Year: 2018

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Arrampicare fa male

Arrampicare fa male

Sì, arrampicare fa male, soprattutto alla scrittura. Ho ripreso in mano alcuni miei scritti di cinque o sei anni fa… e sono rimasto a bocca aperta! Una volta scrivevo decisamente meglio! Non solo il modo con cui scrivevo era migliore, ma in quelle storie si respira una libertà che oggi mi sembra inarrivabile. Storie “aperte”, spesso solo abbozzate, solo contornate, in cui ognuno era libero di smarrirsi e ritrovarsi come meglio credeva. Il lettore era parte integrante, trascinato in un viaggio ci cui non era spettatore ma a proprio modo protagonista. Scrivevo con il chiaro intento di “sequestrare” il lettore, di rapirlo, di “rubargli del tempo” per portarlo “altrove”. Oggi, troppo spesso, mi preoccupo di cosa penserà chi legge, delle sue critiche, delle sue osservazioni, di quale sarà il prossimo stronzo tanto stupido da mettere in mezzo gli azzeccagarbugli per tutelare -senza successo- le proprie marchette. La poesia sembra spazzata via: tutto va giustificato, catalogato, etichettato. L’arrampicata dovrebbe essere il reame della libertà, l’emancipazione dalla gravità, ed invece si trasforma in un meschino e costante confronto, in un mercimonio funzionale, in una competizione con il righello in una mano, il trapano nell’altra ed il sacro picio al vento.

Nella mia mente, in cerca di risposte, ho elaborato un esempio: una gara di freccette in un pub inglese. Per descrivere questa scena inizierei dall’atmosfera, dalle ombre del locale nei riflessi delle luci del bancone. Gli odori, un misto di fumo, alcol ed umanità. I suoni, il vociare, le parole della canzone di sottofondo. Racconterei del barista, delle cameriere, degli avventori ai tavoli, soprattutto di quelli nascosti negli anfratti bui. Il loro sguardo, le loro vite, si fonderebbero con la storia principale raccontandola dal suo interno. Il suono delle freccette sul bersaglio diverrebbe il suono del tamburo, martellante e profondo, con cui ritmare la realtà. Se invece fosse un racconto di arrampicata si dovrebbe descrivere l’inclinazione del gomito, la torsione del polso, se il bersaglio era regolamentare e la distanza valida, marca/modello/produttore delle freccette, quanto era ghisato, se era la prima volta in quel pub, che tipo di allenamento era stato fatto, chi certifica il punteggio finale e quali sono gli sponsor da elencare. Il primo racconto sarebbe degno di Jack London o Tarantino, il secondo andrebbe bene per un documentario a sottotitoli, in tarda serata, su un’emittente privata, per ritardati in attesa di masturbarsi con le pubblicità per chat erotiche.

Badate bene, il problema non è il tecnicismo ma quanto l’aridità! L’arrampicata ha una propria specificità che, inevitabilmente, influisce sul lessico e sull’impostazione. Il problema però è l’assoluta povertà di contenuti, che paradossalmente diventa anche più evidente laddove ci si prefigge un universalità di fruitori. Grotteschi “genialoidi” che spacciano melense ed oleose banalità da cioccolatino, ammorbandole di una grandiosità fuori luogo, presa prestito o saccheggiata al passato, infarcendo tutto con concetti “a cancelletto” stile #pace #amore #armonia #siamotantobravieonesti #sponsorA #sponsorB #sponsorizzaMi. “Thugs” che come in un film di MadMax si dipingono di bianco la faccia e, spruzzandosi i denti d’argento spray, urlano orgogliosi “Ammirami!” …ben consapevoli che sui fittoni e circondato dai fotografi praticamente non corrono alcun rischio. Bene: se questo è il “meglio del meglio” io non voglio più fare parte di questo circo di polli e capponi!

Scrivere richiede fatica. Faticare per uno scopo significa lavoro, faticare senza scopo significa ricerca. Scrivere senza secondi fini significa inseguire un’idea per il solo piacere di catturarla e condividerla. Significa catturare una farfalla con le mani, trattenerla incolume per un secondo, lasciarla libera di volare via tra lo stupore dei presenti. Questo è scrivere, questo probabilmente è anche arrampicare. Ho lasciato che impoverissero la mia scrittura, non accadrà più.

Quindi sì, tutto questo antefatto solo per un messaggio di servizio: “Andatevene affanculo!”. Rosiconi e rompipalle imbastiti di magnesite sono pregati di impegnare le porte d’uscita e, senza salutare, abbandonare la nave. Adios! A mai più rivederci! Finalmente “Cima” lascia il porto e riprende una rotta che sembrava smarrita. Chi eventualmente decidesse di restare, pochi o tanti che siano non importa, indossi il giubbotto di salvataggio e si regga forte a qualcosa: “Aye aye Signore! Alla via così! Destinazione Ignota!”

