l’uscita della via di Ginetto Mora che esce dal Cep della Stria. Contavo quella fosse la mia linea d’uscita ma, immerso nelle piante, ormai potevo solo puntare verso l’alto: trovare finalmente il fittone della Crestina mi ha permesso finalmente di tirar fiato. Bagai!!

Più che una via o un itinerario è una ravanata: una salita nell’ingoto densa di difficoltà forse contenute ma da non sottovalutare. Qualche belle spaccata e qualche movimento delicato, specie sui terreni fragili, richiede qualche brivido. Bisogna fare grande attenzione a quello che si tocca e a quello che si muove.

Mi piace arrampicare, ma per me questo è il massimo: un’esplorazione su “misto verde” di quasi trecento metri di dislivello lungo tutta la cresta. Magnifico!! Alle volte fantastico su come potrebbe essere intensa una salita simile ad una quota maggiore, su creste costellate di grandi rocce incrostate di ghiaccio. Chissà, forse lì i miei 80 chili e la mia testa dura potrebbero trovare il loro ambiente naturale. Chissà, forse è tempo di curiosare anche altrove. Per il momento eccovi il Moregallo Occidentale in tutto il suo splendore!

Davide “Birillo” Valsecchi

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San Rocco al Palone

San Rocco al Palone

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Il piano era semplice: Prato San Pietro, Valle dei Mulini, Rifugio Bogani, Cima del Palone da Sud, qualche foto e poi a casa. Ma alle volte c’è una strana forza che cattura l’istinto e conduce lontano dalle mire della ragione, accompagnandoti esattamente dove la tua passione voleva arrivare: sembra incredibile ma a volte perdersi è il solo modo per trovare la strada giusta.

Così eccomi qui, nella Valle dei Mulini, una linea di per sè abbastanza selvatica ed impervia per raggiungere il Bogani. I ponti ed i cavi hanno addomesticato una salita che, diversamente, sarebbe tutt’altro che banale e che tuttavia, per i molti tratti esposti, non va comunque sottovalutata.

C’ero stato solo una volta in quella valle, in discesa, ed avevo persino bivaccato con la tenda durante il grande tour dei Flaghéé. In quella “piazzola” panoramica ora ci sono delle belle panchine e giunto in quel punto mi sono attardato, distratto dai ricordi. Poi, tra le piante, è apparso il profilo del Pizzo d’Eghen: anche lassù ho bivaccato, ma in condizioni davvero meno bucoliche.

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Cercando un buono scatto del Pizzo ho lasciato il sentiero, rimontando il prato in cerca di una radura da dove cogliere una foto. Puntando un canale mi sono imbattuto in sentiero assolutamente imprevisto. Su alcune piante la scritta rossa “Solix” ed un cavo metallico per abbassarsi sul fiume: un sentiero “serio” sebbene nessuna indicazione o bivio sembrasse segnalarlo a valle.

Dal canale ho scattato la mia foto ed ho cominciato a seguire quella traccia senza avere assolutamente idea di dove portasse. Un pensiero mi ha rubato un sorriso divertito: “Birillo, sono i boyscout che si mettono nei guai seguendo a casaccio i sentieri!” Ho fatto spallucce a me stesso. A scuola, da bambino, facevo una gran fatica ad imparare a memoria le poesie, ma per mappe e cartine ho un talento naturale: in qualche modo me la sarei cavata, il vecchio orso poteva continuare a seguire la sua pista sconosciuta.

Il sentiero, sempre marcato a bolli rossi, risale grandi boschi di faggio e questo mi faceva pensare potesse essere il “sentiero dei faggi” che porta al rifugio Riva. Tuttavia quella teoria andava via via perdendo di consistenza, si stava infatti alzando troppo di quota suggerendo un’altra possibilità più probabile. Quando Mattia ed io abbiamo fatto il Camino Cassin ci siamo avvicinati dall’alto, traversando da sotto la ghiacciaia del Moncodeno. Quindi, sebbene non lo conoscessi, quello poteva essere l’avvicinamento classico al Pizzo.

