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Grignetta: REL e Direttissima

Grignetta: REL e Direttissima

La “Direttissima” in Grignetta, che collega i Pian dei Resinelli al Rifugio Rosalba, è uno degli itinerari più noti e frequentati di tutto il gruppo montuoso. Percorrerlo significa addentrarsi attraverso le più famose “strutture” che compongono la cattedrale di pietra che è la Grignetta. Il sentiero è oggi attrezzato con funi metalliche e scale ma, in origine, nacque come itinerario alpinistico grazie all’intuizione di Eugenio Fasana che nell’Ottobre del 1911, insieme con Luigi Binaghi e Giuseppe Maccagno, riesce a individuare un percorso che dai Resinelli raggiunge il Colle Valsecchi sulla Cresta Segantini. Solo nel 1923 la sezione CAI di Milano attrezza l’itinerario con catene nei punti più esposti, piazzando una scala metallica per superare un salto verticale.  

Sulle pagine di “Cima” la Direttissima e la sua storia sono state trattate spesso, tuttavia questo itinerario è diventato per me il “termine di confronto” per comprendere i cambiamenti che verranno introdotti dalla REL, la Rete Escursionistica della Lombardia. Con una legge regionale del 27 febbraio 2017, la Lombardia ha deciso di censire e catalogare la propria rete escursionistica definendo quelli che sono i sentieri escursionistici, i sentieri alpinistici, le vie ferrate, i siti di arrampicata. Un censimento che si prevedeva concluso entro il 2020.

La legge definisce le differenze in questo modo:

  • sentieri escursionistici: percorsi ubicati in pianura, collina o montagna, destinati all’attività turistica, ricreativa o alle pratiche sportive e del tempo libero, privi di difficoltà tecniche, costituiti da mulattiere, sentieri e strade vicinali interpoderali utilizzati anche per scopi agro-silvo-pastorali, per il raggiungimento di rifugi.
  • sentieri alpinistici: percorsi che si sviluppano prevalentemente in zone di montagna e conducono, anche mediante tratti attrezzati con funi, corrimano e brevi scale, a rifugi alpini, bivacchi fissi e località di particolare interesse alpinistico e naturalistico, alpeggi e piccoli borghi.
  • vie ferrate: tratti di percorsi su pareti rocciose impervie, creste, cenge e forre, dotati di cavi, catene, staffe, funi, passerelle o altri ancoraggi fissi, utili a consentirne la percorribilità;
  • siti di arrampicata: pareti rocciose ripide, verticali o a strapiombo in cui si trovano vie di arrampicata di difficoltà e tipologie diverse, anche attrezzate con chiodi, fittoni e catene che permettono la sola autoprotezione dell’utente.

In quest’ottica la “Direttisima” potrebbe apparire di difficile catalogazione, nella realtà però il tutto si riduce in modo piuttosto semplice: EE, sentiero per escursionisti esperti, oppure EEA, sentiero per escursionisti esperti attrezzati.

Chi frequenta spesso la Grignetta avrà avuto occasione di osservare comitive di “Milanesi”, nell’accezione più bonaria del termine, muniti di caschetto, imbrago, set da ferrata e guantini che si guadagnavano, anche onorevolmente invero, la cima della Grignetta passando dalla Direttissima, dallo Scarrettone e dal canale Federazione:  un giro impegnativo e tutto attrezzato, in cui infilarsi l’imbrago alla partenza ha un suo senso. Certo, può far sorridere tutto quell’armamentario, ma è giusto che ognuno sia libero di affrontare una salita come crede, “melius abundare quam deficere” quando vi è la possibilità (catene e scale, più o meno, ci sono dal 1923). La questione è che questa potrebbe diventare la “regola”: la direttissima smetterebbe di essere un “sentiero” per diventare una “ferrata”?  

Sebbene l’attuale cartellonistica riporti EE, dalle prime indiscrezioni, “sembra” che nel REL verranno inseriti come EEA sia la Direttissima quanto il Sentiero della Cresta Sinigaglia (rif. Porta -> vetta Grignetta), la Traversata Alta (vetta Grignetta -> vetta Grignone e rif. Brioschi) il Sentiero Giorgio (parte della Direttissima), il Sentiero Cecilia (rif. Rosalba -> vetta Grignetta), il Canalone dell’Angelina: (Direttissima -> sentiero Cecilia) ed il Sentiero dell’alta Val Scarettone (Colle Valsecchi -> Bocchetta del Giardino). Curiosamente, almeno per me, il Canalone Porta – che io reputo più pericoloso – sarà considerato solo EE visto che non sono presenti “infissi geotecnici”.  

Già oggi sul web, “da yogalpinismo a sassbaloss”, la maggiorparte di questi itinerari sono descritti, forse con leggerezza, come EEA ed è pertanto probabile che questa “consuetudine” abbia poi effetto diretto sulla classificazione finale. Già nel 2016, quando vi fu una massiccia ristrutturazione dei sentieri attrezzati in Lombardia,  nelle pubblicazioni della Regione la Direttissima, lo Scarettone ed il Sentiero Cecilia venivano già elencati come vie ferrate.

Orbene, mi è capitato di percorrere lo Scarrettone in discesa e sotto la pioggia e, posso garantirvelo, ho decisamente apprezzato il potermi aggrappare al cavo metallico, quindi non è mia intenzione recriminare sulla loro presenza. Tuttavia se viene definito EEA – ovvero percorso che al pari delle ferrate richiede l’uso dei dispositivi di autoassicurazione – diventa difficile capire dal punto di vista della legge cosa cambierà se percorso senza imbrago, dissipatore e lounge omologata. “Dura Lex Sed Lex”: non è un cambiamento da sottovalutare.

Le ferrate inoltre, come recentemente il territorio lecchese ben sa, quando non sono a norma di legge vengono “Vietate” ed il passaggio non è “a proprio rischio e pericolo” ma diventa un “illecito”  e, come tale, in qualche modo “sanzionabile” o “punibile” in caso di incidente o responsabilità. In passato, quando i cavi erano rotti, la Direttissima è già stata definita “inagibile”: il passaggio era “vietato” o “sconsigliato”?

Il REL, che in senso generale è un’iniziativa positiva, trasformerà la Grignetta in una gigantesca Ferrata? Tutti in fila, tutti appesi ad un cavo, tutti con la mascherina ad un metro di distanza? Non sembra un radioso futuro per l’Accademia dell’Arrampicata… 

Fortunatamente non sta a me decidere, anche se sono preoccupato per le scelte che verranno fatte sui Corni e sul Moregallo: paradossalmente si rischierebbe di poter risalire la Crestina OSA in libera mentre diverrebbe mandatorio il set da ferrata per il Belasa o la cresta Occidentale.

Nel mentre non posso che rileggere e condividere con voi la descrizione della Direttissima che ne dava Silvio Saglio nel 1957.

AL RIFUGIO ROSALBA m 1730 PER IL SENTIERO DELLA DIRETTISSIMA, ore 2.30; traversata da compiersi con attenzione, in alcuni tratti facilitata da corde, scalette e arpioni. — Dal Rifugio C. Porta m 1426 una comoda e larga viottola si dirige a settentrione per passare in cospetto dell’artistica stele della Madonna delle Rocce e attraversare con due risvolte il freschissimo Bosco Giulia. La viottola termina su un ripiano donde dirama due sentieri: uno prosegue a d. e, per la Costa dell’Asinino o Cresta Cermenati, raggiunge la vetta della Grigna meridionale; l’altro, il «Sentiero della Direttissima», svolta a sin. e corre pianeggiante e di costa per breve tratto, portandosi alla base del Musone dell’ Asinino, dove su una balza è scolpito nel vivo un vecchio segno di confine del Comune di Mandello. Il sent. passa poi al di sopra di un minuscolo faggeto, attraversa la foce del Canalone Caimi e s’incontra con quello proveniente dal Piano dei Resinelli. Dopo il Canalone Caimi risale a serpentine lungo una costa erbosa con vista sempre più ampia, s’inoltra verso la base di altri roccioni e, con diminuita pendenza, attraversa qualche colatoio secondario, s’innalza a svolte per un’erta china d’erba. All’incontro di un profondo canale la traccia rimonta il pietroso e franoso pendio di d. si perde alla radice di uno spuntone roccioso, sale per facili roccette friabili e, spostandosi a sin. per roccioni lisci ma facili, scende in un canaletto ben gradinato fino al fondo del canalone, di fronte all’aspra «paretina». Si supera la paretina servendosi di arpioni, quindi ci si sposta a sin. su un ripiano con ringhiera e ci s’innalza per facili gradini rocciosi verso una scaletta, con la quale si entra nel caminetto e lo si risale (1 ora). Al di sopra deì canzinetto il sent., dopo un tratto piano, scende con poche svolte, percorre la cengetta Ferrari alla testata di un profondo valloncello, scavalca uno speroncino e, dopo un secondo e terzo sperone, si abbassa in un canale. Di qui sale a un intaglio, correndo su cenge erbose, su tacche rocciose, munite di corde metalliche e, dal fondo del Canalone dei Piccioni, s’innalza verso lo sperone che divide dal Canalone di Val Tesa e perviene alla sella che i separa il Campaniletto, la Torre, la Lancia e il Fungo. In seguito prosegue in piano, scende sul fondo di un canalone, si alza a un altro intaglio, dal quale si ammira la Torre Costanza, la caratteristica Mongolfiera, la elevata Piramide Casati e il poderoso Torrione Palma (ore 0.30-1.30) e si biforca. Si segue il sent. di sin. che si abbassa sul fianco e sul fondo di un canale detritico, si scavalcano alcune costole rocciose e si giunge alla base dello spigolo meridionale della Piramide Casati. Di qui si riprende la salita per un canale e per una ripida china erbosa e ci si porta sul Sentiero Cecilia tra il Colle Garibaldi e il Colle Rosalba. Raggiunto quest’ultimo valico, la traccia discende nel versante di V. Scarettone e, dopo essere passati tra un roccione e la Torre Rosalba, si porta nei pressi della cresta, che raggiunge al Rifugio Rosalba m 1730 (ore 1-2.30; v. N. 502).