Davide “Birillo” Valsecchi

Andrea è nata

Andrea è nata

Lunedì 26 Febbraio 2018, alle ore 10:04, è nata a Lecco Andrea “Anna” Valsecchi, figlia di Davide “Birillo” Valsecchi e di sua moglie Bruna “La Bergamasca” Galli. Bruna, domenica notte, ha iniziato ad avere delle contrazioni sospette. Pensavamo fossero dolori passeggeri e così, prima di andare al lavoro, l’ho accompagnata a fare un “controllino” in ospedale. La nanerottola era già sul “sentiero d’uscita” mentre, con assoluta nonchalance, siamo arrivati in Ospedale. Quando hanno visitato Bruna è scoppiato il pandemonio: Bruna aveva stoicamente affrontato tutto il travaglio (“Mi aspettavo facesse più male!”) e la bimba poteva nascere a momenti; tuttavia, essendo podalica a travaglio quasi completo, i medici hanno dovuto correre in fretta e furia per effettuare un parto cesareo d’urgenza.

Ora, dopo una prudenziale settimana di attesa, posso darvi l’annuncio. Andrea è nata di 2.1Kg e 45cm di lunghezza. Pesci, ascendente Toro. Essendo però in anticipo sulla tabella di marcia di quasi due mesi, è necessario che entrambe “bivacchino” per un po’ in ospedale affinché tutto vada per il meglio. Voglio però tranquillizzarvi: al momento stanno entrambe molto bene. La nanerottola è davvero bellina: io e lei oggi abbiamo “pisolato” insieme per cinque ore.

Come è andata? Beh, è stata una piccola grande avventura, è davvero una vera rivoluzione. Ora però, per favore, non vogliatemene se non vi racconto molto di più: nella “tana di tassi”, nella sancta sanctorum dove è custodita la piccola Andrea, questa volta lascerò entrare solo i fidati membri della nostro sgangherato equipaggio. I tassi, in silenzio, fanno quadrato attorno ai loro cuccioli.

A presto!

Davide “Birillo” Valsecchi

Ps: Sì, sono molto felice.

Il Nostromo dei Tassi

Il Nostromo dei Tassi

A bordo di una portaerei americana vengono imbarcati alcuni cannibali, con il compito di interpreti con le popolazioni locali delle isole del Pacifico. Il comandante della portaerei riunisce i cannibali e rivolge loro un breve discorso: “Ora fate parte della Marina degli Stati Uniti: dovete quindi comportarvi civilmente e – soprattutto – vi ricordo che è PROIBITO mangiarsi i membri dell’equipaggio!”. Per alcune settimane tutto fila tranquillamente, ma un giorno il comandante convoca i cannibali e dice loro: “E’ sparito il nostromo: non è in licenza, non è in franchigia, sappiamo che non è caduto in mare e che non ha disertato. Quindi: VE LO SIETE MANGIATO VOI!”. I cannibali per un po’ cercano di negare ma alla fine – di fronte alle precise accuse del comandante – sono costretti ad ammettere che si sono mangiati il nostromo; vengono quindi congedati disonorevolmente, e cacciati a pedate giù dallo scalandrone. Mentre, mestamente, si allontanano lungo la banchina, il capo dei cannibali dice agli altri antropofagi: “Ve l’avevo detto, io, di non mangiarvi il nostromo! In tutto questo tempo ci siamo mangiati tre guardiamarina, un sottotenente di vascello, due capitani di corvetta e addirittura un capitano di fregata, e nessuno si è accorto di niente… Avete voluto mangiarvi anche il nostromo, e guardate che casino che è successo!”

Davide “Birillo” Valsecchi
Nostromo dei Tassi del Moregallo
ISN – IsolaSenzaNome

Il tuo tempo migliore

Il tuo tempo migliore

E adesso cosa resta della nostra età? Se togli la ribalta, la radio, la musica, la fama e la voglia di riscrivere daccapo una storia irrisolta. Me lo chiedi e siamo dentro a un bar, e sei davvero stanca e hai perso gli occhi in una banca. E hai un contratto nuovo come protesi. Eri più bella quando non eri di nessuno, eri più bella quando eri gratis. Eri più bella quando rischiavi, eri più bella. Eri più bella come ipotesi. E non chiedevi altro alla vita che uscirne sudata e coi polsi tremanti, le ginocchia sporche, una luce negli occhi. E non è piangere e non è urlare, ridere forte da spaccare i vetri. Rompere le cose, finché ne hai, morire di vino e soste leggere, e a pochi passi dalla fine ubriacare le paure. E risorgere tramortiti il giorno dopo, in un albergo con una vasca di squali nel cervello ed un’elica che ti solleva il petto. Stupidi come l’amore, saggi come l’incoscienza, senza più pensieri da gettare in mare. Senza più parole per abboccare. Scoprire sempre dopo che per sempre non c’è tempo. Amarsi più forte di lavorare. Avere sempre meno ore. Che davvero non c’è tempo, non c’è tempo. E sei tu il tuo tempo migliore.