Sempre più incuriosito ho continuato a salire lungo quella traccia che diventava sempre più alpina ed aerea. Parte del grande fascino del Pizzo è dovuto anche alla straordinaria natura che lo circonda, ai colori, agli odori intensi di montagna vera e viva che lo circondano. Giunto su un crinale mi sono imbattuto in una segnalazione a vernice rossa: una freccia “Per la Parete”, l’altra freccia “PSR”.

“Il Pizzo lo conosco, scopriamo cos’è il PSR…” La traccia sale sempre più selvatica verso l’alto puntando dritta alle spalle del Pizzo, verso uno sperone che credo si chiami Pizzo di Strecc. Ogni volta che mi è possibile lascio il sentiero cercando una cresta o un’altura da dove orientarmi. “Stiamo andando su: o montiamo in spalla all’Eghen o giriamo dentro il canalone verso la scodella del Palone!” Ormai eravamo troppo alti perchè quella traccia puntasse verso Est ricongiungendosi al passo dello Zapel o alla val Cugnoletta. No stavamo andando diretti verso l’alto!

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Una placca argina il piede di un ripido canale erboso piacevolemente alpino. Una catena aiuta il passo ed una freccia a vernice indica “Passo San Rocco”: ecco tradotto il nostro “PSR”. Superata la placca il sentiero quasi si perde nell’erba: devo fare attenzione, non è posto dove mancare la svolta giusta. Giunto sul crinale un’affilata cresta si slancia nel vuoto verso la valle, con prudenza la seguo sebbene il vuoto assoluto cominci a circondarmi.

Sotto di me un abisso: il canale Vallori scende inquietante ed affascinante verso l’Alpe Zucc. Conosco i nomi di quel luogo perchè avevo spesso fantasticato di risalire quel canale esplorando quella zona tanto remota: ma le mie fantasie sfumavano osservando le spaventose difficoltà di quel canale verticalemente in frantumi. Tuttavia ero lì, in modo inconsapevole ero giunto esattamente dove volevo arrivare: un ultimo colpo di mano e potevo superare la parte alta del canale ed entrare nella scodella del Palone. Già, ma la faccenda non era comunque semplice.

Ancora non sapevo se il sentiero salisse verso destra (puntando chissà dove sulle spalle dell’Eghen) oppure (più logicamente) traversasse verso sinistra forzando il canale. L’unica certezza era la violenta apocalisse che si era abbattuta da quelle parti! Il canale era di per sè spaventoso ed implicitamente pericoloso ma l’unico punto dove sembrava possibile imbrogliarlo sembrava aver subito un bombardamento! Dal pilastro sovrastante una macchia gialla indicava chiaramente che una porzione di roccia, grande probabilmente come il pilastrello dei Corni, si era staccata precipitando verticalmente sulla placca appoggiata sottostante scatenando il pandemonio!

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“Pare proprio che si debba passare di lì…” Dallo sperone studiavo il lungo passaggio ammucchiando le incertezze. Forse una volta c’era un comodo sentiero, ora era un lungo traverso su detriti appoggiati a placche inclinate e salti rocciosi. “Se fiondi su quel geretto non bastano cinquanta metri per fermarti….” Nessuno sapeva dove fossi (forse nemmeno io), il passo era distrutto da una frana ed il canalone sembrava pronto ad inghiottirmi. In sala comando tutte le lucine erano accese e gli allarmi urlavano forte: ”No! No! NO!”. Ma nell’incertezza un pensiero è riuscito ad avere malauguratamente la meglio “Diamo solo un occhiata”

I pini mughi erano contorti e distorti dalla frana ed il sentiero sembrava perdersi nello sfasciume vivo oltre la vegetazione sopravvissuta. Mi sono buttato in placca cercando le vestigia di una qualche linea ma avevo l’impressione di camminare su una distesa di cocci rotti: la palude non ha punti fermi. “No, così non ce la faccio: è troppo!!”. Cercavo di restare concentrato ma il vuoto del canale sembrava strapparmi i pensieri. Poi, più in alto, ho visto un cavo nero nell’ombra di una nicchia: ”Idiota! Ecco dove si passa! Forse qualche cavo ha resistito”. Mi sono alzato rifacendo il punto della situazione. Chi aveva tracciato il passo era stato più furbo di me: non aveva puntato a testa bassa nel cuore delle difficoltà ma aveva seguito una nicchia orizzontale che, in qualche, modo aveva protetto i cavi.

