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«A detta degli apritori la via volle essere un invito a raggiungere, per tutti i frequentatori della valle, un felice equilibrio con la natura, libero da qualsiasi desiderio eroico, competitivo e di conquista».

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Il Sasso della Vecchia

Il Sasso della Vecchia

Il Monte Barro fa bella mostra di sè dal terrazzo di casa mia: ogni volta che vado in salotto me lo ritrovo davanti attraverso le grandi vetrate. Curiosamente i Corni, il Moregallo, il Birone, sono tutti alle spalle, visibili solo allungando il collo attraverso finestre più piccole. Nonostante questo non ero mai stato in cima al monte Barro: forse, perchè devo attraversare a piedi la ferrovia, perchè è meno alto, perchè c’è meno roccia, soprattutto perchè nell’immaginario collettivo è considerata una montagna da poco, quasi una “non-montagna”. In realtà, dopo esserci stato solo tre volte, credo sia un’assoluta falsità e che il Barro abbia delle potenzialità nascoste, ragguardevoli ed assolutamente inaspettate!

Bene, NikyBoy voleva fare un giro, due passi ed un paio di chiacchiere. Così dopo pranzo abbiamo puntato al Pian Sciresa e da lì siamo saliti verso il Sasso della Vecchia. Ancora non conoscevo quel nome, per me era solo il grosso monolito ben visibile tra i prati che osservavo da casa nelle giornate d’estate. Mi ero spesso chiesto se fosse “arrampicabile”, una volta avevo anche preso il binocolo per osservarlo meglio. Tuttavia mi ero convinto fosse una pila di sassi fragile, il classico scoglio che si sgretola. Invece, sorpresa, offre roccia di qualità magnifica!

Istintivamente ho appoggiato le mani trovandovi grandi maniglie e comode tacche. Prima di rendermene conto mi ero già alzato da terra curiosando tra le fessure in cerca di appigli e protezioni. Ciliegina sulla torta una solida pianta che sulla sinistra sembra chiamare a voce una fettuccia o un cordino. “Spettacolo! Qui puoi salire un po’ ovunque!”. La difficoltà, a naso, ricorda il primo passaggio impegnativo della Crestina Osa, però più lungo e continuo nella verticalità. Gioco un po’, senza trascurare che si è subito a tre o quattro metri da terra e che tutto il blocco sarà sui sei o sette metri, abbastanza da picchiare giù davvero duro. Uscire in alto alla cieca sarebbe pretestuoso e velleitario, se mi salta una presa finisce il divertimento, tuttavia la roccia sembra buona e promettente. Traverso e raggiungo un canalino alle spalle, che rimonta alzandosi sul prato. Da lì arrivo in cima senza difficoltà e sulla sommità trovo uno spit arrugginito: gira, è mezzo fuori ed è tremendamente pericoloso. Tuttavia, in modo grezzo, qualcuno ha avuto la mia stessa idea ed arrampicare sul Sasso della Vecchia forse appartiene alla tradizione. Quello spit è inutile e malmesso, ma fortunatamente con un paio di cordini si può realizzare una buona sosta anche senza.

Alla croce del Pian Sciresa avevo letto diverse lapidi, una era dedicata a due ragazzi. Il nome di uno dei due mi aveva particolarmente colpito perchè, Ercole Esposito, era omonimo del famoso Ruchin di Calolzio. Riccardo ed Ercole, insieme ad un Gianni aggiunto poi, sono i nomi del monumento alla base del Sasso. “Caduti nella generosità della salita” recitava a Pian Sciresa. Forse i due giovani sono caduti proprio sul sasso, forse cercando di imitare i grandi hanno tentato la salita con una corda facendosi sicura a spalla, forse la caduta li ha trascinati di sotto entrambi. Non so e purtroppo non saprei a chi chiedere, toccherà investigare…

Un’altro aspetto del Barro che non ti aspetti è la vista: un terrazzo magnifico sulle montagne e sui laghi. Nel cielo terso di queste atipiche giornate invernali era possibile curiosare ovunque, lasciando che il sole basso disegnasse ombre impreviste sulle pieghe delle montagne. Solo per questo il Barro meriterebbe molto più rispetto. Inoltre, tutti i canali e gli speroni del versante Est sono tutt’altro che “paglia”. Ci sono angoli brutalmente selvaggi in cui serve pelo e forse incoscienza per andare a curiosare. Io un pochino sono andato a metterci il naso ma non è cosa da prendere alla leggera. Un RavanoPark che offre solo due opzioni: o fai il giro o dai battaglia dura!

Visto che ero in compagnia chiedevo a NinkyBoy di aspettarmi sul sentiero, di farmi da guardia, e girovagavo alla base delle pareti più accessibili. La roccia è buona, un misto tra quella dei Corni e quella del Moregallo: quindi buona ma difficile. Non ci sono paretoni, non escono vioni infiniti, ma qualche buon monotiro o qualche vietta di due o tre tiri sì. Così mi sono messo a cercare vecchi chiodi, segni del passaggio di qualcuno. Alla fine qualcosa ho trovato!

Vecchi chiodi a pressione, un chiaro tentativo con le staffe che però si arresta su un chiodo ad anello da cui probabilmente si sono calati. Credo abbiano visto la grande onda strapiombante verso cui puntavano dritti ed abbiano deciso di tirare i remi in barca prima di essere travolti dallo tsunami. Tuttavia, complice forse la mentalità dell’epoca, avevano tentato una “diretta” senza rendersi conto delle opportunità che tutto intorno offre la roccia ( e che invece mi stuzzicavano!). Una spaccatura tra due pareti ed un sasso incastrato creano un bel camino in cui sono salito in opposizione quasi fino all’uscita: “Ma sai che è proprio bello qui! Per viver sereni servono un botto di chiodi – la roccia è sfuggente come quella dei Corni – ma le possibilità ci sono tutte!!”. Troppo ravanosa e troppo poco trendy per la spit-generation della falesia di Galbiate, difficilmente qualcuno verrà fin quassù a far danni con il trapano, tuttavia la zona è decisamente intrigante per gli amanti dell’esplorazione e delle salite vecchio stile.

Dalla cima siamo scesi lungo un crinale erboso sul versante est. Il sentiero che sembrava promettente si è poi perso tra il paglione e le roccette ma ero intrigato dalla costruzione senza tetto, dalla grande chiesa, che era ben visibile dall’alto. San Michele: la millenaria chiesa incompiuta, un’altra sorpresa imprevista del Barro. Di nuovo a Pian Sicresa si è fatto presto a rientrare a casa. Un giro ad anello decisamente interessante: seduto in salotto ora ho un’idea ben diversa del piccolo ma indomito Barro. Ringrazio NikyBoy per la compagnia e per le foto: davvero consigliabile farsi un giro da quelle parti!