– RIFUGIO ROSALBA

Con un’unica denominazione vengono ora indicati i 2 rifugi che sorgono a m 1730, sulla cresta che separa la V. Monastero dalla V. Scarettone nei pressi del Colle del Pertusio. Il luogo è bellissimo; meraviglioso il panorama sulla vicina verde Brianza, sul sottostante azzurro lago, sulla lontana brumosa pianura lombarda limitata dagli evanescenti Appennini e sull’imponente e scintillante cerchia alpina che, appoggiandosi al colossale pilastro del M. Rosa, si stende ad arco dalle Marittime alle Retiche. La località è frequentatissima come meta a sè e come punto di partenza per brevi e divertenti arrampicate.

Il vecchio rifugio fu donato da Davide Valsecchi alla Sez. di Milano del CAI, che lo chiamò col nome della figliola; fu solennemente inaugurato il 15 luglio 1906 e ampliato nel 1921. È tutto in legno, esternamente rivestito di lamiera di zinco. Attualmente dispone di 9 cuccette nel dormitorio comune, 6 nel dormitorio signore, 6 nel sottotetto e 2 nel locale del custode, tutte di rete metallica; è dotato di materassi, di guanciali, di sufficiente numero di coperte, di lenzuola, di suppellettili di cucina e di mensa. Il nuovo rifugio, inaugurato nel 1955, è una costruzione in muratura a 2 piani, con 33 cuccette, riscaldamento a stufa, illuminazione a gas liquido, cassetta medicazione. – Sono aperti con servizio d’alberghetto nei giorni festivi di maggio, giugno, settembre e ottobre, mentre in luglio e agosto funzionano continuativamente.

Grigne: Torri di Giardino

Grigne: Torri di Giardino

Alcuni anni fa, in uno dei tanti giri insieme a Josef (Grigne: tre Birrette ed un Prosecco), ci ritrovammo al Rifugio Rosalba ad osservare, con una birretta in mano, le alte torri che svettano sul versante opposto della Val Scarettone. In Grignetta, negli ultimi 100 anni, hanno piantato chiodi e tracciato vie più o meno ovunque, ero quindi sorpreso che quelle torri, così evidenti sebbene palesemente scomode, fossero per lo più ignorate e sconosciute. Avevo chiesto informazioni al giovane figlio dello storico gestore ma non aveva saputo darmi indicazioni. “So che una volta il Buch – Marco Anghileri ndr.- era andato a vedere fin laggiù: ma è una ravanata mai finita anche solo arrivarci”. Questo era tutto ciò sapeva in merito a quelle torri. Avevo consultato gran parte delle contemporanee guide alpinistiche sulle Grigne e sulle Prealpi Lombarde, ma senza grandi risultati. (Purtroppo queste pubblicazioni sono per lo più “PostalMarket di vie Note” anziche chiavi di lettura per i lucchetti dell’ignoto). Giorni fa, invece, si è aggiunta alla Biblioteca Canova una copia di Prealpi Lombarde: da rifugio a rifugio del 1957, a cura di Silvio Saglio ed edita dal Touring Club Italiano e dal Club Alpino Italiano: un libricino tascabile che ha l’autorevolezza di un tomo. Francamente cercavo informazioni sui Corni di Canzo quando, volando senza meta tra le pagine, mi sono imbattuto in questo:    

CRESTA DEL GIARDINO. DA Ovest a Est, ore 6;  difficile (3°). — Dal Rifugio Rosalba m 1730 si scende per il sentierino della Costa dei Pidocchi fino al roccione 1357, e di qui, piegando a destra per una traccia, si divalla in un valloncello boscoso fino al fondo della Val Scarettone. Sul lato opposto si rimonta la scarpata erbosa delle Torri del Giardino puntando allo spuntone occidentale, chiamato Torre Andreina. Si sale per cengette e roccia friabile fino ad una piccola selletta, poi si entra in un canalino di roccia friabile e lo sl risale per dieci metri fino a raggiungere una cavernetta. Di qui si continua per un canale ostruito verso la metà da tre massi, che si scavalcano con chiodi e passaggi di aderenza; si giunge così alla sella che divide la Torre Andreina dalla Seconda Torre. Dalla selletta si sale allo spuntone di destra, indi si prosegue per una crestina di rocce erbose verso la terza Torre. Dal terzo bifido torrione si scende su un masso a guisa di tetto, e si raggiunge una selletta con mughi. Dalla selletta si sale per una spaccatura alla Quarta Torre. Dalla torre si scende sul lato opposto per rocce erbose a una spalla e alla selletta che divide il gruppetto occidentale delle Torri del Giardino da quello centrale. Si attacca la Torre centrale, larga e massiccia, per una paretina, superata la quale si segue la cresta erbosa con abbondanti mughi e, per essa, ci si alza lungo una rampa, interrotta da terrazzini fino alla vetta. Dalla Torre centrale si cala verso oriente per una cresta di rocce erbose fino a una spalla, e di qui si prosegue verso uno spuntone che si discende a S per facili rocce con erba e mughi, onde raggiungere una larga terrazza. Dalla terrazza per una scarpata rocciosa si riesce a una specie di cengia erbosa, e si arriva alla depressione che separa dalla parte orientale della cresta. Dalla selletta si attacca la cresta orientale che si percorre sul versante meridionale, per evitare un tratto verticale. Ci si porta poi su uno spiazzo d’erba, donde è facile afferrare il crinale di roccia ed erba. Lo si risale fino al sommo di uno spuntone e da questo, per rocce facili, si scende a una selletta erbosa. Dalla selletta erbosa si sale ancora per roccette con mughi, poi per detriti ed erba e si guadagna un tratto pianeggiante, percorso da una traccia di sent. che corre lungo il displuvio. La traccia continua sul lato meridionale della cresta, a poca distanza dal filo, su cui ritorna dopo aver aggirato un grosso roccioso rialzo. Si continua poi per il crestone e, scavalcata la q. 1886, si attaccano le franose balze dello Zucco di Campione, si raggiunge la q. 2035 e si passa facilmente alla vetta, piegando a d. lungo il crinale.

TORRE ANDREINA. -— Da Sud. ore 7; molto difficile (4°). – Dal Rifugio Rosalba m 1730 si scende come all’it. prec. fino alla selletta che divide la Torre Andreina da un altro spuntone. Dall’intaglio per giungere alla vetta si supera una parete alta una trentina di metri, priva di appigli, affidanosi totalmente ai chiodi ed appoggiando leggermente a d. Solo gli ultimi metri sono facili.

Spesso è importante anche solo trovare una “traccia” per riuscire ad inseguire una “pista”. Cercando informazioni sulla Torre Andreina è infatti emerso un collegamento ad un altra publicazione di Saglio: La storia alpinistica della Grigna (“I Quaderni di MOdiSCA”). La Torre Andreina è stata infatti salita da Basili, Dones e Panigalli. Con questi ulteriori dettagli, i nomi dei salitori,  è stato possibile risalire ad un altra publicazione: “LoZaino” (Pubblicazione CNSASA).

La costiera rocciosa che divide la Valle Mala dalla Val Scarettone presenta  però una cresta, denominata Cresta del Giardino, con vari torrioni, pare di roccia cattiva e comunque di scarsa rilevanza alpinistica. I più importanti sono la Torre Enrica, il Torrioncino Francesco, la Torre Andreina, la Torre Centrale, saliti tutti dalla Val Scarettone. Tra tutti i torrioni, la Torre Andreina è lo spuntone più occidentale della Cresta del Giardino e quello con la via di salita più difficile, ad opera di Benvenuto Basili, Erminio Dones e Andreina Panigalli (30 agosto 1933), con difficoltà di IV/A0 su roccia erbosa e friabile, ma le informazioni sono scarne. La Guida dei Monti d’Italia del CAI “Le Grigne” del1937, di Silvio Saglio, riguardo la Cresta del Giardino dice che “i fianchi sono prevalentemente coperti di erba verso la Val Scarettone, e di roccia cattiva verso la Val Mala”. La cresta, da Est a Ovest, è stata salita da Guido Rusconi, Gaetano Scotti e Giovanni Poletti, il 3 febbraio 1907, che la chiamarono Cresta Stazione Universitaria (200 m di roccia cattiva ed erbosa, difficoltà sino al IV+). L’attacco venne eseguito dalla Val Scarettone (Testo di Walter Polidori a compendio della relazione della via “Enjoy the Silence” nella Valle Mala – 2013).


Labirinto di Calcare

Labirinto di Calcare

Dalla pila di riviste impilate appare all’improvviso il rosso maglione di Riccardo Cassin, ultraottantenne, con le mani sulla roccia: “Più forti della tempesta!”. La figura di Cassin mi ha sempre affascinato sebbene  – probabilmente  uno dei pochi indigeni appassionati di montagna della mia generazione – NON l’abbia mai incontrato di persona, neppure ad una serata o ad un evento. Non è mai capitato, o forse ero troppo piccolo per ricordarlo. Anzi, a dirla tutta mi è tornata la passione per la montagna – ed ho lasciato la città – più o meno nello stesso periodo in cui Lui, ormai centenario, se ne andava. Tutto quello che so su Cassin l’ho appreso dai libri, dalle riviste, dalle sue vie (quello che ho potuto ripetere) ma soprattutto  osservando ed ascoltando uno dei suoi alievi, Luigino Airoldi. (Che poi è il modo migliore per apprezzare la qualità di un Maestro). Così, intrigato dalla copertina, ho cominciato a sfogliare il numero 52 di ALP, Agosto 1989. Tra le sue pagine ho trovato un articolo di Mirella Tenderini che, nonostante le premesse della rivista, non era incentrato solo su Cassin quanto sulla storia e la “vita” della Grignetta a cavallo di quegli anni. Anche il mio rapporto con la Grignetta è particolare: credo di non aver mai trovato una giornata di bel tempo prima di avere trent’anni! Pioveva sempre, ogni volta! Ancora oggi, quando vado da quelle parti, le probabilità si materializzi il mal tempo sembra sempre preponderante. Ormai ci ho fatto l’abitudine, anzi, quando piove c’è meno gente e ci si diverte di più! Tuttavia, quelli più fortunati con il sole, raccontano di grandi incontri e grandi storie che in qualche modo possiamo riscoprire in questo articolo di ormai trent’anni fa.