Con qualche strattone provo la tenuta del fittone più vicino: “Bhe …diamo un’occhiata”. Finita la nicchia la situazione torna ad essere critica. Il cavo nonostante qualche sassata ha tenuto, ma la frana ha spazzato ogni appoggio sottostante. Con gli scarponi provo i sassi sporgenti cercando di caricare il meno possibile il cavo. Ho i piedi su roba che si muove e sono appeso ad un cavo la cui resistenza è tutta da valutare. Ho solo due certezze: se non arrivo dall’altra parte dovrò rifarmi ogni passaggio due volte, se mi crollano i piedi e sbottono gli ancoraggi passando di sotto neppure braccio di ferro riuscirebbe a tenersi attaccato a questo cavo.

Lavoro concentrato, evitando le apnee. Il giocattolo che ho al polso più tardi mi dirà invece che le mie pulsazioni sono schizzate a 130b/m nel cuore del passo. Verso la fine il cavo diventa lasco, vedo la sconsolante punta di un fittone penzolare mentre il cavo è avvolto, alla meglio, attorno ad un mugo traballante. “Bhe… allora qualcuno è già passato…vedi stramaledetto fifone?!” Quel tratto di cavo è inutilizzabile ma si può rientrare un un piccolo canale e, per quanto il fondo sia franoso, ci si può proteggere con qualche solitario appoggio solido.

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Sull’altro lato del passo mi sono fermato a prendere fiato: “Porca eva! Fiuuuuu! Che sgagia! Mangiamoci un panino!!”. Per quello che è dato sapere almeno due incoscienti hanno attraversato il passo dopo il crollo, per certo uno dei due (io!) se l’è quasi fatta sotto! Senza quei cavi incerti non sarei riuscito a passare e questo dovrebbe dirverla lunga sulla precarietà ed inagibilità attuale del passo. (Non fate vaccate!)

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Il canalone della Vallori però smette di essere un abisso raccapricciante trasformandosi in una verde oasi alpina resa brillante dal sole che ha scavalcato il crinale. Il sentiero è ormai una serie sparsa di bolli rossi tra erba e ghiaioni. Tuttavia le difficoltà sono addomesticate da un ambiente accogliente e non più ostile. Le preoccupazioni e le incertezze sono ormai alle spalle, vago per la valle risalendo piacevolmente verso il crinale del Palone. All’orizzonte il Legnone e la lunga cresta che lo unisce al Pizzo dei Tre signori, sullo sfondo brilla il Disgrazia e la “Corda Mola”.

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Quando raggiungo la Cima del Palone la mia avventura è ormai una gita. Passeggio lungo il crinale ammirando il Monte Rosa ed il Cervino che sembrano galleggiare sospesi nell’orizzonte. Mi allungo fino ad vedere la cima del Pizzo d’Eghen e per un secondo resto ad osservare la nicchia in cui, quella notte di tempesta, ci siamo scavati la fossa in cui bivaccare. Pensavo che rivedere quel logo mi avrebbe dato qualche sensazione più intensa, ma mi ha regalato solo un mezzo sorriso nostalgico: il Pizzo d’Eghen è ormai alle spalle, seduto sulla vetta del Palone Settentrionale osservo il futuro e la magnificenza imperiosa della Parete Fasana.