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Ravano Jones 2017

Ravano Jones 2017

Quando è scoccata la mezzanotte Bruna dormiva accoccolata accanto a me sul divano, io invece stavo guardando il “Dottor Stranamore: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba” su Netflix. Quando fuori è partita la baraonda di botti ho capito che era scoccata l’ora “X” e che la guerra di fine anno era iniziata: “Ma non c’era il divieto? Fottute teste di cazzo, vi piace sparare petardi e lanciare lanterne incendiare? Beh, a me piacerebbe allinearvi in ginocchio e farvi saltare le cervella uno ad uno. Blam! Blam! Blam! Ogni dieci un coppa di spumante: questo sì che sarebbe benaugurante per il nuovo anno!”

Troppo diretto? Forse in effetti non era il più edificante dei pensieri con cui cominciare il nuovo anno… così, sopratutto per contenere il mio lato “ruvido”, ho svegliato Bruna (che riusciva a dormire nonostante il baccano!), recuperato i gatti da sotto il divano (dove si erano giustamente arroccati in assetto da combattimento!) ed aperto una bottiglia di champagne da quaranta euro: un botto tutto sommato accettabile. Un paio di bicchieri ed una fetta di panettone aspettando che “Beirut” si acquietasse: poi ci siamo infilati nel letto attendendo complici l’arrivo dell’alba del nuovo anno.

“Hey Bru! Non stare sotto!! Guardandola da qui non sono poi sicuro che questa torre regga!” Con il sole caldo siamo usciti a fare due passi puntando alla cima del Moregallo passando per il Canalone Belasa. Il piede di Bruna non è ancora guarito: l’unghia dell’alluce non è ancora cresciuta completamente ed il dito le fa male nelle lunghe camminate. Tuttavia nel Belasa ci sono molti tratti in cui si può arrampicare e questo poteva divertirla alleggerendo fatica e fastidi. Ovviamente, ogni dieci passi si fermava a fotografare un qualche fiorellino da inviare via WhatsUp al Guero, il suo complice preferito in queste cose. Così, mentre l’aspettavo, ho cominciato a guardarmi intorno ed alla fine, come forse era inevitabile, ho appoggiato le mani sulla roccia dando inizio al ravano del nuovo anno. Appena fuori dal sentiero uno diedro rimontava alle spalle di una torre, il centro del diedro era protetto da un grande albero dandomi la possibilità di alzarmi da terra senza essere troppo esposto nel vuoto pieno. “Quassù è uno spettacolo, si può continuare a salire lungo la cresta per uno o due tiri!” “Sì ma ora come scendi?” “Ovvio…da dove sono salito!” “Ma sei fuori!!” “Naaa… non c’è problema …ma lasciami concentrare!”.

La roccia qua e là è fragile ma anche “ricca”, con un po’ di pulizia possono uscire due o tre tiri di quarto piuttosto divertenti e facilmente proteggibili sulle piante e sulle fessure. “Ravano Jones ed il Belasa Perduto! Ecco la prima via dell’anno!”

Disarampico e raggiungo Bruna: per lei è la prima volta nel canalone e le piace arrampicare tra quelle rocce. “Fai quello che vuoi, ma tieni almeno una mano sulla catena! I piedi qui scivolano e tu non arrampichi da sei mesi!” Decisamente contrariata si è attenuta alle mie disposizioni “Però non mi piacciono le catene… io preferisco senza…” Poi, come da tradizione per il Belasa, l’ho accompagnata sulla paretina da cui anni fa sono piombato a terra arrampicando slegato. Un bel volo: tre passi in verticale, salto e capriola finale sui sassi. La cosa divertente è che quel giorno stavamo provando il cavalletto e la macchina fotografica nuova: quindi c’è anche il video!

“Accidenti, ma è alto! Sei caduto da lassù? Nel video non sembra così alto! Potevi spaccarti tutto!!” In effetti quel giorno presi una bella botta alla spalla, se non avessi speso tutti i sabati della mia infanzia esercitandomi nella caduta in avanti del Judo probabilmente le conseguenze sarebbero state terribilmente più gravi. Ma in fondo era per questo che Onorio ci insegnava a “cadere”: quelle tecniche gli avevano salvato la vita in moto ed anche con me avevano fatto lo stesso favore. “Bhe, tu al Pizzo Boga hai imparato a non tirarti sassi sui piedi, io qui a non cadere quando si arrampica…” Le ho risposto ridendo “…per questo mi piace venire qui e rinfrescarmi la memoria”.

Bruna si divertiva e così ho lasciato andasse avanti lei godendosi liberamente la salita. Purtroppo, lasciando a lei il comando, credo di essermi distratto un po’ troppo. “Sai Bruna che abbiamo sbagliato canale?!” Prima dell’uscita del Belasa c’è una biforcazione in cui il canale si divide: il sentiero attrezzato punta a sinistra, noi ovviamente eravamo finiti a destra. Niente di terribile, tuttavia non sapendo bene cosa ci fosse oltre ero preoccupato per Bruna. “Bruna, cosa facciamo? Torniamo indietro, attraversiamo verso sinistra o tiriamo la variante esplorativa?” Sciocco io a chiederlo: “Variante! Io non torno indietro! Però ora vai avanti tu!”. Un’evidente traccia dei Mufloni scarrocciava verso destra puntando verso la Crestina OSA, rendendo la nostra variante avventurosa ma non troppo complicata.

Giunti in cima non c’era nessuno e ci siamo goduti il sole e l’intimità del panorama. Non male come inizio: in bocca al lupo a tutti voi dai Tassi del Moregallo!

Davide “Birillo” Valsecchi

L’ultimo segreto dell’anno

L’ultimo segreto dell’anno

Bruna doveva uscire a bere un caffè con un’amica e così ho deciso di fare un giro dietro casa. In realtà volevo inseguire l’ultimo sole e salire in cima allo Scoglio dei Tassi prima del tramonto, tuttavia il sole sembrava correre molto più di me ed avevo bisogno di almeno un paio d’ore per salire fin lassù. Alla fine ho desistito, ho deviato ed ho trasformato una sgroppata violenta in una comoda passeggiata: l’ultima dell’anno.

Riflettevo sugli ultimi giorni, sugli ultimi anni. Sulla persona che sono, su quella che avrei voluto essere e quella che intendo diventare. Nel tramonto dell’ultimo sole dell’anno ero finalmente sereno: avevo lasciato che le emozioni mi travolgessero, che spezzassero gli argini inondando ogni cosa. Nel cuore dell’ultimo sole avevo abbandonato ogni certezza lasciando passione e speranza finalmente libere di guidare una volontà implacabile. Il tempo dell’uomo mite è finito, è tempo che Birillo riapra i suoi occhi, alzi la testa e faccia la sua “magia”. Coloro che mi amano soffrono la mia immobilità: non posso più inseguire l’equilibrio, devo tornare ad essere l’ago della bilancia. Tempo di riscrivere le regole.