Il tuo tempo migliore

E mi chiedi cos’è questo bisogno di spingersi al limite. E fare sempre la scelta sbagliata per vedere che succederà. E non farsi mai andare bene quel poco di pace prima del buio. Dover lasciar vincere il vento. Mischiare la pelle ed esplodere, il cuore e ancora. Ti cerco nei giorni migliori, ti cerco nei sorrisi degli altri, che non sorridono mai. Come te. E non chiedevi altro alla vita che uscirne sudata e coi polsi tremanti, le ginocchia sporche, una luce negli occhi. E non è piangere e non è urlare, ridere forte da spaccare i vetri. Rompere le cose, finché ne hai, morire di vino e soste leggere, e a pochi passi dalla fine ubriacare le paure. E risorgere tramortiti il giorno dopo in un albergo, con una vasca di squali nel cervello ed un’elica che ti solleva il petto. Stupidi come l’amore, saggi come l’incoscienza. Senza più pensieri da gettare in mare. Senza più parole per abboccare. Scoprire sempre dopo che per sempre non c’è tempo. Amarsi più forte di lavorare. Avere sempre meno ore. Che davvero non c’è tempo, non c’è tempo. E sei tu il tuo tempo migliore. Il tuo tempo migliore. Bruciare sempre, spegnersi mai.

Cristo santo, Birillo, chiuso a quarant’anni in un loculo senza finestre non puoi piangere per una canzone… Te lo dico da amico: alla nanerottola serve un padre, non uno zombie che paga i conti. Apri quei tuoi cazzo di occhi azzurri, riaccendi quella luce violenta ed intensa che come un faro inchioda la vita. La primavera è alle porte, Birillo, la primavera è alle porte!!!  

Roda di Vaèl – Parete Rossa

Roda di Vaèl – Parete Rossa

[Alessandro Gogna – Rassegna Alpina Marzo/Aprile 1969] Nel trascorso inverno poverissimo di imprese alpinistiche, eccezionali o meno, ci è giunta desiderata la notizia della conquista invernale della via Concilio Vaticano Secondo, sulla Parete Rossa della Roda di Vael. Questa via ha appena sei anni di storia, eppure, molte sono state le avventure che vi sono state vissute. Già nel Natale 1962 i Colibrì, guidati da Peter Siegert, che pochi giorni dopo avrebbero dovuto concentrare l’attenzione dl tutti con la loro sfibrante impresa sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo, avevano tentato la prima invernale (e prima ripetizione). Furono costretti a desistere e deviare sulla via Maestri, concludendo insieme con i monzesi Vasco Taldo e Nandino Nusdeo. Freddo intenso e scarsa attrezzatura sono stati i motivi della rinuncia.

La «prima» era stata compiuta dal 6 al 9 settembre 1962, ideata e condotta dal noto Bepi Defrancesch, con i suoi compagni Cesare Franceschetti, Quinto Romanin ed Emiliano Vuerich. La via si inserisce tra il classico itinerario «Buhl», di Lothar Brandler e Dietrich Hasse, del 1958, e il più artificiale itinerario diretto di Cesare Maestri e di Claudio Baldessari, del 1960. Fu immediatamente denominata la «superdirettissima», anche se battezzata «via del Concilio Vaticano Secondo», per continuare la tradizione della «Olympia ’60 » e di «Italia ’61» aperte sul Catinaccio e sul Piz Ciavazes. Nel 1963 Defrancesch avrebbe potuto continuare aprendo magari un nuovo itinerario del «Centenario del CAl», ma ha preferito aspettare il 1968, per il «Cinquantenario di Vittorio Veneto», sul Piccolo Vernel. Ormai tutte le vie della Parete Rossa erano state percorse d’inverno perfino la difficilissima Eisenstecken, vinta dagli altoatesini Holzer e Authier: Heini Holzer (lo «spazzacamino»), uno dei rappresentanti del fortissimo nucleo di alpinisti italiani di lingua tedesca, di cui Reinhold Messner e senza dubbio il nome più importante. Mancava solo la salita della «superdirettissima». Così, tanti sono i tentativi andati a male, d’estate e d’inverno. Claude Barbier torna indietro, ed anche Marco Dal Bianco.

I più accaniti sono Giorgio Brianzi di Cantù (da pochi giorni Accademico del CAI), e Franco Gastaldelli, detto «Califfo», di Milano. Moltissime volte si portano da Milano al rifugio Paolina. Poi all’attacco con il materiale, poi ritornano. Quando attaccano per la prima volta, al sesto tiro di corda crolla un intero terrazzino sotto i loro piedi. Rimangono fortunosamente appesi ai chiodi.

Ritornano ancora il 17 marzo 1968, con Paolo Armando e con me; bivacchiamo sulle amache dopo quattro lunghezze. Il giorno dopo ci spingiamo fino a due terzi della parete. Qui, dopo lunghe incertezze, decidiamo che le cose sarebbero ancora andate troppo per le lunghe. L’unico parere contrario è quello di Brianzi, che vorrebbe invece continuare. Così scendiamo, e traversiamo sulla via Maestri; altro bivacco, e poi giù per un diedro strapiombante, fino al tetto triangolare, tutto in artificiale, in discesa. Ormai per Giorgio Brianzi è un chiodo fisso, ed ha ragione.Troppo tempo, troppa fatica e denaro ha speso per quella via.