Davide “Birillo” Valsecchi

Anello della Valverde

Anello della Valverde

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Bruna è ancora bloccata in casa per via dell’infortunio e così, la sera, la carico in macchina e la porto al Rapanui da Bebbe per bere un “Hugo” prima di cena. Accoccolati in riva al lago sembra di essere in riviera, quasi in vacanza: mentre mi avvolpacchio con lei posso gustarmi il tramonto sulle montagne che si innalzano sul lago (un vero spettacolo di colori!). Curiosamente quella zona di lago, all’ombra della Nord del Moregallo, appartiene a Mandello del Lario, uno dei principali comuni sull’altra sponda del Lario.

Da quella spiaggia, con un bicchiere in mano, ho studiato spesso le forme delle grandi pareti del San Martino ma, se devo essere onesto, tutta quella zona è ancora un mistero per me. Ci sono davvero troppe cose che devo scoprire e ricollegare tra loro. In primo luogo i nomi! Le pareti alla base sono abbastanza note e “censite”, spesso trasformate in falesie più o meno sportive. Ma tutta la parte alta, da metà in sù, è un tripudio di guglie, canali e cime. Quello che comunemente chiamo “San Martino” racchiude in realtà una moltitudine di nomi e luoghi: la vetta San Vittore, il corno Regismondo, la bastionata della ValVerde, la Punta Forcellino, per esempio.

Così, spinto da una curiosità ormai difficile da trattenere, sono andato a curiosare ma, sempre per essere onesto, la mia esplorazione ha prodotto più dubbi che certezze. Nuovamente al Rapanui con il bicchiere in mano ho cercato, con insuccesso, di ricostruire le lunghe ore trascorse tra quei canali senza però riuscire a sbrogliare la matassa: “Accidenti, ma da dove accidenti sono passato?”

Ivan Guerini mi ha raccontato, spesso fino allo sfinimento, di aver aperto lassù migliaia di vie. Quel tripudio di pareti, guglie e creste così “vicine” alla città ed al treno con cui si spostava Ivan da giovane, così come la natura selvatica di quei luoghi, giustifica un numero così alto di “esplorazioni”. Il suo affetto e la sua attenzione per quei luoghi e poi cosa nota anche attraverso alcuni dei suoi scritti (“Dalla parte delle Pareti”, per esempio). Tuttavia, senza metterci in naso, mi era davvero difficile comprendere i suoi racconti. Curiosamente, una volta immerso in quel dedalo, qualcosa è cambiato: non mi interessava più molto quello che aveva visto lui, ero assolutamente rapito da quello che potevo vedere io!

Alle sette del mattino ho attaccato il sentiero dei Pizzeti risalendo verso il Rifugio Piazza. Nonostante la gamba sinistra non funzioni a dovere cerco di spingere il più possibile sbuffando come un mantice, ma i miei sforzi sono vanificati ed umiliati da una giovane ed abbronazata ragazza che, all’alba delle sette e mezza, mi raggiunge e superara saltellando in scarpe leggere ed in uno svolazzante vestitino corto a fiori. A questo vecchiaccio accasato toccano strani incontri mattutini mentre i giovinastri dei Badgers poltriscono ancora in branda…

Sprofondo nella fontana del Rifugio Piazza, piacevolemente gelida, cercando di contenere la calura estiva che si fa pressante. Speravo che che il cielo nuvolo e l’orario mi concedessero tregua ma l’afa cominciava a montare e purtroppo il vento non accennava a darsi da fare. “Questi sono posti da inverno, quando la foglia è caduta ed il sole riscalda”. Nella mia testa la fastidiosa voce di Ivan mi ricorda quest’ovvietà ovvia. “Chi ha tempo non aspetti tempo!”

Faccio il giro del Rifugio ed attacco il sentiero della val del verde. Il cartello indica due ore per arrivare ai Resinelli. Ad occhio calcolo la strada, l’uscita sul piano appare ovvia e, per quanto appaia distante, giudico la stima piuttosto esagerata. Appena mi inoltro nel bosco capisco però quanto siano sbagliati i miei calcoli! Quello che appariva come ul lungo traverso in un grande piano boscoso prima della salita finale è in realtà un continuo susseguirsi di sali e scendi tra ripide vallette. Passaggi umidi e fangosi spesso protetti da catene che attraversano torrenti e rimontano speroni rocciosi. “Accidenti! Questo posto non scherza affatto!!”