Un tramonto rosso calava sul Resegone accarezzando i miei pensieri nella quiete che precede la furia dei giorni futuri. Che pace in questi prati silenziosi che precipitano nella notte. Senza meta ho ripreso a camminare, seguendo segni del tempo, tracce di animali, pieghe della terra. “Che bello sarebbe trovare un grande sasso, un luogo magico dove rifugiarsi…” La mia era una speranza vana, una silenziosa preghiera allo spirito della montagna. Quasi stentavo a crederci: forse i miei occhi hanno davvero ritrovato la luce, forse come un tempo torneranno davvero a brillare nelle tenebre mostrandomi il mondo invisibile. Davanti a me, inatteso, ecco il grande sasso, il ramingo di granito giunto al nostro appuntamento attraverso i millenni: “Ciao, amico mio, non pensavo di trovarti…”

Alla base del grande sasso un piccolo buco nascosto dalle foglie di pungitopo. “Sotto il granito il tasso del Moregallo fa la sua tana!”. I tassi sono l’animale totemico della nostra sgangherata squadra e non lo sono per caso. Nello zaino che Sguero ha regalato a Bruna avevo infilato la frontale, così mi sono steso a terra per curiosare meglio la tana del mio animaletto preferito. Il pungitopo però nascondeva una storia inaspettata: il buco era davvero piccolo ma al suo interno la luce illuminava uno spazio inspiegabilmente molto ampio “Hey Tassi, vi siete dati da fare nello scavare laddentro!” Facendo attenzione a non ritrovarmi faccia a faccia con gli inquilini mi sono infilato strisciando nel piccolo buco, ignorando le carezze del pungitopo. Disteso per terra, spingendomi in avanti sui gomiti e spingendo con i piedi, mi sono imbattuto in un nuovo segreto.

Oltre il piccolo ingresso vi era una camera decisamente più grande, molto larga ed alta abbastanza da raddrizzare la schiena stando in ginocchio. I lati di della “stanza” erano formati da un muro di sassi a secco, impilati con cura come nessun tasso saprebbe fare. “Il vagabondo nasconde una stanza segreta, che posto strano il Moregallo…”. Tra le tante casotte che ho incontrato quella era di certo la più misteriosa, forse quella più dimenticata, sicuramente quella più segreta anche se perfettamente conservata.

Strisciando fuori dal buco, lasciandomi alle spalle gli insetti ed i nidi di ragno di quel mondo nascosto, ero affascinato dalla strana scoperta fatta. Il grande sasso, poi, è lavorato e ricco di prese: il lato verso Est è un’intenso strapiombo, ma quello verso Ovest è arrampicabile. Sfruttando una pianta ed una bella lama obliqua ho tracciato la prima via attraverso un’avvincente passaggio in aderenza. L’ultimo giorno dell’anno mi aveva donato un’ultimo segreto, il fiocco con cui addobbare nuove speranze: il ritorno della Furia Azzurra è iniziato…

Davide “Birillo” Valsecchi

 

La Bergamasca è tornata

La Bergamasca è tornata

“Amore, c’è un bel sole fuori. Andiamo a fare due passi? Tipo al Sasso di Preguda che è qui dietro?” Bruna, avvolpacchiata nelle coperte mi guarda felice “Certo! Andiamo!”. A volte essere un buon marito è davvero facile …già, in fondo non credo di dovermi sentire troppo in colpa se, prima di pranzo, a Preguda ci sarei comunque andato visto che mi servivano un paio di buone foto del San Martino.  

Così usciamo di casa (con binocolo e teleobiettivo nello zaino) ed infiliamo il sentiero al sole che risale le pendici del Moregallo. Quando raggiungiamo la prima casotta facciamo pausa: per Bruna, dopo l’incidente al piede, queste sono le prime uscite e per questo vanno affrontate ancora con grande calma. Si stende sulla panchina godendosi il sole. In montagna il silenzio è oro e spesso offre grandi regali: alle nostre spalle passano infatti sei mufloni. Immobile in piedi mi limito a guardarli mentre mi fissano dubbiosi: “Bru… girati piano e guarda dietro”. La bergamasca si alza in piedi sulla panchina appoggiandosi in avanti mentre tiene curiosamente il culo per aria cercando di nascondersi ai mufloni. Ve lo devo dire: lei guardava i mufloni ma io ero più interessato ai suoi yoga-pants!

Giunti a Preguda la Bergamasca si è appisolata su un sasso mentre io, con tutte le mie lenti, sono andato a zonzo sul crinale “binocolando” il Coltignone e tutte le grandi pareti del Lago. Qualche giorno prima, sbagliando strada, era stato sulla cima del Regismondo ed ora volevo capire meglio la “geometria” del curioso mondo che si estende tra la selvaggia Valle Verde e le torri del Coltignone (…di cui Ivan mi ha avrà ripetuto i nomi milioni di volte ma che ancora non ho memorizzato!).

Il Moregallo orientale ed il Coltignone occidentale sono due montagne dall’animo quasi speculare  che si fronteggiano attraverso il lago. Due giganti simili ed allo stesso tempo tremendamente diversi. Ciò che li accomuna sono principalmente due aspetti: il primo è una natura assolutamente selvaggia, il secondo una natura assolutamente trascurata. Entrambe offrono pochissimi sentieri ufficiali ed “integrali” (il GER e la Val Verde contro il 50° Osa) ed entrambe hanno severe salite alpinistiche spesso poco ripetute (Parte Nord Moregallo, Tempo Perduto, Braga contro Forcellino, Bastionata del Verde, Penduliva). La neonata falesia del Gavatoio pareggia oggi le arcinote milanesate del Lariosauro, del Pradello, del Solarium e compagnia bella: ma le parti attrezzate sono probabilmente quelle forse meno interessanti degli oltre mille metri di dislivello quasi sconosciuti che contraddistinguono le due montagne.