UN LABIRINTO DI CALCARE
Mirella Tenderini ALP 52 – Agosto 1989

«Che bella la Grignetta! Ho girato per tante montagne, ma ogni volta che vengo qui mi sento finalmente a casa. La Grignetta è… tutto: la mia. giovinezza, la fidanzata, la mamma…». Gli occhi del Vaschino brillano mentre mi accoglie con queste parole, seduto su un sasso della Direttissima, il sentiero per niente diretto che attraversa la Grigna Meridionale, o “Grignetta”, diagonalmente, da est ad ovest, costeggiando le guglie più belle. In quanti alpinisti anche famosi e in quanti modesti escursionisti la Grigna suscita gli stessi sentimenti!

Questa montagna di calcare dalle forme dolomitiche che fa da sfondo ai paesini del Lario Orientale attorno a Lecco, a poco più di un’ora d’auto da Milano (traffico permettendo), è frequentatissima da almeno centocinquant’anni: la prima salita alla vetta della Grigna Settentrionale o “Grignone” risale infatti al 1897. Generazioni di alpinisti e escursionisti si sono avvicendate sui suoi sentieri ripidi, faticosi per i sassi divallanti in perenne rovinìo. I primi salitori venivano dai paesi del Lago, ma ben presto arrivarono i Milanesi e, forti di numero e di mezzi finanziari, costruirono sentieri e rifugi.

C’è sempre stata rivalità tra Lecchesi e Milanesi su questa montagna. I Lecchesi — e per Lecchesi si intendono anche gli alpinisti dei paesi attorno a Lecco — aprirono le vie più belle sulle guglie della Grignetta, e le più dure sulle grandi pareti del Sassocavallo e del Sasso dei Carbonari al Grignone. Erano avvantaggiati. dalla vicinanza e contavano personaggi “fortissimi”, come Mario Dell’Oro (il famoso “Boga”), Vittorio Panzeri, Vittorio Ratti, Augusto Corti, per non parlare di Riccardo Cassin, lecchese di adozione e per elezione che dalla Grigna andò direttamente al Monte Bianco, visto solo in cartolina, e soffiò la Walker ai più forti alpinisti di mezza Europa che le facevano la corte da tempo. Il Riccardo è un fenomeno. A quasi ottant’anni lo vedi ancora, nelle domeniche di bel tempo, sulle vie più difficili della Grigna. Lo accompagnano giovani amici dai bei nomi lariani: Castelnuovo, Valsecchi… Lui dice che con le scarpe e le imbragature che cì sono adesso, e da secondo, chiunque può salire su qualsiasi via. Sarà anche vero…

Negli anni Sessanta incontravi Giuseppe Alippi (il “Dèt”), Gigi Alippi, i fratelli Zucchi, ì fratelli Rusconi, i fratelli Chiappa, Casimiro Ferrari e tanti altri ancora. I Lecchesi hanno imparato la Grigna a memoria prima di impegnarsi in durissime invernali o di misurarsi con le immense pareti ghiacciate dell’Alaska e del Sud America. Carlo Mauri, il popolarissimo “Bigio”, arrampicava con Bonatti, considerato milanese come tutti gli alpinisti che venivano da Monza, da Sesto e dalla bassa Brianza. Erano Oggioni, Aiazzi, Taldo, Nusdeo. Un bel po’ di anni prima, il milanese Nino Oppio, aveva aperto la via più impegnativa al Sasso Cavallo, ricorrendo anche a mezzi artificiali per allora avveniristici.

In Grigna arrivavano alpinisti da tutte le parti delle Alpi. Mary Varale veniva per arrampicare con Cassin, e ci aveva portato anche Comici. La via di Comici, al Nibbio, è rispettatissima tutt’oggi. La parete nord est del Nibbio è una delle poche zone della Grignetta frequentate dalla giovanissima generazione, perché ci sì arriva camminando pochissimo, come andare alle Placche di Introbio o all’Antemedale. Marco Ballerini, Stefano Alippi, sono nati e cresciuti ai piedi della Grigna, ma, figli del loro tempo, più che all’alpinismo classico preferiscono dedicarsi all’arrampicata sportiva, con eccellenti risultati, bisogna dire. Di poco più anziano di loro, Marco Della Santa, anche lui cresciuto ai Piani Resinelli, fa la guida di professione ma aiuta anche il padre, che è il fornaio della zona. In spedizione, in Himalaya o in Patagonia, Marco porta farina e lievito e fa il pane per tutti. Deve essere bello sentire il profumo del pane alla mattina, in un campo base in mezzo ai ghiacciai.

Ai Resinelli, 1350 metri sul livello del mare, punto di partenza di tutte le escursioni e le arrampicate sulla Grigna Meridionale, ci sono il prestinaio, due negozi di articoli sportivi, uno di alimentari. Ci sono tre o quattro alberghi-locande e tre rifugi. Quando alla fine dell’estate si svuotano le centinaia di villette e case di vacanza, rimangono solo gli abitanti dei Resinelli, quei quattro gatti che abitano e lavorano in questi rifugi e negozi. C’è anche una chiesa ma non c’è medico, non c’è farmacia, non ci sono scuole. Quando c’erano un po’ di bambini in età scolare, avemmo per qualche anno una pluriclasse, con una maestra sola per tutte e cinque le classi elementari. Però i bambini non erano mai più di sette o otto in tutto. Si insegnavano a vicenda e venivano a casa a metà mattina a prendere il gatto per la lezione di scienze naturali. Nelle ore di scuola li trovavi in giro in gruppo per il paese che cantavano “noi andiamo alla caccia del leòn”, oppure scatenati sulle piste di sci. Sembrava che facessero tutto tranne che studiare, ma quando poi andarono alla scuola media nessuno di loro si trovò indietro rispetto ai bambini provenienti dalle scuole normali. Quando il Marco Ballerini era piccolo non c’erano altri bambini per giustificare la scuola pluriclasse, e gli fece la scuola in casa la zia, la “sciura Nene”, che gestiva l’Albergo Italia con il marito. Il Marco sciava molto bene e la sciura Nene tremava ogni volta che lui vinceva una gara perché aveva paura che diventasse un “campioncino”, si montasse la testa e trascurasse gli studi. Invece che campione di sci, il Marco divenne il reuccio locale dell’arrampicata, non si montò la testa, ma gli studi li trascurò lo stesso. In compenso, oltre che arrampicare e sciare sì butta dalla Grigna col parapendio: altro sport che sta prendendo piede in zona.

I Piani Resinelli appartengono amministrativamente a quattro comuni diversi che una trentina d’anni fa, consorziati, costruirono la strada che tuttora costituisce l’unico accesso carrozzabile ai Piani. Fino a due anni fa c’era una barriera all’inizio della strada e si pagava un pedaggio per salire. Per anni gli abitanti dei Resinelli si sono lamentati di questo balzello fino a che fu tolto. Era ora, ma in qualche modo si è persa una caratteristica che contribuiva all’unicità del luogo. Era come se la barriera salvaguardasse dalla banalità gli abitanti dei Resinelli e le loro stravaganze. Tutti personaggi un po’ particolari, quelli dei Resinelli, specialmente quelli di una volta. Il Cavaliere Redegalli se lo ricordano ancora tutti, con il suo baracchino a forma di chalet e i «salamini di asinelli che fanno crescere forti e belli». Ma chi si ricorda più del “Farina”, che forniva i suoì gatti grassi per il salmì dei “giovedì letterari” al rifugio SEM (epperò che qualcun’altro provvedesse a tirar loro il collo, perché lui non poteva, ci era troppo affezionato), o del Giovanni che la domenica vendeva vino e bibite in vetta alla Grigna e che per risparmiarsi un po’ della fatica del trasporto aveva costruito una teleferica rudimentale, azionata dal motore di un “Galletto” Guzzi? I rottami del Galletto sono ancora lì da vedere, su una piazzuola della Cresta Cermenati. Adesso c’è il Guido, al posto del Giovanni, che porta su vino, bibite e panini fino in cima. In spalla; e sì porta giù i vuoti, e già che c’è si carica anche un po’ di scatolette abbandonate dai maleducati. È più il vino che regala o che beve lui stesso di quello che vende. Qualcuno si scandalizza a trovare una specie di osteria in cima alla montagna, ma adesso che il Guido si è rotto un piede e in vetta sì incontrano solo i gracchi e i turisti, sì sente molto la sua mancanza. Speriamo che guarisca presto.

C’è un “igloo sacro”, in cima alla Grigna: un bivacco fisso di lamiera, ingombro di rifiuti di varia natura, come tutti i bivacchi incustoditi. Ormai ci si è abituati anche a lui, come al grattacielo giù ai Piani: fa parte del paesaggio e la sua vista non offende più. L’igloo è bruttino e abbastanza inutile, ma qualcuno lo predilige per passare una notte di San Silvestro un po’ speciale.