Spesso mi avevano descritto quel sentiero come “selvaggio” ed “impegantivo”. Un mio amico era stato anche più specifico “E’ sicuramente come una di quelle ravanate che combini tu al Moregallo! Ti piacerà!”. Onestamente, per essere un sentiero “ufficiale”, è davvero di frontiera. La natura “ruzza” da ogni parte ed tutti gli evidenti sforzi di mantenere il sentiero sono sottoposti ad una prova durissima: l’ambiente circorstante è davvero serevo. Ci si trova spesso a strapiombo sul vuoto che sovrasta la superstrada, disorientati dal dedalo di picchi e canali che ci si è costretti ad attraversare. La vegetazione, fatta di radure erbose e fitto bosco, non aiuta a districare la geografia di quei luoghi. Davvero terribile quanto affascinante!

In alcuni punti le catene, che proteggono alcuni dei passaggi più tecnici, erano profondamente segnate dall’ambiente. Dove i fittoni erano ceduti sono stati sostituiti da chiodi tradizionali ma anche questi si erano fatti ballerini o erano saltati. Come ho detto appare evidente che qualcuno si sta davvero dannando l’anima per conservare quel sentiero, ma pare davvero essere uno sforzo improbo contro quella natura pressante! (Leggisi: controllate quello a cui vi appendete!)

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Qua e là ho cercato di risalire qualche canale curiosando fuori linea, ma la quantità enorme di “cose di che non so” suggeriva assoluta prudenza. Trovarsi bloccato e disorientato in mezzo a quel labirinto era una prospettiva da evitare accuratamente. Così ho continuato a seguire il sentiero nel suo tortuoso sviluppo. Finalmente sono arrivato alla base della rampa finale che sale al giogo d’uscita verso il Piano dei Resinelli. Pensavo di raggiungere la sommità e ridiscendere dalla Val Cololden o dal Sentiero del Ger ma una palina ha introdotto un opzione inaspettata. Una deviazione indicava infatti un collegamento con “Il sentiero dei Tecett”. Visto che ne avevo sentito parlare senza mai percorrerlo quella sembrava una buona scelta.

Se il sentiero principale della Valverde era quasi inghiottito dalla vegetazione, la “bratella” era tutt’altro che invitante. «Birillo, questa è una “sola”! Non c’è traccia e non hai idea di come scenda verso il basso. Qui le rogne sono a sbalzo nel vuoto! Torna a salire, non scendere». Dopo la palina il sentiero infatti scompariva, erano una serie di traccie parallele che correvano nell’erba alta tuffandosi nel ripido del bosco. Quei segni appartenevano di certo a qualche selvatico quadrupede, non era roba per bipedi in trasferta.

«Birillo, questa è una “sola”!» Continuavo a ripetermelo ma accennavo a desistere. Così ho rimontato una specie di prua che, come tante delle guglie che puntando il lago, emergeva dalla vegetazione concedendomi un punto d’osservazione. Da lassù ho potuto fare delle buone foto ma ancora non mi era chiaro dove andasse quel sentiero disperso. Così, tornando nel bosco, ho cominciato a cercare qualcosa di più concreto: “Qualcuno si è preso la briga di piantare una palina, qualcosa ci deve essere per forza!”.

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Dietro uno sperone trovo qualcosa di interessante. C’è quello che resta di una piccola tettoia ad onduline, qualche bottiglia di vetro rotta ed una scritta a vernice su una roccia: “Rifugio Jeremy J”. Qualcuno in passato aveva usato spesso quel posto e non sembrava roba da pastori. Chissà, forse il Guero conoscerà la storia di questo curioso “bivacco” dal sapore anni settanta.