Alle spalle del Coltignone la Grignetta sembrava offesa, quasi indispettita della scarsa attenzione che le dedicavo mentre brillava abbagliante al sole. Le pareti del Coltignone sono incredibili, incastrate in un dedalo complicato che richiede ingegno e determinazione anche solo negli avvicinamenti. “Accidenti! Guarda che roba!” Nelle lenti del mio binocolo lucenti forme grigie si scuotono tra le ombre tracciando placche, diedri, grotte e strabilianti tetti! “Accidenti! Devi portarti la tenda per combinare qualcosa da quelle parti!” Nella mia memoria anche le due immense e Buie pareti nascoste, che dal Moregallo non si vedono e che avevo fotografato con Bruna del Belvedere del Forcellino. “C’è un mondo infinito laggiù! Un mondo capace ancora di custodire i propri segreti”. Ivan mi aveva raccontato di alcune salite integrali di quell’enorme serie di muraglie, cose forse “già fatte” quindi, forse alpinisticamente insignificanti, ma cariche di un fascino vibrante che nella mia mente ha un solo nome: avventura!

“Piano piano la formichina Birillo rosicchierà la grande montagna senza farsi ingoiare!” La fantasia è la magia che anima le montagne e la mia mente corre su quelle creste cercando e fantasticando passaggi e difficoltà. “Mi piace! Accidenti se mi piace!” Gli archivi privati di “Cima-Asso” sono stracolmi di foto in alta definizione di quelle pareti, di quei canali, di quei boschi sospesi …ma nonostante questo la mia vecchiotta Fujifilm continua a scattare, a cercare di cogliere i segreti mancati.

Poi, sazio, torno da Bruna. “Facciamo il giro ad anello per scendere?” Ci rimettiamo in marcia passeggiando nel lungo traverso che porta verso la Forcellina e poi deviamo puntando verso le Piazze Rosse. Incuriosito mi infilo nel bosco in cerca degli “erranti”. Trovo due piccoli giganti di serpentino alla cui base i tassi hanno scavato la propria tana. “Bruna, vieni a provare queste lame!” Zaino in spalla cerco di dare fondo alle mie scarse capacità di bouldering rimontando a freddo difficoltà evidentemente proibitive. “Un paio di prese sono buone, ma il movimento è  tanto duro!” Mi aiuto in spaccata sulle piante vicine confidando nel supporto dei rovi, poi si fa avanti Bruna: “Dai, dai, spostati che provo io!” Bergamo si ingarella e comincia a tirare e puntare i piedi sulla roccia. Un certo fremito mi assale: sono ormai sei mesi, dal giorno prima dell’incidente, che non andavamo più a passeggiare insieme giocando con i sassi. Sono agitato e felice: per un secondo ogni fantasia sul Coltignone, o su qualsiasi altra montagna, sparisce lasciando posto al più antico dei giochi!

Poi, allegra, si mette a correre e saltellare per il sentiero: “Vai piano Bergamo! Hai ancora le gambette da merlo! Non esagerare che ti strambi le caviglie!!” Scordianta appoggia i piedi senza presenza, ma è normale visto che è stata ferma tanto a lungo. Però ride, è felice, è tornata!

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Corno Regismondo

Corno Regismondo

La nebbia in questi giorni, pesante e fredda, sembra avvolgere ogni cosa. Guardavo fuori dalla finestra nelle prime luci del mattino il bianco pallido che aleggiava nel giardino nascondendomi i Corni ed il Moregallo. “Birillo: c’è il sole sopra le nuvole, l’importante è salire abbastanza!” Così ho mollato la tazza del caffè, ed ogni altro impegno, e mi sono infilato i vestiti da montagna che erano ancora a terra sul pavimento dello studio dal giorno prima. “Mmm… senti il profumo della libertà!!”.

Con la Birillo Mobile sono sceso a Lecco, giusto in tempo per rimanere imbottigliato nel traffico natalizio del mattino: primo errore! Con una buona dose di pazienza (e qualche madonna!) finalmente raggiungo via Stelvio. Il piano era semplice: sentiero dei Pizzetti, Rifugio piazza e poi su, fino in cima al Coltignone passando dal sentiero del GER.

Il GER, il sentiero del Gruppo Escursionisti Rongio, è un sentiero lungo ed impegnativo. In vita mia l’ho percorso solo una volta, con la tenda in spalla arrivando a piedi direttamente da Como. Avevamo fatto la Dorsale Lariana, dal San Primo avevamo scollinato ai Corni per poi bivaccare alla chiesetta bianca del San Martino: un viaggio infinito e massacrante! Il giorno dopo avevamo risalito il Ger quasi di corsa puntando alle Grigne su cui stava incalzando un temporale. Quindi i miei ricordi non erano esattamente precisi sulla strada: ricordavo che si seguiva la cresta, si superava il crocione per poi infilarsi in una stretta gola/canale prima di raggiungere i ripidi prati della cima.

Così ho fatto: pancia a terra ho percorso il sentiero dei Pizzetti a quattro zampe (in pratica sembravo Dan Osman sul Lovers’ Leap …ma sdraiato)  fino al Rifugio Piazza, poi ho preso la cresta ed ho continuato a salire saltando il Crocione ed ogni deviazione. Questo è stato il mio secondo errore! Senza rendermene conto devo aver mancato l’uscita per il GER e sono sparato dritto verso il Regismondo!

Quando ho trovato davanti a me le catene di una piccola ferrata, di cui non avevo assolutamente memoria, ho cominciato a capire di essere finito fuori strada. Dalla cima del Corno Regismondo è impossibile, salvo un paio di doppie, scendere sulla cresta ed io ogni caso si dovrebbe affrontare altri due “corni” per raggiungere il crinale del Coltignone. Credo, da quello che ho potuto vedere, che il GER corra molto più basso, sfilandosi alla base di questi Corni per poi risalire attraverso il canale di cui vi ho parlato. C’era un sacco di strada da rifare prima ritrovare la strada giusta per il Coltignone, troppa, così mi sono semplicemente gustato il panorama del Regismondo (su cui non ero mai stato!)

Lo spettacolo sotto di me era incredibile. Alla macchina, giù a Lecco, il termometro segnava 4 gradi, tutto ero ovattato e cupo per via della nebbia. Ma la nebbia si fermava alla murata iniziale del San Martino, al di sopra splendeva un caldo sole e la temperatura era tale da spingermi ad arrotolare i calzoni indossando solo una maglietta a maniche lunghe ed il gilet tattico. Negli anfratti all’ombra c’era la brina gelata, ma al sole si stava piacevolmente bene!

Il mare di nuvole copriva Lecco e tutta la pianura, il Barro ed i monti di Brianza sembravano isole in uno sconfinato mare bianco. Uno spettacolo assolutamente suggestivo e dinamico! Già, perchè ciò che maggiormente mi stupiva era la velocità con cui quelle nuvole turbinavano su Lecco e Valmadrera prima di lanciarsi verso nord lungo il lago. Qui il freddo (o forse il caldo) del Lario sembrava inghiottire la nebbia, restituendo un “sereno” che nel fondo valle restava comunque cupo e privo di luce.