Il 14 giugno 1968, ritorna ancora, con il «Califfo». Questa è la volta buona per la prima ripetizione, insieme a loro però, ci sono anche due lecchesi, Aldo Anghileri e Piero Ravà, e due bolzanini, Dante Belli e Sereno Barbaceto. Con due bivacchi escono in vetta, in mezzo ad una tormenta di nevischio, e così la via che per sei anni non era stata ripetuta da nessuno, improvvisamente e stata salita da sei alpinisti.

Ma la lotta non è ancora finita. Fine dicembre 1968, il freddo eccezionale scoraggia i tentativi. Ma il 5 gennaio il tempo è ancora bello, e il freddo meno intenso. Il Califfo non è della partita perchè non è sufficientemente allenato. Compagno di Brianzi è Tiziano Nardella di Milano. I due stanno tre giorni in parete, fino al 7, costretti ad arrampicare sulla muraglia gialla e strapiombante con i guanti, ed a volte persino di notte, come alla fine del secondo giorno, per raggiungere una nicchia, l’unico posto buono per bivaccare.

Una partenza discreta la loro, senza informare alcuno, tranne un paio di amici; è il costume classico e po’ tramontato del vecchio alpinismo, schivo del clamore pubblicitario. Raggiunta l’alta val d’Ega hanno preso la seggiovia del Paolina, avvicinandosi ad una delle pareti più illustri e più «dolomitiche», cui le vicende hanno legato nomi grossi: Emilio Cornici, Toni Egger, per vincere la parete; Angelo Dibona, molti anni prima, per salire uno splendido itinerario, il solo allora possibile, tutto a destra delle placche gialle e rosse; e poi Lothar Brandler e Dietrich Hasse, e Cesare Maestri, e Otto Eisenstecken.

E ora Brianzi e Nardella, su questo appicco di 400 metri, su questa via a goccia d‘acqua, che possiamo collocare al limite delle possibilità dolomitiche, e nell‘ambito delle ascensioni classiche, indiscutibilmente fedele all’etica più pura, su cui i chiodi a pressione solo necessari e pochissimi, e molti e difficili sono i passaggi in arrampicata libera, le lunghezze «estreme». Essa soddisfa i conservatori che negano la validità delle sfilze di chiodi e nel contempo suscita il rispetto degli specialisti dell‘artificiale uno, due, e tre. Quindi il massimo di un genere. Brianzi e Nardella sono saliti in questo regno di placche e tetti gialli, incontrando neve su ogni terrazzino, e molto freddo, specie al mattino e di notte. All’uscita in vetta, verso le 16.30 del 7 gennaio, trovano ghiaccio e neve fresca, dove la parete perde la sua verticalità. Il ritorno non è stato drammatico, ma assai faticoso. I due nuotavano nella neve fresca, ed hanno impiegato sedici ore dalla vetta al rifugio. D’estate in due ore si può già essere con le gambe sotto un tavolo a bere birra a volontà.

Ad un certo momento decidono, nella nebbia più fitta, di scendere direttamente in basso, per guadagnare al più presto la carozzabile, 650 metri più in basso. Ma non è possibile scendere su quel terreno, sfondano fino alla gola, a volte sparendo improvvisamente per un buco sotto i piedi. Altro momento scoraggiante è stato quando i due, deciso di abbandonare tutto il materiale sotto un masso, incominciano a camminare, e dopo mezz’ora si ritrovano sotto lo stesso masso.

ALESSANDRO GOGNA

Claudio Bartoli

Claudio Bartoli

Sul numero 8 del bimestre gennaio-febbraio (1969) della Vostra rivista è stato pubblicato l’articolo del nostro Socio Claudio Bartoli, dal titolo: «Ciarforon, Montagna amica». Ora purtroppo il giovane Bartoli è tragicamente perito la vigilia di Pasqua, travolto da una slavina nei pressi del Rifugio «Ai Caduti dell’Adamello». Vi trasmettiamo lo stesso un suo articolo lasciando a voi il giudicare se sia il caso di riprodurlo su Rassegna Alpina. Aldo Varisco, Segretario C.A.l. Brescia

* Abbiamo qui sul tavolo la lettera con cui Claudio Bartoli offre la sua collaborazione a Rassegna Alpina, con quella dell’amico fotografo Manuel Fasani, per «far conoscere ai giovani, in un periodo in cui non si parla che di sesto grado, anche gli itinerari classici con difficoltà medie, in particolare vie, e versanti oggi poco frequentati, dove la montagna è bella e incontaminata». Questo ci scriveva Claudio Bartoli, giovanissima promessa dell’alpinismo che aveva in primo luogo captato il vero spirito della montagna. Con la quale aveva instaurato un personalissimo rapporto, che traspare schietto dalle righe del suo articolo pubblicato sul precedente numero della rivista, quale inizio della sua collaborazione: «Ciarforon, montagna amica». Ora che la montagna gli è stata così crudelmente nemica, non ci rimane che il suo ricordo ed il suo esempio da proporre agli altri giovani che verranno dopo di Lui. Il suo ultimo articolo «Thurwieser, spigolo Est» verrà pubblicato sul prossimo numero e un altro giovane collaboratore di Rassegna Alpina, Alessandro Gogna, darà l’ultimo saluto al compagno caduto nel perseguimento dell’ideale.