Anche al rifugio Rosalba, in fondo alla Direttissima, e un po’ in tutti i rifugi dei Resinelli, le notti di San Silvestro sono sempre state molto speciali. Del resto non occorre attendere San Silvestro per fare di una serata una festa, specialmente se si è un bel gruppo di amici. Adesso le compagnie numerose e affiatate sono sempre meno frequenti e non so se succede ancora che con la luna piena qualcuno parta alle dieci di sera per fare la Segantini di notte con l’amorosa.

La Cresta Segantini è facile, secondo e terzo grado, ma è lunga e divertente e arriva proprio in vetta. Qualcun altro, con o senza la luna, ci andava da solo. Se lo ricordano ancora in tanti, il Walter Bonatti, che da ragazzo ha vissuto qualche anno in un rifugio ai Resinelli con suo padre: stava su con gli altri fino a tardi a cantare e a scherzare con le ragazze, e poi quando gli altri andavano a letto lui usciva e andava a bivaccare chissà dove, e chissà se solo per allenarsi o più per abbandonarsi a quel lato selvatico della sua natura che lo doveva portare in giro da solo nei luoghi più remoti della terra.

Quando viene l’autunno, i faggi e i sorbi ricamano di bruno e scarlatto la gonna della Grignetta e tutta la strada si copre di monetine d’oro e di rame. Appena si diradano le automobili, saltano fuori gli scoiattoli e le lepri. La volpe non si vede più da anni, ma sono tornati i caprioli e d’inverno scendono alle sorgenti basse ad abbeverarsi. La neve di solito dura poco: vicino al lago il clima è abbastanza mite, e in primavera ricominciano presto le processioni su per i sentieri e le code alle vie più classiche o più alla moda.

Tutti sanno che la Grigna è affollatissima nelle belle giornate di primavera, e che il rischio di prendersi un sasso in testa, che sì arrampichi o si cammini per un sentiero, è piuttosto alto. Ma come rinunciare ad una gita in Grigna?

È come rinunciare alla mamma, alla fidanzata, alla propria giovinezza… Ma lo sapete, quanto è bella la Grignetta?

Mirella Tenderini

Giovanni Giarletta

Giovanni Giarletta

“Alla guerriera bella e senza amore un cavaliere andò ad offrire il cuore” Ho conosciuto Giovanni quando era venuto ai Corni per ripetere alcune classiche. Pensavo fosse uno dei tanti che erano giunti all’Isola in cerca di “qualcosa”, era amico di amici nel soccorso, così gli chiesi se poteva scrivere due righe sulle sue salite ai Corni. E con grande disponibilità così fece: “L’idea che mi ero fatto di questa zona era di un alpinismo diverso da quello praticato in Grignetta (montagna alla quale sono particolarmente legato perché quella che più ha contribuito con le sue guglie e le sue vie di arrampicata alla mia formazione alpinistica). Un’arrampicata classica mista artificiale, faticosa e mai scontata con una forte componente psicologica era il quadro che infatti avevo dipinto nella mia mente. Così, incuriosito e desideroso di voler verificare di persona storie/aneddoti letti e sentiti, ho accolto volentieri la proposta del mio compagno di cordata Luca di ripetere la via Stella Alpina al Corno Orientale di Canzo.”

Mi piaceva la sua visione e la sua genuinità, così gli chiesi di scrivere ancora quando aveva tempo. Ed infatti mi inviò il racconto della Cassin al Sasso Cavallo. Spesso erano poi i suoi amici ad inviarmi racconti in cui erano protagonisti con lui della salita. Leggevo quelle storie con grande piacere anche se ero consapevole che ormai “mi stava lasciando indietro”, che ormai era diventato più forte, che stava per entrare in un’altro “campionato”. Quando è partito per il Cerro Torre ero preoccupato, ma quando ho saputo che era indenne dopo la cima non potevo che essere strafelice. “Beh, Birillo rallegrati: a bagnarti il naso è uno da Cerro Torre!!”. Giovanni aveva un sorriso capace di spazzare ogni invidia: si poteva solo sostenerlo ed augurargli il meglio possibile.

L’ultima birra insieme l’abbiamo bevuta ai Resinelli a Luglio. Ci eravamo incontrati per caso. Io e Mattia eravamo sul Costanza, lui e Luca sulla Mongolfiera. Facendo come al solito il pagliaccio, sbronzo dopo una mezza birra, mi sono messo a fare autoscatti tutti insieme. Non sapevo sarebbe partito per il Cerro Torre, che avrebbe dato prova di essere un grande alpinista. Ma, chissà, forse avrei fatto comunque le boccacce…

Mi dispiace davvero che il destino ti abbia inflitto una fortuna avversa. La montagna ti ha chiamato a sè dopo averti riportato a noi incolume e vittorioso dal lato opposto del mondo. Ci ha sorpreso quando meno eravamo pronti, quando avevamo accantonato l’idea potessi lasciarci. Ovunque tu sia ora butta un occhio su noi scarsoni che siamo rimasti indietro, soprattutto su chi a lungo sentirà la tua mancanza come un peso soffocante. Per molti di noi sei l’eroe del Torre, forse per questo la Grignetta, femmina invidiosa, ti ha voluto per sè insieme al tuo amico Ezio. Forse non puoi sentirci, forse non puoi risponderci, ma nelle notti di vento, giocando tra le sue guglie, ricordale con orgoglio che non vi dimenticheremo.

Davide “Birillo” Valsecchi

Attraverso l’Onda

Cassin Sasso Cavallo

Croci e Bandierine

Croci e Bandierine

La casa in cui sono cresciuto è molto vecchia, risale alla fine dell’800. L’architetto che la costruì curiosamente aveva lo stesso nome di mio padre. In un angolo della facciata, in basso nascosto tra le rose, l’architetto lasciò un “bottone” immerso, ma ben visibile, nell’intonaco rosa della casa. Una cosa in verità piuttosto curiosa. Un giorno, all’età di cinque o sei anni, litigai con i miei genitori, forse per un capriccio o per qualcosa che mi era stato negato. Mi arrabbiai a tal punto che decisi di fare qualcosa di cattivo: presi un sasso e distrussi quel bottone. “Ecco cosa posso fare! Guardate cosa posso fare quando mi fate arrabbiare! Nessuno può impedirmelo!!”. Nessuno mi vide compiere quel gesto e nessuno si accorse mai che il bottone era stato rotto. Solo io lo sapevo ma, passata la rabbia, continuavo a pensarci. Avevo distrutto il ricordo di una persona, una persona che non conoscevo e che non mi aveva fatto nulla, una persona che non esisteva neppure più, se non nel ricordo tangibile di quel bottone lasciato a testimonianza. Quel bottone aveva forse il triplo della mia età ed io avevo fatto una cosa semplicemente terribile. Pensai a quel bottone per anni e riuscii a fare pace con me stesso solo quando trovai una moneta della giusta dimensione da infilare nel “vuoto” lasciato dal bottone. Quella moneta avrebbe ripristinato il “ricordo” e sarebbe stata la testimonianza del mio errore, della lezione che avevo appreso.

In questi mesi sulle nostre montagne, soprattutto quelle ad est del lago, è nata una piccola ma intensa faida tra “croci di vetta” e “bandierine tibetane”. In realtà questi oggetti non hanno tra loro nessuna animosità, ma altrettanto non si può dire delle rispettive fazioni. In passato mi sono occupato del restauro di croci, madonnine e lapidi danneggiate o vandalizzate sulle nostre montagne. Con lo stesso entusiasmo ho dato anche vita a piccole iniziative legate alle bandiere tibetane, sia sulle montagne del lago che su quelle Himalayane. Quindi, curiosamente, entrambi i lati della contesa si sono rivolti a me in cerca di supporto per la propria causa. Io, come spesso accade, ho finito per litigare bruscamente con entrambi (non vado mai per il sottile in una contesa).

Io sono molto attento a distinguere gli aspetti spirituali da quelli religiosi e, lo confesso, le religioni sono per me più che altro una questione antropologica e sociale. Se davvero esiste un dio credo sia più interessato ai dubbi ed alla ricerca di chi si professa ateo che alle certezze di chi pensa di parlare in suo nome. Per me croci e bandierine hanno forse significati diversi ma lo stesso valore umano. Storco il naso quando una nuova croce viene issata su qualche cima, sopratutto quando grandi, ingombranti, appariscenti e trasportate con l’elicottero. Tuttavia non posso che provare affetto per le vecchie croci, che hanno resistito al tempo, che sono state lasciate (a spalla) dai nostri predecessori e che sono state testimoni di tante storie di montagna. Allo stesso modo storco il naso quando un simbolo delicato, come le bandierine del vento, viene abusato, trasformato in festoni di carnevale abbandonati con supponenza modaiola in ogni dove.

Paradossalmente il cristianesimo delle origini ha grandi similitudini e contatti con la visione del mondo buddista, più di quanto la maggior parte della gente possa essere portata a credere. Paradossalmente entrambe le filosofie apprezzerebbero più l’umiltà del mio “bottone” che le grandi cattedrali, le croci, i gompa o i templi. Anche gli umili “cavalli del vento”, quando usati in malo modo, perdono la straordinaria forza che contraddistingue lo spirito e la preghiera del “bottone”.

Ieri notte in Grignetta, teatro principe di questo scontro, è crollata la croce di vetta. Nessuno saprà mai se sia stato il vento o la mano di qualche sciocco. Le reazioni delle due fazioni sono però arrivate immediate: i “pro-bandierine” più integralisti, i rastapanda del nirvana takeaway, festeggiavano la caduta dell’idolo contestato con enfasi imbarazzante, paradossalmente simile a quella dei talebani dopo aver aver bombardato e distrutto i Buddha di Bamiyan. Ovviamente la fazione opposta, che raccoglie tanto i bacchettoni religiosi e quanto i semplici appassionati della tradizione, recriminava minacce ed accuse.