Dall’altro lato del lago facevano bella mostra di sè i Corni ed i Monti dell’Isola Senza Nome: la cima del Regismondo, mantenuta in ottimo ordine dall’impegno dei “Beck”, è davvero confortevole e se il terreno fosse stato un po’ meno umido avrei rischiato persino di appisolarmi sull’erba.

Non ho percorso il primo tratto di ferrata, quello che è possibile evitare, perchè un eloquente cartello “lavori in corso” sembrava sconsigliarlo. Ho visto catene e pioli che risalgono un dietro a tratti erboso e decisamente esposto. Così, visto che nemmeno sapevo dove fossi, ho optato per soluzioni più sicure: probabilmente bisogna chiedere al “Gruppo Beck” se è praticabile o meno.

Cosa ho visto lassù? Beh, un mare bianco costellato da isole fluttuanti …ed alle mie spalle un universo selvaggio ed ignoto che come una fortezza inespugnabile sembra innalzarsi dal lago. No, non parlo delle falesie a bordo pista, quelle erano sotto la nebbia e mi incuriosiscono poco: il mondo vero, quello tutto da scoprire, è ammassato appena sopra. Che posti, gente, che luoghi spaventosi ed affascinanti!

Davide “Birillo” Valsecchi

Moregallo Est: Costone del Casotto

Moregallo Est: Costone del Casotto

Il versante Est del Moregallo è uno dei territori più selvaggi, impervi e misteriosi dell’Isola Senza Nome. Dal Crinale del Sasso Preguda, sopra la frazione di Parè, si estende lungo il lago verso nord per sette chilometri, fino alle moregge della valle Inferno. Dai duecento metri delle sponde del lago si innalza massiccio fino a toccare i milleduecento metri di quota. Un imponente gigante di sette chilometri di estensione per oltre mille metri di altezza, uno spazio enorme che, ad oggi, conta un unico sentiero ufficiale: il Cinquantesimo Osa. Una traccia recuperata negli anni ‘80 che sfila verso nord sotto l’imponente parete Est. Nel cuore del versante Est, tra i suoi “ripidissimi prati innervati da costole rocciose e canali interrotti da balze verticali”, non ci sono bolli in minio rosso, paline o indicazioni. No, in quel mondo verticale e vertiginoso il tempo sembra essersi congelato e chiunque decida di avventurarsi da quelle parti deve essere pronto ad affrontare un’esperienza travolgente, intensa e terribilmente impegnativa.

Con l’aiuto del “Guerra” ho ripercorso una di delle vecchie e quasi perdute tracce realizzate dai “vecchi” che in passato si spingevano sulla montagna. Qui voglio raccontarvi la nostra salita, tuttavia voglio essere chiaro: il mio non è un invito, anzi, se possibile spero di scoraggiarvi dal fare altrettanto. Per quasi un anno mi sono documentato, ho studiato le foto ed osservato con il binocolo il Moregallo dal San Martino. Non voglio invitarvi a salire, voglio solo riordinare le informazioni che ho fin qui raccolto. I pochi che hanno ripercorso quest’antica traccia hanno valutato la difficoltà complessiva dell’itinerario come T5+ (notare il più)

T5 Itinerario alpino impegnativo
Percorso: spesso senza traccia e con problemi di individuazione (boschi con rare tracce, zone aperte con orografia articolata senza tracce) Terreno: impegnativo con tratti accidentati esposti (es: pendii scivolosi, forre, canaletti rocciosi, placche inclinate, creste con brevi risalti) Singoli passi d’arrampicata fino al II grado. Requisiti: ottime capacità d’orientamento e di progressione senza traccia, sicurezza nella valutazione del terreno, buone conoscenze dell’ambiente alpino e conoscenze di base dell’impiego di piccozza e corda

Io ed il Guerra abbiamo affrontato la salita in condizioni perfette: giornata luminosa, terreno assolutamente asciutto, temperatura gradevole, assenza di vento (che sul Moregallo non è trascurabile). Guerra aveva già percorso quest’itinerario ed anche lui si dedica da molto tempo all’esplorazione del Moregallo. Entrambi siamo eccellenti “ravanatori”, praticamente delle “capre”. Tuttavia, nonostante tutto questo, riuscire ad orientarsi non è stato facile e spesso le difficoltà da superare, soprattutto per l’esposizione nel vuoto, si sono fatte sentire anche a due come noi. Sono mille metri di ragguardevole avventura in cui non ci si può concedere il lusso di sbagliare.

Dopo un caffè al RapaNui ci siamo messi in marcia sfilando lungo il lago verso la vecchia galleria, quella dove solitamente conduciamo le esercitazioni speleo. La traccia inizialmente sembra molto battuta perchè porta fino agli armi di calata speleo, poi si perde nell’erba verticale. Il tratto iniziale, tra il paglione che sovrasta la cava, è subito impegnativo ed esposto. Bisogna navigare d’intuito cercando di alzarsi fino al crinale roccioso. Spesso in passato mi sono chiesto come fosse possibile superare quel tratto roccioso: finalmente ho scoperto, con grande sorpresa, quale fosse il trucco. I “vecchi”, con un lavoro enorme, hanno realizzato un muro a secco che argina il canale creando una scala di sassi che rimonta il tratto di canale altrimenti repulsivo. “In tutto il territorio lecchese questa è una delle cose più incredibili che abbia visto realizzate in montagna!” Guerra, in piedi su quei gradini rocciosi, era felice di mostrarmi quell’insospettabile segreto del versante Est.

Superate le scale la traccia torna a farsi flebile ed è necessario orientarsi con grande attenzione lungo i canali erbosi che risalgono sfilando le verticali costole rocciose. Incredibilmente la roccia che affiora dai prati è di una bellezza straordinaria: clessidre, lame, increspature di calcare. Tentato da tanta bellezza ho risalito una di queste costole rocciose arrampicando in dulfer tra le lame che magicamente si susseguivano perfette lungo tutta la lunghezza. Che ironia: un luogo straordinario dove fare boulder, ma anche dove cadere da un sasso significa precipitare per centinaia di metri!

Per via dell’erba perdiamo la traccia e siamo costretti a risalire quaranta metri per un canale verticale, tuttavia questa è un’eventualità da mettere in conto visto quanto orientarsi sia davvero difficoltoso: ognuno è chiamato a definire la propria linea. (Seguite le tracce dei mufloni ma attenzione a non farvi trascinare nei loro passaggi esposti!)