«Thurwieser, spigolo Est»
Questa non è la relazione di una «prima» su qualche spaventosa muraglia dolomitica o di qualche spedizione in terre lontane: è semplicemente il tragicomico racconto di una bella ascensione su una bellissima montagna. Protagonisti dell’ascensione sono tre individui che rispondono, oltre che a urlacci e maledizioni, anche ai nomi di Fausto il Nibelungo, così soprannominato per la sua sconcertante somiglianza con un figlio della razza ariana, cosa che ha provocato incidenti diplomatici con guidatori nazionalisti, e che è il bimbo della compagnia (18 anni); Manuel, cultore del prezioso dialetto bresciano e fotografo e il sottoscritto: i vecchi (19). Già da molto tempo avevamo nel nostro programma di ascensioni la salita della Punta Thurwieser, m. 3645, situata nello splendido gruppo dell’Ortles, salita (per lo spigolo Est) giudicata dai sacri testi alpinistici piuttosto difficile. Sicché un bel giorno, esattamente il 21 luglio, Manuel ed io, saltati, come si suol dire, nelle brache, salpiamo alla volta di Pontedilegno dove, immerso in ozi capuani ci attende Fausto. La sua mamma, con l’abituale gentilezza, ci rimpinza di casoncelli e Manuel furtivamente ne incarta uno con l’intento di portarselo in cima alla Thurwieser come viatico. Annebbiati e barcollanti saliamo sulla corrierina che ci porta fino a S. Caterina Valfurfa. Quivi entra in funzione l’«autostop» o «ditone» come icasticamente lo definiamo. Con tale mezzo eccoci a Bormio, dove iniziamo le ricerche della promessa Jeep che ci dovrebbe portare in fondo alla Val Zebrù. Per le vie di Bormio siamo ammirati come rarità zoologiche dal villeggianti inguainati in rutilanti calzoni e magliette, mentre nell’aria si spandono le dolci note di un villereccio… giradischi. Molto confortante. Finalmente, dopo lunghe e affannose ricerche di un Bar Roma, effettuate principalmente da Manuel, che essendo privo della «erre» confonde le idee ai pacifici indigeni, troviamo finalmente il guidatore della jeep che è anche guida e gestore del rifugio V Alpini che si chiama Pierino Confortola, che ci è stato di grande aiuto, persona gioviale e cortesissima. Con la macchina saliamo la suggestiva e selvaggia Val Zebrù (17 km. circa) e poi a piedi fino al piccolo e accogliente rifugio, ivi troviamo la quattrenne figlia del gestore, la quale insindacabilmente stabilisce che salirà domani con noi la Thurwieser. Il gestore ci indica l’itinerario di salita, che si nasconde dietro nuvolaglie grigie. Ma il mattino seguente ci porta la sorpresa di un cielo superbamente stellato. Ci prepariamo esultanti alla partenza. Per la subdola Vedretta dello Zebrù giungiamo al Passo dell’Ortles dopo circa due ore. Ci assale un poderoso vento che ci induce a salire rapidamente su per la cresta dei Coni di Ghiaccio scelti ieri sera come itinerario di avvicinamento alla nostra cima. La cresta si presenta difficile per la molta neve e il vetrato. Proseguiamo abbastanza svelti, ma Fausto e immerso in un sonno profondo dal quale non lo strappano nemmeno le nostre orrende maledizioni. Sorge il sole proprio quando siamo in un momento critico: un passaggio difficile. scoraggiamento serpeggiante, e Fausto che dorme. Il momento difficile è però superato, e presto ci troviamo, dopo la salita di un ripidissima canalino ghiacciato, sulla vetta dei Coni di Ghiaccio. Foto di Manuel, espertissimo in diaframmi e tempi di posa, e adesso un po’ di cioccolato. Dal mio sacco escono chiodi, martelli, un pezzo di fetentissimo gorgonzola che fa svegliare momentaneamente Fausto; calze e pedalini, ma cioccolata niente. Pazienza. In breve siamo al colletto nevoso tra Coni di Ghiaccio e Thurwieser. Di qui si slancia in alto il bellissimo ed elegante spigolo Est della nostra cima. Si tratta di una affilata lama di neve e ghiaccio, alta circa 200 metri con l’inclinazione media di 50°, e un’impennata finale sui 60°. Pausa di meditazione. Preparato il materiale, partenza. L’inizio è abbastanza agevole, la neve è durata. Sicuri ci alziamo filata dietro filata per 150 metri a cavallo tra due baratri, e Manuel borbotta qualcosa sulla parte dalla quale sarebbe più salutare cadere. Gli ultimi 50 metri sono di ghiaccio vivo. Con fatica riusciamo a piantare nella grigiastra superficie vetrosa un chiodo piuttosto malsicuro dopo 20 metri «violenti». Finalmente riusciamo ad afferrare una esile corda fissa per la quale ci inerpichiamo leggeri leggeri (c’è chi non può; leggi Manuel) per evitare ripercussioni sull’ignoto aggancio della corda. Arrivati all‘aggancio, peraltro solidissimo, ci restano 80 metri di roccette quasi verticali e della consistenza di un biscottino da tè, tutte sporche di neve fresca e poi la esile, ertissima cima della Thurwieser. Il tempo è sempre favoloso, la fortuna è con noi. La sconteremo amaramente questa fortuna alle Jorasses, al Badile, alla Tour Fionde… Dopo una breve sosta via in discesa. Alla fine della corda fissa prepariamo una «doppia» il cui allestimento in mezzo a un ingarbugliamento di chiodi, cor- dame e gambe aggrovigliate, in circa mezzo metro quadrato di terrazzino, è stato così rapido e funzionale da meritare le lodi del nostro capo istruttore signor Tullio Corbellini che adesso stiamo immaginando sperduto nelle desolate lande groenlandesi. Arriviamo festanti al colletto, poi per un ripido canalone, scivoliamo con tragiche conseguenze per il fondo dei nostri calzoni fino sulla vedretta dello Zebrù, e di qui al rifugio, dopo numerose discussioni con alcuni crepacci. Sono le quattordici. Il gestore si congratula con noi, primi salitori annuali (!!!) della Thurwieser. Ci aspetta un pomeriggio di ozio. Ma ahimè, la quattrenne figlia del gestore è assai risentita con noi perchè non l’abbiamo portata sulla Thurwieser. Ecco dunque che trascorriamo tre ore in dilettevoli giochetti di società al termine dei quali Fausto si trova legato per il collo con un cordino, mentre la piccola gioca al boia. Salviamo il compagno e dopo un lungo ed intenso pasto, ci trasferiamo nelle ospitali cuccette. Durante la notte avvengono strani fenomeni: la pila di Fausto illumina il famoso pezzo di gorgonzola che attraversa con mezzi propri la camera e sparisce sotto la porta per non farsi rivedere mai più. Al mattino siamo brutalmente svegliati alle ore 8 per scendere a S. Caterina in jeep. Il tempo brutto provoca l’egoistica contentezza di Manuel (chè bròt, ma nòtri ‘an fà nulla) (è brutto ma a noi non importa, n.d.r.). In breve siamo sul marciapiede della strada del fondo valle. Sono le nove, fino alle undici nessuno ci rimorchierà. La sofferenza è grande. Per sopportarla, inganniamo il tempo e l’attesa macinando un numero incredibile di belle banane (credo di averne mangiate sei…) acquistate presso un furgoncino di frutta. Per due ore siamo oggetto di cortese attenzione da parte di mamme e bimbi in villeggiatura (vedi Pierino? Anche tu se fai il cattivo diventerai cosi…). Finalmente alcune anime buone, di cui una guidava a 70 all’ora sulla strada del Gavia provocando sommovimenti nelle budella di Manuel particolarmente sensibile alla guida veloce, giungiamo a Pontedilegno. Pausa gastronomica e poi, lasciato Fausto, in autostop torniamo a Brescia.