La vecchia croce è ora a terra, tradita dalla mano di qualcuno o forse piegata dalla fatica e dal tempo. Due fazioni se la contendevano e, mentre tutti erano più intenti a litigare che a prendersene cura, forse si è davvero lasciata cadere. Ora inevitabilmente arriverà una nuova croce, i rastapanda gioiranno ancora per poco perchè probabilmente sarà più grande, più solida, più imperiosa. “Hai visto? Hai visto cosa posso fare quando mi fai arrabbiare? La vedi questa? Pensi ora che il vento o una spallata potranno buttarla a terra?” Di rimando i Rastapanda faranno scaletta salendosi sulle spalle l’un l’altro per appendere le proprie bandierine più in alto, più numerose, più soffocanti. “Hai visto? Hai visto cosa faccio alla tua croce! Hai visto quante bandierine posso appendere se mi fai arrabbiare?” Il ciclo riprenderà, violento e spietato come le stagioni, mentre la vecchia croce sarà dimenticata, rottamata con i ricordi, la gioia, le testimonianze e le aspirazioni delle persone per cui “semplicemente” rappresentava la cima della Grignetta.

Questo mio fiume interminabile di parole, forse inutile ed affidato al vento, solo per ricordare la vecchia croce e sperare che il suo crollare, il suo lasciarsi andare, possa essere l’inizio per qualcosa di nuovo. Che il futuro possa essere per tutti una “moneta della misura giusta”, per ricordare e superare gli errori in una ritrovata unione.

Davide “Birillo” Valsecchi

Costanza Senza Gloria

Costanza Senza Gloria

Il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna e dietro una tendina di stelle… Dopo la seconda birra media le parole di Zucchero Fornaciari riemergono dalla memoria senza un vero perchè. All’improvviso sono di nuovo un ragazzino sul campo di pattinaggio di un paesello di montagna mentre echeggia un sottofondo di musica anni ottanta. Ho i pattini ai piedi e faccio a cazzotti con i ragazzi più grandi tutte le sere: vado lungo disteso sul ghiaccio, ma ogni volta mi rialzo e riparto alla carica a testa bassa. Per loro è un gioco, e se la ridono, per me è una guerra da combattere con il sorriso sulle labbra sanguinanti. «Sai Bruna, credo di avere qualche strana malattia: la mattina le gambe sono rigide, bloccate, quasi non riesco a muoverle…» Lei mi guarda attraverso il boccale «No, la tua malattia si chiama semplicemente “età”» Matrimonio con una bergamasca: non è facile come dirlo…

Il mio sabato mattina era cominciato alle sei. «Mattia, andiamo a fare una vietta “plasir”: roccia buona e quarto grado. Godiamocela un poco con qualcosa di piacevole…» Immaginavo qualcosa di luminoso, appigliato, tipo una Crestina Osa in trasferta sul Pilone Centrale della Grignetta. «Tranquillo! Ce l’ho io la via giusta! Storia e divertimento!» Qualcosa però non deve essere andato per il verso giusto visto che, mezzo addormentato, mi sono ritrovato in viaggio per il Torrione Costanza e la via del Littorio.

Riccardo Cassin – nel libro “Capocordata”- racconta: “Finora questa parete non è mai stata scalata. Vi fu la scorsa primavera un tentativo di Comici con Mary Varale e Augusto Corti, troncato sull’inizio da un banale incidente: uscì un chiodo e Comici fece un volo. Da allora la Varale accarezza l’idea di portare a termine l’impresa e più volte me ne ha parlato. Boga ed io, da parte nostra, siamo ben lieti di unirci a lei. Alla parete nord dell’Angelina capocordata fu Boga: stavolta tocca a me. Giunti ai piedi della torre, pieghiamo a destra nel canale che ci porta sotto la parete est e saliamo per rocce facili alternate da liste verdi e pianerottoli erbosi fino alla placca che da un lato è saldata alla torre, dall’altro forma un camino che si contiene fra il terzo e il quarto grado. Lo rimontiamo legati con doppia corda per tutta la sua lunghezza. La roccia è fredda, le cortine nebbiose si vanno chiudendo, ma la ginnastica sostenuta ben presto ci infonde calore. Più tardi quando le difficoltà vere e proprie cominceranno, avrò modo di sudare. Gli ostacoli iniziano infatti da questo pulpito in su, con una di quelle fessure strapiombanti che servono per i polpastrelli e i chiodi e nelle quali raramente i piedi entrano. Sono crepe non continuative ma alternate, che costituiscono, come già ho detto, una delle caratteristiche della Grignetta. Lungo questa fessura, Comici si era alzato sei o sette metri; trovo dei chiodi e la Varale – che ferma sul ballatoio insieme a Boga fa sicurezza – conferma che sono quelli del loro tentativo. Quei chiodi mi sono d’aiuto: con molta fatica ne piazzo altri. Ero convinto che dopo questo scabroso passaggio il terreno si facesse più mite, ma mi accorgo d’essere un inguaribile ottimista poiché quanto segue è ancora di sesto grado. Poi grandi difficoltà non ne restano e per piacevoli rocce tocchiamo la vetta. C’è vento a sdrucire la nebbia e la signora Varale, con la sua espansività, ci premia dandoci un bacio. Quando c’è una rappresentante del gentil sesso, compiuta un’ascensione si usa così: ed è un rito al quale teniamo in modo particolare.”.L’avvicinamento è la parte più divertente della salita, davvero! Dal sentiero delle Foppe ci infiliamo su per un canale dal sapore alpino rimontando i salti rocciosi. «Vedi, non volevi il quarto grado?» Mi sfotte Mattia. Mentre risaliamo chiacchierando come due vecchie betoniche attempate ci raggiungono Giovanni Giarletta e Luca Danieli: si fermano a scambiare due chiacchiere ma sono belli carichi, puntano alla via dei Ragni sulla Mongolfiera. La via che li aspetta è bella tosta e così lasciamo che non si smariscano in chiacchiere con due perdi tempo come noi.

«Roccia buona?» Obbietto guardando l’attacco. Non è tanto per l’erba, quella non mi da fastidio, ma nella mia mente c’è ancora il luminoso calcare bianco del Canale del Nostromo al Moregallo. «Se Sabato avessi trovato sto schifo di roccia con il cavolo che salivo!!» Forse poi non è così male, ma la nebbia ha reso buio ed umido ogni cosa e quegli speroncini, smussati e poco rassicuranti, suonano in modo poco convincente per i miei 85kg.

Al primo tiro l’imprevisto: la sacchetta per la magnesite di Mattia, trovata alla base della Molteni-Valsecchi al Buco del Piombo e riconvertita a porta oggetti da imbrago, si stacca e piomba giù nel vuoto, sbatte contro il prato alla base della parete e si lancia nuovamente in un canale. Mattia erutta in una giagulatoria di madonne che, tradotte, mi informano come nel sacchetto tenesse il cellulare. Colgo l’opportunità: «Qui viene a piovere, è un segno! Recuperiamo quello che resta del tuo telefono ed andiamo a bere al coperto!» Mattia borbotta ma non desiste. «Visto che ho distrutto il cellulare fammi almeno fare la via!» Così facciamo il primo tiro, il secondo ed anche il terzo fin nel camino della grande lama incastrata.

«Roccia solida e quarto grado avevo chiesto… spiegami perchè devo mettere mano alla staffa?». Il Quarto tiro è infatti un leggendario passaggio di artificiale anni 30: VII+ oppure V+ con A1. Io volevo arrampicare distendendo braccia e gambe in fluidi movimenti atletici e mi trovo, ancora una volta, a ravanare appeso… “fortunatamente”, si fa per dire, qualcuno ha pensato bene di calpestare la “storia” piantando dei fittoni resinati in modo che anche una mezza-tacca svogliata come me possa emulare le gesta dei giganti in un giorno di nebbia qualsiasi…

Fifi e staffe saliamo in “spazzacà”. Il tiro successivo, invece, è tutt’altro che paglia. Le scarpette urlano vendetta soffocando gli alluci ormai insensibili mentre la roccia offre grandi appigli ma mai scontati. “Fortunatmente”, si fa per dire, siamo completamente circondati dalla nebbia che impedisce di vedere l’abisso sotto di noi. Per quanto riesco a vedere potrei essere sul più fiero e slanciato torrione della Grignetta quanto su uno sperone di roccia sul lato delle capre al Corno Ratt. Alle nostre spalle, oltre il bianco, giungono però le voci di Giovanni e Luca che finalmente hanno raggiunto la cresta della Mongolfiera ed iniziano la difficile discesa.

Superato il quinto tiro le difficoltà si abbassano e si raggiunge la cima dove un tempo si innalzava un grande fascio littorio. Con una “boldrinata ante-litteram” quel simbolo dell’era fascista è stato abbattuto, ed ora ne restano sono i ruderi del basamento. I simboli, buoni o cattivi che siano, hanno sempre un grande valore storico: solo quei pecorai dei “talebani” fanno a pezzi ciò che non condividono…

Anche se in realtà i fasci littori sul Costanza sono stati due. Il primo, issato il 5 luglio 1931 da Cassin, Varale e soci, fu abbattuto da anonimi quasi subito. Nel Novembre dello stesso anno fu quindi issato un nuovo littorio, decisamente più grande, che rimase al suo posto fino alla fine della guerra nel ’45. Peccato… mi sarebbe piaciuto vedere una stramberia simile lassù in cima. Se come simbolo non era accettabile anziché abbatterlo avrebbero potuto convertirlo, trasformarlo in un monito o in una nuova celebrazione. Ma che volete farci, hanno fittonato con il trapano una Cassin – Boga – Varale su tentativo originale di Comici: l’oblio e l’ignoranza forse sono una precisa scelta culturale…

Due calate, una da trenta ed una da quasi sessanta, e siamo nuovamente a terra, alla ricerca del cellulare perduto. Ci infiliamo giù per un canale e troviamo il disperso: un Samsung Galaxy Mini del 2011, anche io ne avevo uno uguale. Nonostante il volo rimontiamo i pezzi e proviamo a farlo suonare: nella nebbia una musichetta imbarazzante risuona tra i canali della Grignetta come il canto fiero della fenice rinata. «Bene, il cellulare è salvo: ora andiamo a bere, che qui si prende l’acqua!!» Scendiamo nuovamente il canale ed il sentiero delle foppe.