Essendo in due avevamo la possibilità di studiare meglio il territorio circostante e, curiosando un po’ fuori dalle linee più evidenti, abbiamo trovato un paio di casotte nascoste dalla vegetazione ma ancora perfettamente conservate. Il tratto successivo perde leggermente di verticalità dando l’illusoria sensazione che sia diventato “facile”. In realtà il versante si abbatte leggermente (restando comunque esposto) e si possono seguire le piante che risalgono verso destra. Qui si raggiunge un’altro dei passaggi più impegnativi della salita: il grande traverso. Per quasi cento metri si taglia in orizzontale sul paglione un ripido prato che una decina di metri verso il basso muore all’improvviso nel vuoto. Un passaggio davvero delicato perchè il vuoto sottostante è soffocante ed il paglione sotto i piedi trasmette sensazioni agghiaccianti: con l’erba leggermente umida quel posto può essere una vera trappola.

Superato il traverso si rimonta ancora verso destra fino a raggiungere il crinale roccioso. Ora sotto di noi c’è il grande e buio canale che rimonta a sud della Parete del Tempo Perduto: ve lo garantisco, fa assolutamente paura! Il passaggio roccioso, visto l’ambiente circostante, inquieta anche gli animi più solidi ma fortunatamente, osservando con attenzione, si trova un passaggio sicuro che permette di scollinare raggiungendo un’altro verticale prato erboso. Anche in questo caso, visto il vuoto che attende alla fine dell’erba, la vista si riduce ad un quadratino piccolo piccolo che contiene, uno dopo l’altro, giusto i passi necessari per raggiungere la muraglia rocciosa sovrastante. Quel tratto, confesso, l’ho fatto a testa bassa e con i paraocchi perchè è davvero opprimente!

Finalmente ci si trova in un canale costeggiato a sinistra da una muraglia rocciosa che, in qualche modo, offre qualche rassicurante appiglio. Risalito il canale e superate le ultime roccette ci si immerge in una specie di “oasi” serena nel cuore della montagna. Il prato spiana e si riempie di Betulle. Nonostante tutto il versante sia in ombra l’oasi sembra spingersi abbastanza verso il lago da raccogliere il sole che scappa verso Ovest: un posto fantastico, intriso di una strana serenità quasi palpabile. Nel centro di questo prato vi è una casotta, perfettamente conservata, il cui tetto, incredibilmente, è formato da lastre perfette di serpentino. Chissà dove erano riusciti a trovare quella roccia, chissà quante cose sapevano su quel territorio e che noi oggi ignoriarmo! Dentro la casotta un vecchio piatto in ceramica fa mostra di se come una testimonianza archeologica. C’era vita quassù un tempo.

Quello che io chiamo il “Naso di Smutt” ci mostra finalmente il suo versante nord. Quella parete può competere in altezza con il Corno Orientale ma la consistenza della sua roccia è spaventosa: un gigante che si sgretola, un’invincibile ed inscalabile parete dell’Isola Senza Nome. “Dannazione che posti! Pensavo di conoscere il Moregallo, di averlo girato in lungo ed in largo. Ma ora, guardando tutto questo, mi rendo conto di conoscere il 2% di questa montagna. Che posti! Incredibile!” Chi mi conosce un po’ sa il tempo e le energie che ho speso per esplorare il Moregallo, tuttavia voglio essere onesto: il mio stupore davanti a quella vastità era quasi incontenibile. Il Moregallo è davvero un mondo a parte.

Alle spalle della casotta i due grandi canali della Est sembrano stringersi tra loro forzando nel mezzo una scogliera di roccia apparentemente insuperabile. In realtà la natura ci ha regalato una serie di rampe erbose che, come una zeta, permettono di rimontare il penultimo grande ostacolo roccioso. Poi, deviando in un traverso verso sinistra, si raggiunge finalmente il crinale della costa di Preguda e, finalmente, si può tirare il fiato accanto ad un rassicurante bollo colorato del sentiero che porta alla Bocchetta di Preguda.

Un viaggio, un viaggio incredibile attraverso mille metri densi di difficoltà sempre differenti. La sensazione dominante, quando finalmente si esce, è di non riuscire a contenere tutto quello che si è visto. Un’esperienza troppo ampia per essere assimilata completamente. Anche ora, mentre vi scrivo, sperimento nel ricordo questa difficoltà: non ci sono altre montagne o salite che mi abbiano fatto lo stesso effetto.

Mi raccomando, non crediate che possa bastare questa mia breve descrizione per riuscire a cavarvela sul versante Est. Questa è brutalmente la punta dell’Iceberg: non siate sciocchi nè avventati. Onestamente mi piacerebbe ritornarci ma è una salita che nemmeno io, che frequento spesso la zona, posso affrontare con troppa leggerezza. Forse con Mattia, ma non sono molti gli amici che coinvolgerei con serenità in una cosa simile. Anche perchè, parliamoci chiaro, chi sbaglia finisce nel lago e finisce parecchio male. I paragoni sono sempre errati, ma immaginatevi un Canalone Ovest al Grignone, ma di mille metri, da affrontare senza traccia e slegati sul paglione anziché sulla neve: questo, a grandi linee, è il tipo di impegno fisico e mentale richiesto …ammesso di non si sbagliare strada e di non infilarsi nei casini.

Tuttavia, ed anche Guerra è della mia idea, sebbene sia un posto assolutamente terrificante possiede al contempo una bellezza primordiale ed indomita come raramente mi sia capitato di incontrare. Un viaggio, gente, un vero viaggio!

Davide “Birillo” Valsecchi

Un ringraziamento speciale al “Guerra”: oltre ad avermi scortato in questo viaggio condivide la mia stessa passione per questa straordinaria montagna. Mos!

Argo Express

Argo Express

1-1-dscf7448La faccenda era imbarazzante: in uno dei miei recenti giri esplorativi sul versante orientale del Moregallo avevo intravisto, isolata su una cresta al sole apparentemente irraggiungibile, una piccola casetta di sassi. “Birillo, lassù hanno costruito una casotta e tu non hai la minima idea di come fare ad arrivarci! Come la mettiamo?”. Già, il versante est è infatti un territorio sconosciuto fatto di prati verticali e salti rocciosi che in spaventosi canali precipita nel lago. Studiando le mie foto mi ero fatto una mezza idea ma le incognite erano ancora moltissime. Salvo il sentiero del Cinquantesimo Osa non ci sono sentieri “ufficiali” e quelle poche ed ataviche “linee” conosciute sono tutt’altro da sottovalutare e che, anzi, spesso hanno complessità e difficoltà che sfociano nell’alpinismo esplorativo.