CLAUDIO BARTOLI

Ricordo di Claudio Bartoli – Alessandro Gogna
Una sera di fine gennaio sono andato al CAI di Brescia per tenere una proiezione di diapositive. Non immaginavo di incontrare due ragazzi simpaticissimi, con cui fosse quasi obbligatorio stringere amicizia. Una coppia terribile, Claudio Bartoli e Manuel Fasani. Il letterato ed il fotografo, si erano divisi bene il compito, nelle «public relations». Ed ora sono costretto a scrivere queste poche righe, che vogliono essere l’ultimo saluto ad un amico troppo poco conosciuto, ma che in breve tempo si è rivelato come una delle poche promesse giovani dell’alpinismo e della letteratura alpinistica. Non so da quanto tempo andasse In montagna. Volutamente non mi sono interessato della meccanica del tragico incidente. Non conosco quali salite abbia compiuto. Di lui ricordo una grande simpatia e spontaneità immediata, un’intelligenza viva, una volontà sorprendente. Forse anche a Lui sono riuscito subito simpatico, ed è per me il più bel ricordo. Forse in me vedeva un fratello maggiore (non di tanto), con ancora le sue stesse idee, lo stesso entusiasmo. Forse io vedevo in lui ciò che ero pochi anni fa: gli autostop disperati, le marce notturne, la fame, Il portafogli vuoto, le prime conquiste a lungo sognate… «Siamo tre ragazzi, da soli, ci siamo studiati la via sulle carte, sulla guida, tutto da noi; siamo partiti e siamo qui senza il maestro che ci guida. Un po’ di paura, naturalmente». Mi sembra di leggere il mio diario. Dopo la serata, non volevamo più andare a dormire. Parlare, ridere, scherzare. Progetti. Quel suo umorismo particolare, uguale a voce e per iscritto. Poi la notizia sul giornale, qualche mese dopo, improvviso, brutale. Ci tenevo a che diventasse un ottimo alpinista (non lo era forse già?), che scrivesse, che muovesse le acque in questa palude giovanile, in cui nessuno scrive e tutti fanno il « sesto ». E così, quando ho capito che non poteva più vivere si è spezzato qualcosa anche dentro di me.