Poco più sotto trovo una sbiadita traccia rossa su un albero. Il sentiero, ammesso sia quello, è poco più che un colatoio per l’acqua piovana ma, rincuorato dai segni, ho ripreso a scendere. Ogni “tot” mi allonavo dal centro della valletta per osservarne i lati. Nel bosco, spesso in modo inaspettato, ci si trova davanti bui salti verticali, anche di una decina di metri, creati da queste strane “prue” che si innalzano dal bosco. “Sticazzi… guarda quanti ammazza-fungiat da queste parti!” Vere e proprie trappole a ridosso di invitanti radure erbose.

Man mano si scende si trovano sempre più segni rossi ad indicare la via. Il bosco si fa sempre meno fitto trasformandosi in uno degli scenari più fastidiosi da attraversare. La valle infatti si allarga ed è invasa da sassi, nuovi e vecchi, che sono caduti dall’alto. Un ghiaione scomposto e tortuoso invaso da trocchi abbattuti allineati dalla pioggia tra i sassi (deve essere davvero un posto poco raccomandabile durante un temporale!). Per quanto disagevole quel sentiero aveva ormai una forma ed ero convinto, sbagliando, che mi avrebbe portato alle rive del lago. In reatà ero ancora in una “terra di mezzo” sopra le grandi bastionate del lago.

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Tra i sassi ho trovato una strage di penne e piume: una sfortunata ghiandaia, dall’inconfondibile colore azzurro, doveva essere diventata la colazione di qualcuno ed il suo piumaggio sparso era tutto ciò che ne era rimasto. Visto che le piume di ghiandaia hanno per me un grande valore mi sono fermato a raccoglierne un po’ allinendole su un sasso per una foto. Mentre trafficavo con le mie faccende sciamaniche ascoltavo i rumori nel bosco di qualcuno che si avvicinava. Senza che potessi ancora vederlo un camoscio era stato costretto ad avvicinarsi a quello strano sconociuto nel centro del canale. Sorpreso ed indeciso sul da farsi si teneva nascosto cercando di mostrare le sue intenzioni. “FIUUUUU! FIUUUU!” Il camoscio emetteva il suo verso a metà tra un fischio ed uno sbuffo. “Cosa sei? Cosa vuoi? Guarda che io sono qui e devo passare!” Ecco quello che voleva dirmi il camoscio. Senza alzare la testa, ma cercandolo immobile con la coda dell’occhio, gli ho risposto: “AURRRR!”. Secco, deciso e diaframmatico, una via di mezzo tra il bramito di un cervo ed il ruggito di uno spartano. Quando il camoscio ha risposto nuovamente con il suo fischio ero davvero divertito: dopo la fatina in scarpe da ginnastica quello era il primo essere con cui scambiavo parola. Dopo qualche altro fischio il camoscio è stato costretto a mostrarsi, a superare il passaggio obbligato rimontando veloce su per una riva impossibile. “Vai stupida capra! Vai!” l’ho salutato ridendo “Almeno non mi tiri sassi in testa! Va!”

Ero davvero divertito dalla faccenda ma, giunto alla successiva palina, ho capito nuovamente quanto i miei calcoli fossero sbagliati. La “bretella” mi aveva portato in un punto pianeggiante del sentiero dei Tecett, tuttavia non avevo idea di quale direzione prendere (nè sapevo bene dove andasse o dove vinisse quel sentiero). Pensavo che verso nord portasse a qualche falesia e che verso Sud, visto che sembrava abbassarsi, portasse da qualche parte lungo le spiagge del Pradello (dove sono stato solo una volta in vita mia andando a curiosare in bici la tanto chiacchierata ciclabile chiusa). In realtà solo a casa ho scoperto che il sentiero sale da nord attraverso alcuni tratti attrezzati e che poi, in un suggeguirsi di sali e scendi, punta verso sud rimontando fino al Rifugio Piazza. Alla prima salita (mentre speravo in qualche fantasmagorico passaggio che mi portasse verso l’azzurro del lago) ho compreso il mio errore: “Bravo birillo! Sei sceso per poi dover risalire! Brutto mona: finirai per ritrovarti alla palina da cui sei partito!” Pensavo infatti che risalendo mi sarei ricongiunto al sentiero della Val del Verde, forse in qualche deviazione che mi era sfuggita. Invece il sentiero “attraversava” il finto piano del San Martino con una linea completamente diversa. Ancora una volta il susseguirsi di sali e scendi cerca di confondere il mio orientamento e, nonostante mi sforzi, fatico ad individuare dove, più a monte, passava il sentiero delverde.