Così, di buzzo buono, sono andato a controllare. Giunto al sasso di Preguda, usando il cannocchiale, ho potuto “confermare” l’esistenza della casotta ed il fatto che in qualche modo fosse anche ben tenuta da qualcuno. “Quindi ci si arriva, ma da dove?” Da qualche parte un piccolo segreto permetteva di vincere canali e pareti sconfinando nel “mondo selvaggio” fin laggiù. Molto probabilmente era possibile arrivarci risalendo il leggendario “sentiero della teleferica”, un tracciato aereo su erba verticale che vince un passaggio di roccia grazie a dei muretti a secco costruiti dai vecchi. Il buon “Guerra”, che l’ha già percorso, è stato molto chiaro nel mettermi in guardia dall’affrontarlo da solo senza conoscerlo. Per questo, anche per mantenere fede alla promessa di fare “il teleferica” insieme, dovevo trovare il modo di raggiungere la casetta dall’alto anzichè dal basso. Già, ma chi conosce quella zona può capire quanto rognoso possa diventare esplorare in discesa quei canali.

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L’idea era riuscire ad intercettare l’uscita della cresta per poi tentare la discesa. Il problema però era innanzitutto riuscire ad orientarsi scegliendo la cresta giusta, evitando al contempo di trovarsi a sbalzo su salti troppo alti o troppo difficili da ridiscende. L’alternativa, attraversare i canali, sembrava anche più dissennata e quindi, per scendere, non potevo far altro che salire.

Al primo tentativo ho sbagliato e sono salito fin al grande torrione che simpaticamente ho ribattezzato “il naso di Smugg” per via del il grande tetto “a naso” che lo contraddistingue. Ho attraversato il canale franoso che attacca alla base della parete e raggiunto la successiva cresta erbosa. Oltre il crinale mi si è spalancato davanti un universo di canali e strapiombi di cui neppure immaginavo l’esistenza. Il vento che soffiava da nord aumentava, e di non poco, l’ansia di trovarsi da solo in posti luoghi così remoti, complicati ed aerei. Curiosamente in quel momento Ivan Guerini mi ha mandato un “what’s-up”: “Biriz, quanti chiodi ti sono rimasti per domani?”. Gli ho risposto che ero impegnato inviandogli però una foto della cresta davanti a me. Un gesto semplice, forse, ma che è riuscito ad alleggerire (e di non poco) la tensione di quell’isolamento: “qualcuno ora sa dove sono”.

1-dscf7398La mia cresta erbosa, oltre ad essere sbagliata e temibilmente in ombra, sembrava morire in un salto roccioso molto alto. Così ho riattraversato il canale inseguendo il sole ed il conforto del bosco. Tutavia avevo scoperto abbastanza per fare un ulteriore tentativo su una cresta promettente, dove paglione e betulle sembravano invitare verso una strada sicura. Sotto di me la cresta, ora ben visibile ed ancora illuminata dal sole, scivolava infatti verso la casotta. Tuttavia il crinale impenna in un significativo dislivello, tutto da decifrare, dove il paglione si mischia a piante e roccette a sbalzo verso il canale. “Qui si salta un po’…”

Esplorare in discesa è un vero casino, il rischio di scivolare si somma all’impossibilità di valutare i salti di roccia fino quando non ci arrivi a ridosso: bisogna essere davvero cauti e prudenti perchè il rischio del “tuffo” è in agguato. “Sì però, Birillo, dall’alto non si vede davvero un ostia!” In qualche modo mi abbasso tra le piante disarampicando su roccette esposte ma solide. Senza cadere, ovviamente, cerco di arrampicare fuori dal paglione per riuscire ad orientarmi nella discesa.

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Poi succede qualcosa di assolutamente imprevisto. Aggrappato a degli speroni mi muovo per raggiungere una comoda cengia erbosa su grosso sasso. Quando però carico il piede sull’erba della cengia questa crolla all’improvviso: quello che sembrava un grosso sasso coperto dalla terra è in realtà due massi incastrati su un canale, l’appoggio si trasforma in un buco, in una trappola. La gamba sinistra precipita nel buco fino a metà coscia mentre io piombo di schianto con il gomito e con il petto su uno dei due massi: il panico!

Per un istante rimango raggelato, solo all’ultimo mi ero reso conto della situazione e solo fortunatamente ero riuscito a reagire con abbastanza prontezza perchè la gamba non andasse in torsione. “Puttana eva!”. Avevo sbattuto duro ma avevo impedito che il corpo sbandasse facendomi precipitare o spezzandomi la gamba nel buco. Una stramaledetta trappola assassina: se avessi rotto la gamba in quel punto della montagna sarei stato davvero fottuto oltre limiti accettabili…

La gamba, a penzoloni nel vuoto tra i due sassi, è fortunatamente intatta ma lo spavento è stato una mazzata. “Stramaledetto buco!” Per qualche istante la mia mente pensa solo ad “fuggire” dalla montagna tornandomene in fretta sui miei passi. Poi però mi acquieto e la mente, quasi in automatico, trova i passaggi successivi. “Forza, tirati su: se risolvi queste roccette lassotto sembra esserci persino una specie di sentiero”.

Riprendo a disarmpicare cercando di infilarmi tra diedri e canaletti maledendo la mia incapacità di “vedere il trucco” che probabilmente rende possibile vincere quel passaggio con maggiore facilità. Finalmente sono di nuovo sulla cresta erbosa ed in men che non si dica raggiungo la tanto agognata casetta. Il punto di osservazione attorno a me è incredibile: è pieno di cose che non avevo mai visto! “Ma quelle placche son roba vera?!?”

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Mi guardo intorno felice e, proprio in quel momento, succede un’altra stranezza inattesa. Mi vibra il cellulare e mi arriva un’email. Già, sto in un posto fuori dal mondo e mi arriva un email! Mi scrive infatti Giuseppe, che ancora non conosco, perchè dopo aver letto il mio articolo su “Cima” (“Sequesto è un uomo“) voleva condividere con me le sue esplorazioni di quella zona ed il modo che aveva scoperto per raggiungere proprio la casotta davanti a cui mi trovavo in quel momento. La tempistica era quasi surreale e rendeva quel fortuito incontro a distanza ancora più speciale. “Sì Giuseppe, dalla casotta si possono vedere davvero una miriade di altri luoghi interessanti dove poter curiosare: ben volentieri spero di esplorarli insieme!”

1-dscf7449Divertito dall’accadimento volevo lasciare un regalo anche allo sconosciuto amico che si prende cura della casotta. Volevo lasciargli una testimonianza ma allo stesso tempo volevo rassicuralo che non avrei turbato la riservatezza e la serenità di quel posto che di diritto gli appartiene. Così, infilandolo attraverso la feritoia della porta in legno, ho appoggiato sulla piccola panchina all’interno uno degli adesivi dei Badgers, fermandolo poi con un piccolo sasso perchè non volasse via scosso dal vento. Visto dove si trova il suo rifugio segreto ha di certo le carte in regola per essere uno dei Tassi del Moregallo!