«Ciarforon, montagna amica»
Infatti, vista dal sentiero che ripidissimo conduce da Pont in Valsavarenche, Val d’Aosta, al rifugio Vittorio Emanuele II, si mostra con le linee panciute della calotta nevosa, simile a una bella testa calva; vien voglia di passarci sopra una mano per sentirne la levigatezza. E una sensazione piacevole, amica. Ma seguitiamo sul sentiero e facendo attenzione a non tagliar la strada a qualche stambecco, si nota che la calotta comincia ad alzarsi e si vedono a poco a poco i fianchi del monte. Ecco che ci si rende conto delle dimensioni: per andare ad accarezzare quella bella e tonda superficie sarebbe necessario un braccio di cinquecento metri. Domina la scena la parete N, il versante più bello di tutta la montagna. Una parete superba. Un grasso rigonfiamento brulicante di seracchi in basso. Duecento metri al di sopra, la crepaccia terminale, di cui farò ben presto la conoscenza. Una fascia di rocce a destra, un muro di ghiaccio alto da 30 a 60 metri a sinistra, che fascia tutta la parte alta. Tra rocce e muro un passaggio buio e freddo. Ai piedi della parete il ghiacciaio di Moncorvé, bianca distesa variegata. Dietro a quello una lunga morena fino al rifugio. Poi il rifugio, alta costruzione rivestita di lamiera, scintillante. Dietro il rifugio, tre giovanotti con sacchi informi, lingue penzolanti, occhi rivolti al… monte. Ovviamente siamo noi due e un nostro amico che ha la funzione di portatore a causa della sua bontà d’animo che non gli permette di protestare. In rifugio disponiamo in bell’ordine trentadue scatolette sul tavolo (tonno, carne, lingua, frutta) e ci nutriamo copiosamente. Poi,riflessioni. Eccoci arrivati da Brescia in un sol balzo con l’auto di mio padre (sono lontani i tempi in cui ogni mia partenza per l’Alpe era preceduta da invocazioni e minacce!) sotto una parete poco conosciuta e piuttosto «sulle sue», in un gruppo di montagne selvaggio e mai visto prima. Adessi ci siamo. «E domani vedremo», filosofica e lapidaria sentenza, dopo la quale ce ne andiamo a letto. 19 settembre ore 6,30. Siamo seduti sull’orlo della morena e ci allacciamo i ramponi. Il ghiaccio è solcato dalle tracce degli Alpini della Scuola di Aosta, che si sono esercitati qui ieri. Dietro alle montagne dell’alta Val d’Aosta, qualche nuvola. Là in fondo, a Pont, si dorme della grossa. A quest’ora, in montagna, sembra di stare nel vetro. In un vetro biancazzurro, freddo. Un bel silenzio, «alto» se vogliamo l’immagine poetica. Rumori di fondo: i ramponi che stridono e il mio amico fotografo che si soffia il naso arrossato dal freddo. Sosta. Gli intrugli propinatici per colazione ribollono nelle oscure profondità. Riposo. Uno sguardo di insieme su quest’angolo di mondo: il ghiacciaio è racchiuso in una conca ampia, accogliente; col sole dev’essere una meraviglia. Adesso sembra di essere sulla luna. Un livido laghetto in basso nella morena. E sempre, il rombo di un jet che riempie il cielo e una striscia di vapore rosato dietro la macchia scintillante. Siamo sulla linea Milano-Ginevra. A quest’ora, la hostess (commenti salaci) passerà con il primo caffè, caffè vero. Chissà dove va. Il rumore fa compagnia. Partenza. Mancano circa 700 metri alla cima e 400 al crepaccio terminale. Iniziamo con una lunga diagonale (nella parte in ombra della fotografia, a sinistra). Conduce il fotografo. Nuove prospettive del Ciarforon e delle zone intorno; in alto la verticalità non si nota, tutto appare schiacciato. In basso le allegre bocche dei crepacci. In fondo alla scena, la cima del Bianco occhieggia tra le nuvole. Sei occhi supplichevoli la guardano. In breve siamo al crepaccio terminale, in cui cado. La cosa mi secca e la parte del mio corpo dalla vita in giù reclama la luce. La ottiene presto. Un’occhiata in su, un colpo ai calzoni che tendono a cadere, brandisco la piccozza e parto. Gloria per tutti! il pendio è molto ripido (50°),la neve tiene. Quaranta metri, un bel chiodo a vita nel ghiaccio, colpi di piccozza per scavare una piazzola di sosta e il rituale «Parti!». Quante volte ho ripetuto questi gesti meravigliosi! Ma cui è diverso. Siamo tre ragazzi, da soli, ci siamo studiati la via sulle carte, sulla guida, tutto da noi; siamo partiti e siamo qui senza il maestro che ci guida. Un po’ di paura, naturalmente. Sale il secondo. Sono felice di starmene attaccato al ghiaccio, li in mezzo, legato a un chiodo, insolentito dal basso perchè non recupero la corda al millimetro. Mangiamo una marmellata, uno sopra l’altro, ramponi e casco a contatto. Riparto. Sempre più ripido, ma non verticale nè difficilissimo. Richiede un po’ di cautela, ecco. E un minimo di tecnica. Il canalino. La faccenda è grama, sento il ghiaccio vivo sotto i ramponi. Ma ne usciamo bene. La valle si è inabissata, lo spettacolo è bello, come sono belle le facce ridenti e spettinate dei miei compagni, la mia piccozza che fa zampillare schegge di ghiaccio dal pendio. in basso la neve si colora di arancio e poi scintilla: è sorto il sole, ma qui non lo vediamo. incidentalmente fa un freddo cane. Ultime tirate di corda su ghiaccio ripido e neve polverosa. Chiodo, attenzione, calma e parolacce. E poi sbuchiamo in cima, col sole. Noi tre, in cima al Ciarforon, saliti dalla parete N, che proprio una passeggiata non è, tant’è vero che l’ha salita anche Bonatti, figurati, e poi l’ha detto anche Carlo, ma sì, quello del Badile, quello che ha fatto la Major… Noi tre, che ieri eravamo a quest’ora a preparare i bagagli, adesso siamo qui in cima. Uno sguardo in giro. La Grivola (l’anno prossimo, da Nord Ovest) domina ad Est. Poi la favolosa parete NO del Gran Paradiso che col Kilimangiaro è il sogno del nostro secondo di cordata. La pianura lontana, luci e ombre. Il Monte Bianco, le Grandes Jorasses (un mese fa eravamo là sopra); un luogo meraviglioso, la cima spaziosa del Ciarforon nel gruppo del Gran Paradiso. Seduti sulle corde noi tre soli, mangiamo. lo fumo la pipa con grande costernazione altrui. Sbrendoli di nebbia passano via. Il tempo è bello; qui sulla nostra testona calda e candida. Bel colpo, ragazzi! Il rifugio brilla col suo rivestimento di lamiera là in fondo. Sono le 10,30: Evviva! che tanto di tempo ce n’è.