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“Sembra di stare nella valle dei Mille Picchi! Non si capisce un osti di ‘sto posto!” Era incredibile quanto quella terra di mezzo fosse grande e come questa fosse separata dal lago da vertigionose bastionate. Ormai rassegnato a non trovare il bandolo della matassa mi sono appollaiato su un cucuzzolo osservando il Moregallo mentre sotto di me, ad una distanza irraggiungibile, i bagnanti si accalcavano sulla spiaggia.

Tornato al Piazza ho chiuso il mio anello e sono sceso in fretta dai Pizzetti, fiondandomi a casa per un pic-nick in terrazza con Bruna. Ivan ha davvero ragione, sono posti bellissimi ma assolutamente ragguardevoli. Si può davvero aprire migliaia di vie d’arrampicata in questa miriade di balze, guglie e pareti. Tuttavia l’ambiente è assolutamente severo, una stramaledetta giungla, tanto intricata quando indecifrabile. Onestamente guardandomi intorno non mi interessava molto arrampicare, nel senso puro del termine, tuttavia credo che tornerò volentieri a curiosare da quelle parti (anche se di fatto ho percorso quasi tutti i suoi sentieri ufficiali). Quello che è certo è che non sono luoghi da affrontare alla leggera. Diversamente dal Moregallo, dove le difficoltà sono spesso evidenti, continue e massive, questo è un luogo di piccoli e grandi pericoli che si alternano ad opportunità tutte da valutare e ponderare. Un posto davvero intenso, ma davvero da non prendere sotto gamba.

Davide “Birillo” Valsecchi

Buon Compleanno Birillo!

Buon Compleanno Birillo!

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Oggi, 5 Agosto 2016, la montagna Cima-Asso compie 17 anni, il sito Cima-Asso.it ne compie 8 ed il giovane Birillo oggi ne compie ben 40! Per celebrare il mio trionfante ingresso negli “anta”, mi sono concesso una nuova avventura regalandomi un’intera montagna! Già, per i miei quarant’anni i ragazzi dei Corni iniziano il loro assedio (pacifico?) alla Grigne!

Anche solo per scaramanzia non ero mai stato in Grigna da solo, era una regola che mi ero dato anni fa. Ieri do deciso che era giunto il tempo di cambiare: era ora di curiosare in tutti quei luoghi in cui non sono mai stato.

Sono partito di casa bello presto, ho parcheggiato a Balisio e poi su: Piani di Nava, San Calimero e Alpe Prabello. Qui seguendo le vaghe tracce di un sentiero (il “VenduOlt” credo) ho attraversato verso nord raggiunto la spalla sud della grande Parete Fasana. Visto che era la mia “prima volta” e visto che la traccia era scomparsa in una pericolosa e verticale giungla alpina, sono tornato sui miei passi rimontando lo spigolo Est del Pizzo della Pieve lungo la via del Cornell Bus.

Roccia e ripidi prati che costeggiano dall’alto la grande Parete, la più grande delle Grigne: un limbo dove, secondo le leggende locali, giacevano le anime non meritevoli di entrare nel paradiso. Leggende ignorate e riscritte da Eugenio Fasana e Vitale Bramani che, il 21 giugno del 1925, risalirono quell’impressionante muraglia di 800 metri.  