La via del ritorno, ora in salita e partendo da un punto noto, è stata di gran lunga più semplice e la sottile traccia mi ha insegnato molti trucchi per aggirare i tratti esposti che avevo percorso in discesa. Superate le rocce il sole illuminava di rosso il paglione giallo scosso dal vento del nord, le difficoltà erano finite e potevo abbandonarmi alla bellezza del Lario, al fascino selvaggio del Moregallo nei colori dell’autunno: non male come giretto!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Sequestro è un uomo

Sequestro è un uomo

19-1-dscf7245La testa mi scoppia e gli occhi sembrano implodere. Mi sono infilato sotto una doccia calda ma senza risultato, steso sul letto in mezzo ai gatti mi domando se sto per morire. Tutti gli esami dicono che sono sano come un pesce ed in discreta buona forma per un quarantenne, ma quando la testa inizia a martellare mi sento appeso ad un filo che si spezza. Forse il corpo è sano ma la mia mente sembra voler fuggire, scappare inorridita da una realtà che non riesce più a comprendere o tollerare. Curiosamente sono questi i momenti in cui ho più paura di morire …e spesso ci ho anche provato: ho chiuso gli occhi anche se avevo paura di non riaprirli più, ho cercato sollievo, ho sognato di ricominciare tutto da capo, in modo nuovo, lontano. Ma nulla: ero ancora vivo ed avevo ancora il mal di testa. Nessuna soddisfazione.

Così come uno zombie mi sono alzato dal letto, ho cercato di infilarmi dei vestiti caldi, un berretto e sono uscito di casa. Il mio riflesso nella porta a vetri era la sentenza peggiore sul mio stato. “Sei ridotto uno straccio!!” Camminavo disorientato, quasi confuso ed assente. Riuscivo solo a pensare al ritornello di una canzone “Where is my mind?” dei Pixies. Dov’è la mia mente? Già, dov’è la tua mente Birillo?

Dal sentiero del vivaio, quello che passa davanti alla stalla del Don Guanella, volevo raggiungere il sentiero che risale da Parè verso il Sasso Preguda. Speravo che il sole d’inverno, il colore delle foglie ed il vento cristallino e grigio delle Grigne riuscisse a scuotermi, a trattenermi mentre scivolavo via. Mi muovo come uno di quei milanesi che affollano le statistiche del Soccorso Alpino, una voce dentro di me urla disperata “…vai alla chiesetta e torna a casa, non fare nient’altro!” Ma ad una svolta del sentiero tiro dritto, come uno stalker che con indifferenza si infila dietro le quinte puntando ai camerini.

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“Non sei lucido, traballi …e siamo a sbalzo sulle case di Parè. Dove stai andando? Dove hai la testa?” Ma il mio viaggio è una sequenza confusa e sconosciuta di crinali che come pagine di un libro scorrono verticali sul vuoto del lago, l’azzurro delle pareti, il giallo del riflesso del sole. Erba, roccia, alberi ed una gravità imperante: io no, ma il mio corpo sembra sapere esattemente cosa fare, muovendosi con leggerezza ed infito tatto.  Supero un primo canale mentre le barche bianche ondeggiano sotto le mie gambe: Parè è ormai lontana, sotto di me solo la cava. Ogni crinale è un’incognita ma la mia mente sembra incuriosita: sembra un bambino che all’improvviso smette di frignare davanti ad una nuova meraviglia da scoprire. Il mio corpo sembra cambiare, il mio passo rinsaldarsi, il mio sguardo aprirsi. Punto verso nord in un interminabile traverso e la mia mente, scossa dalle difficoltà, è nuovamente viva e vivace, padrona del momento. Osservo l’affascinante abisso che sprofonda verso il blu del lago: “Buongiorno Birillo!! Rischiavi di non svegliarti oggi…”

Poi giungo alla cresta che delimita la prima grande ed inaccessibile valle che sovrasta la vecchia strada del lago. Sono da qualche parte sotto il sasso di Preguda, esattamente dove mi ero promesso di arrivare molti mesi fa esplorando dall’altra riva del lago sul San Martino: la base delle costole oblique! Il canale ritorto! Forse la mia mente non era spenta, forse ero io che mi ostinavo a non seguirla mentre lei sapeva benissimo di cosa avevamo bisogno.

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Quelli del Cantiere navale e della cava hanno bloccato e recintato la strada costiera inibendo completamente l’accesso a quella zona (di per sè terribilmente inacessibile) del Moregallo. Di fatto la nuova galleria (e ve la raccomando a piedi!) è il solo modo per aggirare questo blocco improprio: nemmeno lungo la riva è oggi possibile passare (ed hanno messo pure le telecamere!). Il dito medio della mia mano sinistra si alza di concerto con il ghigno compiaciuto che appare sul mio viso: “Bastardi! Ho finalmente trovato il modo di dare il giro alle vostre recinzioni del cazzo!!” Sì, ora sono decisamente sveglio.

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“Bene, Robin Hood, ora che hai aperto il passaggio a Nord-Ovest come ce ne andiamo da questo guaio?” Bhe, di solito la soluzione è sempre quella: verso l’alto! Cos’ risalgo un po’ di roccette cercando di trovare i passaggi più solidi e meno esposti. Lecco è così lontana, ma forse persino bellina con i suoi ponti nella bassa luce dell’inverno. Trovo una specie di canale tra due strette creste rocciose, ci sono un paio di piante nel canale e questo trasforma quella spaccatura in un “ascensore” verso l’alto. Quando ritrovo la cresta sono rapito dalle belle maniglie rocciose che ne adornano la forma. “Lo so! Lo so! Non dovrei! Ma mi sporgo solo un pochino, solo un istante!” Afferro le prese migliori e piazzo piedi e baricentro ben piantati a terra, poi, guardo oltre: un muro verticale di erba e placche. “Spettacolo!”

La valle è formata da diversi canali: ne studio le forme, i salti, le vulnerabilità, i passaggi. “Secondo me si riesce sia a risalire che ad attraversare!” La parete del Tempo perduto è lontana, nascosta dietro una cresta che è ancora tutta da scoprire: niente di quello che osservo appare tra le pagine dell’Isola senza Nome. Ma lassù, dove ancora non so come arrivare, appare ben visibile una vecchia casetta in sassi: “Dannazione, guarda dove hanno costruito i vecchi!”

La mia mente ora tracima di fantasie ed idee. Un’ultima rampa e sono al sasso Preguda per un ultimo sguardo alle Grigne. Viviamo in un mondo buffo: “Birillo, anche oggi ti sei rapito da solo (e nessuno è venuto a pagare il riscatto!!)”

Davide “Birillo” Valsecchi

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