Giunti alla macchina troviamo sul tergicristallo una strano volantino stampato a computer che, con fare minaccioso, ci intima di parcheggiare altrove: “a buon intenditor…” chiude allusorio il messaggio. Un lavoro certosino svolto diligentemente su tutte le macchine della zona e compiuto, immagino io, da un agguerrito vecchio indigeno che, alfabettizzato digitalmente, difende il suo territorio ai piedi della Grignetta armato di carta stampata con toner rosa: “Tranquillo, vecchio sdentato. Passerà del tempo prima che i figli dell’Isola tornino da queste parti: hanno cose da fare in patria. Nel caso, comunque, conserveremo il volantino e ci faremo carico di attaccarcelo da soli alla partenza. A buon intenditor…”

Mentre infiliamo gli zaini nel bagagliaio arrivano anche Luca e Giovanni. Volano le strette di mano ed i complimenti: la loro salita meriterrebbe una storia a parte! (E speriamo che Giovanni ce la scriva!) Tutti insieme andiamo “al Forno” finalmente a bere, chiacchierando di roccia e stramberie.

La sera, quando il temporale si abbatte sulle montagne io e Bruna siamo al Rapanui: vista lago e spritz alla mano sotto lo sguardo attento del Moregallo che riaccoglie i suoi Tassi dalla trasferta sulla sponda opposta del lago. ”Lo dicevo io che arrivava la pioggia…”

Davide “Birillo” Valsecchi

Il fatto che 29 Luglio, data di nascita di Benito Mussolini, abbiamo ripetuto la via del Littorio è solo una delle strane coincidenze Karmatiche che vibrano attraverso l’universo. Io davvero non lo sapevo, l’ho scoperto solo dagli articoli di giornale il giorno dopo nel solito bisticcio con i nostalgici di entrambi gli schieramenti. Farlo apposta non si sarebbe riusciti… strano mondo alle volte!

Torrione Fiorelli: Tessari e Bramani

Torrione Fiorelli: Tessari e Bramani

Mattia mi chiama al telefono, è un po’ che non ci sentiamo e chiacchieriamo un po’ della vita “civile”, della quotidianità, del lavoro. Poi la domanda classica “Sabato Torrione Fiorelli?”. Pondero e ribatto “Tessari?”. “Sì, ma rapidi e veloci che ho i bimbi a casa” “Okay, solito orario al parcheggio?” “Sì, le corde le ho io” “Bene, andata. A domani!”. Ci si dilunga spesso sulle futilità solo per essere spicci nelle cose serie.

Il Torrione Fiorelli era qualcosa a cui avevamo pensato già da un po’. Un Imponente torrione sul versante Sud Est della Grignetta, oltre il Canale Porta, isolato dal consueto affollamento di cordate che contraddistingue il web-end a monte dei Resinelli. I fratelli Franco e Giorgio Tessari sono, nel senso latino di “primi tra i pari”, due “princeps” dell’Isola Senza Nome: ripetere la loro via del 2007 era un omaggio alla tradizione. L’idea originale era sfruttare l’esposizione a sud in qualche giornata d’autunno, ma in fondo ci sentivamo abbastanza “rapidi e veloci” da sfuggire alla morsa del caldo.

I grandi prati alla base del pendio su cui innalza il Fiorelli sono un’angolo della Grignetta davvero molto bello e poco frequentato. Il torrione, estetico e slanciato, è la struttura più appariscente di un gruppo decisamente interessante e misterioso. Ivan me ne aveva parlato spesso in passato, oltre ad aver “liberato” la Boga alla fine degli anni 80 aveva esplorato tutta quella zona: in uno scenario simile, con la gioventù dalla sua, c’è da “tremare” pensando quale magia può aver combinato da quelle parti il nostro agguerrito “vecchiaccio”!

Noi imbocchiamo il canale salendo verso la grotta alla base del Torrione. I ricordi scivolano verso la Val di Mello quanto, puntando all’attacco di Luna Nascente, ci eravamo infilati dritto per dritto lungo una cascata. La prima di una lunga serie di stramberie che, per arrembante ingenuità, ci portano a chiudere la via in “conserva” perchè, per distrazione, “mancammo” una sosta di uno degli ultimi tiri. “Errori” e “soluzioni” che a distanza di anni, fortunatamente, ci fanno ancora sghignazzare complici.

L’attacco della via è un diedrino erboso che rimonta di traverso verso sinistra su roccette. Io pregusto la “mastrufolata” ma Mattia, abbagliato da uno spit e da delle traccie di magniesite, decide di rimontare dritto per dritto sulla roccia. A metà dello spigolo la magnesite sembra ripiegare verso il canale erboso, probabilmente spaventata dalla roccia compatta e dalle zolle d’erba che si scrostano. Mattia pianta un “chiodino” e continua su per il dritto: ”Già che siam qui….” Il primo tiro diventa qualcosa di decisamente più complicato di un III° ed invece di tirare piacevolmente ciuffi mi tocca lavorare sulle tacchette.

Il secondo tiro invece torna regolare, ma di magnesite non ci sono altre tracce. Roccia tutto sommato buona, con molte belle clessidre ed un vecchio chiodo artigianale realizzato saldando un pezzo di ferro a T ed un anello metallico realizzato con i tondino d’armatura. Un contrasto che è uno schiaffo in faccia a mano piena contro tutte le manfrine high-tech dei rinvii con moschettoni ultra-light su cui si basa oggi il marketing per acchiappare i “climber warrior” moderni.

Il terzo tiro le cose si fanno decisamente più complicate. Ci si alza verso sinistra, poi si traversa verso destra per raggiungere la base della fessura strapiombante che è “nominalmente” il passaggio chiave della via. Mattia si alza, allungo l’ultimo chiodo con una fettuccia, lo rimonta e poi parte per il lungo traverso. Io da sotto smadonno silenziosamente calcolando quanto quel traverso, con quell’ultima protezione allungata, possa trasformarsi in un pendolo d’antologia horror per il secondo.

Mattia alla base della fessura prova ad alzarsi guardandosi intorno: “Strapiomba un sacco: tentarla in libera è una rogna, se cado batto diretto sul terrazzino”. Così iniziamo a manovrare di concerto. Si alza e la scelta si rivela quella giusta. Forse manca un chiodo nella parte centrale o forse il passaggio obbligato è più lungo di quanto ci si aspetterebbe. Mattia piazza a un nut: proviamo a caricarlo e sembra tenere. Lavoriamo con le corde mentre si allunga leggero verso l’alto ed in equilibrio riesce ad agganciare il chiodo successivo. “Fiuuu… era un po’ che non provavo questa sensazione. Sembra di essere tornati ai Corni!”. Mattia, nella sua versione da “risolutore spleo”, chiude il passaggio, rimonta lo spigolo e scompare alla mia vista. “Davide: Sosta!” “Mattia: Libera!” “Davide: quando vuoi!” “Mattia: Vengo!”. La nostra voce fa il giro della valle e riusciamo a parlarci solo attraverso l’eco. Lui non mi vede ed io non vedo lui.

Il traverso è una gran rogna e l’ultimo chiodo è una trappola. Devo riuscire a rimontarlo senza sganciarlo. Devo, con la corda che mi tira dal basso, trovare il giusto equilibrio e le giuste prese per sganciarlo in mezzo alle gambe prima di affrontare il traverso. Se faccio diversamente, se lo gancio prima di rimontarlo, rischio di tirarmi un pendolo verso fanculandia di sei metri con la corda che canta un requiem su una tastiera di spuntoni rocciosi. “Putt*** Eva! E poi dicono che da secondo è tutto facile! Fanculo”. Parto, disimpegno la rogna del chiodo ed attraverso leggero. La seguente fessura strapiombante, da secondo con la corda verticale dall’alto, diventa per me la parte  meno impegnativa del tiro.

Ci ritroviamo sulla cengia erbosa attaccando il quarto tiro. “La roccia non ha una bella faccia qui…”. Lame spuntano verticali tra l’erba puntando ad un incassato diedro obliquo verso sinistra. “Mattia, e se ce ne andassimo a bere la birra passando dai prati?” “Ma va, due tiri e siam fuori, il duro è fatto”. Dieci minuti più tardi Mattia è nel diedro e smadonna: “Si muove tutto: non so se seguire il diedro o rimontare”. Alla fine segue il diedro e trova un chiodo sulla parte finale. “Pare proprio sia qui, ma sto muretto è duro da risalire”. Si alza un po’, si allunga e pianta un universale, poi si alza. “C’è un fittone lassopra, forse è la sosta”. Si allunga ancora e pianta un knifeblade, poi rimonta. Due movimenti ed è in sosta: un fittone con una curiosa catenella ed un chiodo da collegare oltre lo spigolo.

Quando arrivo al diedro mi ritrovo nuovamente in un pendolo-dromo: “Putt*** Eva!”. La corda mi è nemica e mi lavora contro: cerco di alzarmi al di sopra del dietro, per appigli solidi, cercando di accorciarla, poi mi riabbasso per afferrare con la sinistra l’unica presa buona nel diedro, abbasso la spalla destra incastrandola sotto lo spigolo allungando verso l’alto il braccio destro mentre i piedi spingono in appoggio cercando di tenermi quasi disteso nel centro del diedro. Mi allungo, afferro qualcosa che tiene con la destra, lascio che il barricentro “pendoli” il culo fuori dal diedro e con due movimenti controllati mi raddrizzo in linea con la corda: “Fanculo i traversi!” Sghignazzo. Supero il chiodo di via e raggiungo il primo chiodo piazzato da Mattia.