Mi sono ritrovato sulla cima del Pizzo della Pieve, avvolto dalle nuvole e dagli scorci d’azzurro, sdraiato su un prato verde costellato di stelle alpine tenevo i piedi a penzoloni sulla grande parete. Avvolto dal silenzio, dalla solutidine più completa. Le nuvole, la quota, la prominenza. Tutto mi allontanava dal fondo valle, dalle strade, dalle case. Le gambe, il fiato, la testa: tutto funzionava a dovere e la voglia di vagare senza meta in quegli sconfinati spazzi sconosciuti era trascinante. Continuavo a camminare sereno e l’ambiente attorno a me continuava a cambiare trasformando il mio viaggio in un’arcobaleno di colori ed esperienze.

Dal pizzo della Pieve attraverso la cresta e raggiungo l’uscita del “muro del pianto”. Risalgo in fretta fino al Broschi e, dopo uno strepitoso panino preparato da mia moglie (gioia per il palato!), mi concedo due chiacchiere ed una birretta dentro il rifugio. Volevo raggiungere i Comolli seguendo l’estiva, ma la voglia di esplorare era troppa e la tentazione ha vinto ancora una volta: dalla cresta mi sono abbassato lungo la via del nevaio, la val Cugnoletta ed il passo dello Zapel.

I prati verdi dell’altro versante erano ora sostituiti da ghiaione dolomitico, dalla neve, dai mughi: solo la straordinaria imponenza di quelle pareti inquiete era immutata. “Sai che mi piace davvero qui!” Ero emozionato da quel viaggio, dalla varietà di scenari che nel giro di poche ore avevo attraversato. Ovunque guardassi c’era qualcosa da osservare, da scoprire. Le gambe, il fiato, la testa: tutto funzionava a dovere e non mi sentivo tanto eccitato dai tempi passati in cui, cartina ed incertezze alla mano, esploravo i nomi ed i luoghi dei Corni di Canzo.

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Raggiunto il passo della stanga mi è apparsa nella sua interezza la Parete Fasana: ero  preparato, avevo girato l’angolo uscendo dalle piante ben consapevole di quello che mi aspettava… ma non è bastato. Mi sono dovuto sedere osservandola rapito: “Ma quanto è grande!? E’ infinita in ogni direzione!”. La Parete Fasana ai Corni di Canzo, la Parete Fasana al Pizzo della Pieve, la Parete Est del Monte Rosa: in quarantanni sono state solo queste le uniche pareti che hanno saputo spaventarmi ed attrarmi in questo modo. “Che bella! Devo tornare qui la mattina, presto, quando il sole inizia ad illuminarla. Che bella!”

Ma ormai è tardi, devo spicciarmi. Mi lancio lungo sentieri ignoti attraverso umidi boschi di faggio: solo i cespugli di lampone rallentano la corsa verso casa. Ai Pian di Nava mi volto per un ultimo sguardo al pizzo della pieve. Ho fatto tante cose in Grigna ed in Grignetta ma questa, nella sua semplicità, è la mia prima vera avventura tra queste montagne: “Grazie!”

Un gingillo che tenevo al polso e che ha registrato ogni mia pulsazione dice che ho percorso 23km in 34.000 passi. Non male per un giovane vecchio che è diventato un vecchio giovane!

Eccomi qui: quarantanni, da non credere… “Il mio nome è Davide Birillo Valsecchi, Fondatore dei Tassi del Moregallo, Araldo dell’Isola Senza Nome, Invasore delle Grigne”. Heheh, accidenti …riuscirò mai a mettere la testa a posto? Fatemi gli auguri, ho idea che ne avrò bisogno!!

Domani sera festeggiamo al TrueBeer. Sarà una festa meno distruttiva di quella dell’anno scorso: Bruna ha espressamente dichiarato che questa volta il tema della serata sarà “moderazione ed autocontrollo: ormai hai una certa…”. Tuttavia, visto che in quarantanni non ho mai rispettato alcun buon proposito, passate a curiosare 😉

Davide “Birillo” Valsecchi

Un benvenuto anche alla piccola Arianna, nata oggi, ed al suo papà “PeniKaNizza” 🙂

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