“Okkio che quel chiodo è quello Eghen!” mi dice Mattia dall’alto. Quel chiodo, dopo la notte di battaglia nel Camino dell’Eghen, era rimasto un anno intero nella roccia in cui lo avevamo piantato durante la nostra roccambolesca fuga dalla montagna. Mattia, contrariamente ad ogni mio suggerimento era tornato in solitaria e, equipaggiato speleo, si era calato dall’alto solo per recuperarlo. Mattia è fatto così, è un uomo dai solidi e bislacchi principi.

Il chiodo è un Kong Univesale, un Athos di media lunghezza. L’occhiello era incassato oltre una lama di roccia che si oppone mentre cerco di estrarlo. Solitamente uso un vecchio moschettone per tenere il chiodo mentre batto con il martello. Tuttavia, visto che non viene, tolgo il moschettone e faccio leva con la becca della mazzetta. BLAM! Senza alcun preavviso il chiodo schizza via e piomba verso il basso precipitando sulla cengia erbosa. Sì, avevo appena perso il “chiodo magico” di Mattia.

“Ma no!!! Ma osti!! Ho visto dove è caduto! Ti calo e lo vai a riprendelo!” Brontola sconsolato Mattia dall’alto. “Fanculo! Io mica lo rifaccio sto tiro! Senti un po’, ne ho a casa cento uguali: te ne do uno e siamo pari”. Mattia brontola, ma poi si rassegna “Vabbè, se me ne dai uno uguale io farò finta sia quello dell’Eghen”. Quando ho deciso di diventare un mercante di chiodi non avrei immaginato di dover trattare anche appeso in parete!

Lo raggiungo in sosta e mi preparo. “Devi scavalcarmi?” “No, la via va a sinistra?” “Sinistra?! In quel merdaio di rocce rotte? Non gira su questa placca a destra uscendo a sinistra da quel tetto?” “Ma sei fuori, su quella placca non ci si può proteggere!” “Hanno piantato fix e fittoni, vuoi che non abbiano messo qualcosa per risolvere su roccia buona?” Così, indecisi sul da farsi estraiamo la fotocopia della relazione della “Scuola Guido della Torre” (purtroppo non ho la relazione originale pubblicata su Vertice 2007): “salire l’evidente fessura a sinistra della sosta, non impegnativa ma a tratti friabile (chiodi), segue una breve muretto verticale (fittone), poi un breve tratto su roccette e detriti porta alla base di breve diedrino liscio da affrontare con decisione. Sosta su chiodone cementato con cavo d’acciaio, da rinforzare con friend piccolo nella fessura poco più sotto. Attenzione alla qualità della roccia, da verificare sull’intera lunghezza. Prestare molta attenzione ad un masso instabile posizionato alla base del muretto verticale.” Ecco: mancano solo i cecchini ed una pioggia di rane…

Allungo il naso e guardo il primo passo a sinistra: roccia brutta sopra un vertiginoso abisso. Il caldo comincia a farsi sentire e quel tipo di roccia consuma tempo con la stessa costosa intensità con cui il mio vecchio Subaru brucia benzina. Infilarsi in una rogna a rebattone di sole davvero non mi allettava. “Ma noi non ne abbiamo mai abbastanza? Non ne abbiamo già mangiata abbastanza di roccia marcia nel corso degli anni?” Brontolo mentre Mattia sembra indeciso, poi gioco il Jolly: “E se ci caliamo ed andassimo a bere la birra passando per il prato? Evitiamo sta rogna e recuperiamo anche il chiodo!” Senza il chiodo le mie possibilità di convincere Mattia a mollare una via all’ultimo tiro sarebbero state nulle, ma quello in fondo era il “chiodo magico dell’Eghen”.Placidamente sull’erba attendo Mattia pregustandomi la birra. I Corni, all’orizzonte alle nostre spalle, sembrano prenderci in giro dalla distanza: “Bigoli! Siete proprio bravi voi due… Tutta quella strada per infilarvi nella roccia marcia? Qui a casa ne avreste trovata quanta ne volevate! heheh …Bigoli!!”. Come dare torto ad una montagna? Poi attraversiamo la cengia erbosa e ci troviamo alla grande grotta ad arco in cui attacca la via di Bramani del ’26. Un camino percorso in discesa da Giacomo Fiorelli nel 1904 e da cui prende il nome tutto il torrione. Ci fermiamo un istante all’attaco. “Però… essere qui davanti ad una via di Zio Vitale e non farla…” Zaini a terra infiliamo nuovamente le scarpette. Vitale Bramani è lo straordinario compagno di Eugenio Fasana, capostipite, “primo tra i primi”, degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome: concatenare una Tessari ed una Bramani significava chiudere un cerchio nella tradizione, non potevamo sottrarci!

Il camino è gioia pura. La roccia assomiglia a quella del pilastrello e si sale senza prese, tutto in spaccata ad incastro. Movimenti classici, atletici ma eleganti. Superiamo il sasso e ripartiamo oltre lo spigolo addentrandoci nella bellezza della placca successiva. La mente non può che rimanere affascinata nel vedere cosa erano in grado di fare negli anni trenta i grandi pionieri dell’arte verticale. La serenità di essere su un capolavoro travolge ogni difficoltà: “Se sono passati loro per ogni problema esiste una sua soluzione, bella ed elegante, da comprendere”. Arrampicavano con gli scarponi o con le pedule, con corde che erano canaponi, moschettoni che erano anelli in ferro e ferracci come chiodi. Eppure la natura sembra aver premiato il loro eroismo regalano loro l’inaspettato di cui avevano bisogno: passaggi tutt’altro che banali, spesso vertiginosamente esposti, che si risolvono con una solida presa quasi invisibile, ma sempre presente. Rimonto oltre un masso in opposizione con un movimento che sembra quello riflesso dell’arco di kundalini, poi chiudo le spalle e a cavatappi infilo un braccio verso l’alto alla cieca, trovo una presa e mi avvito passando oltre. Oltre uno spigolo una serie di piccoli appoggi sembra formare un’esile ballatoio, una piccola presa di dita a sinistra, ci si sfila sullo spigolo lungo il ballatoio e poi fessura a tornare. Roccia solida, compatta, movimenti sempre logici, eleganti, arditi ma sicuri. Gioia, gioia pura! Le vie degli anni trenta, quando non diventano aceto, sono pregiato vino d’annata!

Dalla croce in vetta al Torrione, ci si cala con tre doppie un po’ oblique lungo la linea della normale. Questa via, del 1906, corre tutta nella falsa protezione di un camino e mostra come, con mezzi dell’epoca, gli arrampicatori di quel tempo avessero un “pelo” ed un coraggio oggi forse impensabile. Invece la vecchissima via originale, oggi quasi completamente dimenticata, corre probabilmente nel camino visibile dal basso sul lato Est alla cui base si accede proseguendo verso destra lungo la cengia erbosa da cui siamo usciti noi. Conoscendo la “cricca” e la mentalità dell’epoca quel camino avrà probabilmente caratteristiche simili a quelle del camino sulla Parete Fasana qui ai Corni (quarto grado che agghiaccia ed intriga!!).

Quindi birra ai Resinelli e poi giù, doccia e grigliata in giardino con il resto dei Tassi del Moregallo. 

Note: la Guida LarioRock Pareti, la guida “per i milanesi che rientrano in elisoccorso chiedendosi cosa sia andato storto”, liquida brevemente la Tessari come una via di 6a+, 5a obbligato, aggiungendo: “via recente che sale l’estetico spigolo sud su roccia da buona a ottima. Chiodatura sicura mista chiodi e spit. Arrampicata fisica mai troppo impegnativa. Consigliata.” Mavaffanculo ai fenomeni della carta stampata… A casa mia un 5a è Visitor2 a Scarenna: salvo l’unto tutti, con un po’ di pratica, possono riuscire a superarlo in sicurezza. La Tessari è invece una via in ambiente con un severo passaggio di VI+, tutto lo sviluppo richiede esperienza sufficiente per individuarne i pericoli e le difficoltà. Una via alpinistica su roccia da comprendere. Ma, in ultima analisi, è proprio questa la sua bellezza: la possibilità di confrontarsi ed imparare dalle scelte dei fortissimi fratelli Tessari. Non c’è nulla di “sportivo” in quella via, quindi dimenticate la becera scala francese e tenete bene a mente quella U.I.A.A. (la Welzenbach aperta). Portatevi il martello e fate riferimento alla relazione originale di Vertice 2009 (vedrò di recuperarla) oppure a quella della Scuola Guido Della Torre (sempre molto precisa e ponderata). Per la Bramani o la Normale potete fare riferimento ai Sass Baloss, sempre corretti ed onesti nelle loro relazioni. Concatenare la Tessari e la Bramani si è dimostrata una soluzione molto appagante che, in Grignetta, può darvi un ampio assaggio dell’arrampicata sull’Isola Senza Nome.

Davide “Birillo” Valsecchi

San Rocco al Palone

San Rocco al Palone

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Il piano era semplice: Prato San Pietro, Valle dei Mulini, Rifugio Bogani, Cima del Palone da Sud, qualche foto e poi a casa. Ma alle volte c’è una strana forza che cattura l’istinto e conduce lontano dalle mire della ragione, accompagnandoti esattamente dove la tua passione voleva arrivare: sembra incredibile ma a volte perdersi è il solo modo per trovare la strada giusta.

Così eccomi qui, nella Valle dei Mulini, una linea di per sè abbastanza selvatica ed impervia per raggiungere il Bogani. I ponti ed i cavi hanno addomesticato una salita che, diversamente, sarebbe tutt’altro che banale e che tuttavia, per i molti tratti esposti, non va comunque sottovalutata.

C’ero stato solo una volta in quella valle, in discesa, ed avevo persino bivaccato con la tenda durante il grande tour dei Flaghéé. In quella “piazzola” panoramica ora ci sono delle belle panchine e giunto in quel punto mi sono attardato, distratto dai ricordi. Poi, tra le piante, è apparso il profilo del Pizzo d’Eghen: anche lassù ho bivaccato, ma in condizioni davvero meno bucoliche.

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Cercando un buono scatto del Pizzo ho lasciato il sentiero, rimontando il prato in cerca di una radura da dove cogliere una foto. Puntando un canale mi sono imbattuto in sentiero assolutamente imprevisto. Su alcune piante la scritta rossa “Solix” ed un cavo metallico per abbassarsi sul fiume: un sentiero “serio” sebbene nessuna indicazione o bivio sembrasse segnalarlo a valle.

Dal canale ho scattato la mia foto ed ho cominciato a seguire quella traccia senza avere assolutamente idea di dove portasse. Un pensiero mi ha rubato un sorriso divertito: “Birillo, sono i boyscout che si mettono nei guai seguendo a casaccio i sentieri!” Ho fatto spallucce a me stesso. A scuola, da bambino, facevo una gran fatica ad imparare a memoria le poesie, ma per mappe e cartine ho un talento naturale: in qualche modo me la sarei cavata, il vecchio orso poteva continuare a seguire la sua pista sconosciuta.

Il sentiero, sempre marcato a bolli rossi, risale grandi boschi di faggio e questo mi faceva pensare potesse essere il “sentiero dei faggi” che porta al rifugio Riva. Tuttavia quella teoria andava via via perdendo di consistenza, si stava infatti alzando troppo di quota suggerendo un’altra possibilità più probabile. Quando Mattia ed io abbiamo fatto il Camino Cassin ci siamo avvicinati dall’alto, traversando da sotto la ghiacciaia del Moncodeno. Quindi, sebbene non lo conoscessi, quello poteva essere l’avvicinamento classico al Pizzo.

Sempre più incuriosito ho continuato a salire lungo quella traccia che diventava sempre più alpina ed aerea. Parte del grande fascino del Pizzo è dovuto anche alla straordinaria natura che lo circonda, ai colori, agli odori intensi di montagna vera e viva che lo circondano. Giunto su un crinale mi sono imbattuto in una segnalazione a vernice rossa: una freccia “Per la Parete”, l’altra freccia “PSR”.

“Il Pizzo lo conosco, scopriamo cos’è il PSR…” La traccia sale sempre più selvatica verso l’alto puntando dritta alle spalle del Pizzo, verso uno sperone che credo si chiami Pizzo di Strecc. Ogni volta che mi è possibile lascio il sentiero cercando una cresta o un’altura da dove orientarmi. “Stiamo andando su: o montiamo in spalla all’Eghen o giriamo dentro il canalone verso la scodella del Palone!” Ormai eravamo troppo alti perchè quella traccia puntasse verso Est ricongiungendosi al passo dello Zapel o alla val Cugnoletta. No stavamo andando diretti verso l’alto!

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Una placca argina il piede di un ripido canale erboso piacevolemente alpino. Una catena aiuta il passo ed una freccia a vernice indica “Passo San Rocco”: ecco tradotto il nostro “PSR”. Superata la placca il sentiero quasi si perde nell’erba: devo fare attenzione, non è posto dove mancare la svolta giusta. Giunto sul crinale un’affilata cresta si slancia nel vuoto verso la valle, con prudenza la seguo sebbene il vuoto assoluto cominci a circondarmi.

Sotto di me un abisso: il canale Vallori scende inquietante ed affascinante verso l’Alpe Zucc. Conosco i nomi di quel luogo perchè avevo spesso fantasticato di risalire quel canale esplorando quella zona tanto remota: ma le mie fantasie sfumavano osservando le spaventose difficoltà di quel canale verticalemente in frantumi. Tuttavia ero lì, in modo inconsapevole ero giunto esattamente dove volevo arrivare: un ultimo colpo di mano e potevo superare la parte alta del canale ed entrare nella scodella del Palone. Già, ma la faccenda non era comunque semplice.

Ancora non sapevo se il sentiero salisse verso destra (puntando chissà dove sulle spalle dell’Eghen) oppure (più logicamente) traversasse verso sinistra forzando il canale. L’unica certezza era la violenta apocalisse che si era abbattuta da quelle parti! Il canale era di per sè spaventoso ed implicitamente pericoloso ma l’unico punto dove sembrava possibile imbrogliarlo sembrava aver subito un bombardamento! Dal pilastro sovrastante una macchia gialla indicava chiaramente che una porzione di roccia, grande probabilmente come il pilastrello dei Corni, si era staccata precipitando verticalmente sulla placca appoggiata sottostante scatenando il pandemonio!

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“Pare proprio che si debba passare di lì…” Dallo sperone studiavo il lungo passaggio ammucchiando le incertezze. Forse una volta c’era un comodo sentiero, ora era un lungo traverso su detriti appoggiati a placche inclinate e salti rocciosi. “Se fiondi su quel geretto non bastano cinquanta metri per fermarti….” Nessuno sapeva dove fossi (forse nemmeno io), il passo era distrutto da una frana ed il canalone sembrava pronto ad inghiottirmi. In sala comando tutte le lucine erano accese e gli allarmi urlavano forte: ”No! No! NO!”. Ma nell’incertezza un pensiero è riuscito ad avere malauguratamente la meglio “Diamo solo un occhiata”

I pini mughi erano contorti e distorti dalla frana ed il sentiero sembrava perdersi nello sfasciume vivo oltre la vegetazione sopravvissuta. Mi sono buttato in placca cercando le vestigia di una qualche linea ma avevo l’impressione di camminare su una distesa di cocci rotti: la palude non ha punti fermi. “No, così non ce la faccio: è troppo!!”. Cercavo di restare concentrato ma il vuoto del canale sembrava strapparmi i pensieri. Poi, più in alto, ho visto un cavo nero nell’ombra di una nicchia: ”Idiota! Ecco dove si passa! Forse qualche cavo ha resistito”. Mi sono alzato rifacendo il punto della situazione. Chi aveva tracciato il passo era stato più furbo di me: non aveva puntato a testa bassa nel cuore delle difficoltà ma aveva seguito una nicchia orizzontale che, in qualche, modo aveva protetto i cavi.

Con qualche strattone provo la tenuta del fittone più vicino: “Bhe …diamo un’occhiata”. Finita la nicchia la situazione torna ad essere critica. Il cavo nonostante qualche sassata ha tenuto, ma la frana ha spazzato ogni appoggio sottostante. Con gli scarponi provo i sassi sporgenti cercando di caricare il meno possibile il cavo. Ho i piedi su roba che si muove e sono appeso ad un cavo la cui resistenza è tutta da valutare. Ho solo due certezze: se non arrivo dall’altra parte dovrò rifarmi ogni passaggio due volte, se mi crollano i piedi e sbottono gli ancoraggi passando di sotto neppure braccio di ferro riuscirebbe a tenersi attaccato a questo cavo.

Lavoro concentrato, evitando le apnee. Il giocattolo che ho al polso più tardi mi dirà invece che le mie pulsazioni sono schizzate a 130b/m nel cuore del passo. Verso la fine il cavo diventa lasco, vedo la sconsolante punta di un fittone penzolare mentre il cavo è avvolto, alla meglio, attorno ad un mugo traballante. “Bhe… allora qualcuno è già passato…vedi stramaledetto fifone?!” Quel tratto di cavo è inutilizzabile ma si può rientrare un un piccolo canale e, per quanto il fondo sia franoso, ci si può proteggere con qualche solitario appoggio solido.

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Sull’altro lato del passo mi sono fermato a prendere fiato: “Porca eva! Fiuuuuu! Che sgagia! Mangiamoci un panino!!”. Per quello che è dato sapere almeno due incoscienti hanno attraversato il passo dopo il crollo, per certo uno dei due (io!) se l’è quasi fatta sotto! Senza quei cavi incerti non sarei riuscito a passare e questo dovrebbe dirverla lunga sulla precarietà ed inagibilità attuale del passo. (Non fate vaccate!)

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Il canalone della Vallori però smette di essere un abisso raccapricciante trasformandosi in una verde oasi alpina resa brillante dal sole che ha scavalcato il crinale. Il sentiero è ormai una serie sparsa di bolli rossi tra erba e ghiaioni. Tuttavia le difficoltà sono addomesticate da un ambiente accogliente e non più ostile. Le preoccupazioni e le incertezze sono ormai alle spalle, vago per la valle risalendo piacevolmente verso il crinale del Palone. All’orizzonte il Legnone e la lunga cresta che lo unisce al Pizzo dei Tre signori, sullo sfondo brilla il Disgrazia e la “Corda Mola”.

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Quando raggiungo la Cima del Palone la mia avventura è ormai una gita. Passeggio lungo il crinale ammirando il Monte Rosa ed il Cervino che sembrano galleggiare sospesi nell’orizzonte. Mi allungo fino ad vedere la cima del Pizzo d’Eghen e per un secondo resto ad osservare la nicchia in cui, quella notte di tempesta, ci siamo scavati la fossa in cui bivaccare. Pensavo che rivedere quel logo mi avrebbe dato qualche sensazione più intensa, ma mi ha regalato solo un mezzo sorriso nostalgico: il Pizzo d’Eghen è ormai alle spalle, seduto sulla vetta del Palone Settentrionale osservo il futuro e la magnificenza imperiosa della Parete Fasana.

Davide “Birillo” Valsecchi

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