CLAUDIO BARTOLI

Giovanni Giarletta

Giovanni Giarletta

“Alla guerriera bella e senza amore un cavaliere andò ad offrire il cuore” Ho conosciuto Giovanni quando era venuto ai Corni per ripetere alcune classiche. Pensavo fosse uno dei tanti che erano giunti all’Isola in cerca di “qualcosa”, era amico di amici nel soccorso, così gli chiesi se poteva scrivere due righe sulle sue salite ai Corni. E con grande disponibilità così fece: “L’idea che mi ero fatto di questa zona era di un alpinismo diverso da quello praticato in Grignetta (montagna alla quale sono particolarmente legato perché quella che più ha contribuito con le sue guglie e le sue vie di arrampicata alla mia formazione alpinistica). Un’arrampicata classica mista artificiale, faticosa e mai scontata con una forte componente psicologica era il quadro che infatti avevo dipinto nella mia mente. Così, incuriosito e desideroso di voler verificare di persona storie/aneddoti letti e sentiti, ho accolto volentieri la proposta del mio compagno di cordata Luca di ripetere la via Stella Alpina al Corno Orientale di Canzo.”

Mi piaceva la sua visione e la sua genuinità, così gli chiesi di scrivere ancora quando aveva tempo. Ed infatti mi inviò il racconto della Cassin al Sasso Cavallo. Spesso erano poi i suoi amici ad inviarmi racconti in cui erano protagonisti con lui della salita. Leggevo quelle storie con grande piacere anche se ero consapevole che ormai “mi stava lasciando indietro”, che ormai era diventato più forte, che stava per entrare in un’altro “campionato”. Quando è partito per il Cerro Torre ero preoccupato, ma quando ho saputo che era indenne dopo la cima non potevo che essere strafelice. “Beh, Birillo rallegrati: a bagnarti il naso è uno da Cerro Torre!!”. Giovanni aveva un sorriso capace di spazzare ogni invidia: si poteva solo sostenerlo ed augurargli il meglio possibile.

L’ultima birra insieme l’abbiamo bevuta ai Resinelli a Luglio. Ci eravamo incontrati per caso. Io e Mattia eravamo sul Costanza, lui e Luca sulla Mongolfiera. Facendo come al solito il pagliaccio, sbronzo dopo una mezza birra, mi sono messo a fare autoscatti tutti insieme. Non sapevo sarebbe partito per il Cerro Torre, che avrebbe dato prova di essere un grande alpinista. Ma, chissà, forse avrei fatto comunque le boccacce…

Mi dispiace davvero che il destino ti abbia inflitto una fortuna avversa. La montagna ti ha chiamato a sè dopo averti riportato a noi incolume e vittorioso dal lato opposto del mondo. Ci ha sorpreso quando meno eravamo pronti, quando avevamo accantonato l’idea potessi lasciarci. Ovunque tu sia ora butta un occhio su noi scarsoni che siamo rimasti indietro, soprattutto su chi a lungo sentirà la tua mancanza come un peso soffocante. Per molti di noi sei l’eroe del Torre, forse per questo la Grignetta, femmina invidiosa, ti ha voluto per sè insieme al tuo amico Ezio. Forse non puoi sentirci, forse non puoi risponderci, ma nelle notti di vento, giocando tra le sue guglie, ricordale con orgoglio che non vi dimenticheremo.

Davide “Birillo” Valsecchi

Attraverso l’Onda

Cassin Sasso Cavallo

A Mani Vuote

A Mani Vuote

[Armando Biancardi – “Rassegna Alpina” 1970] Paul Preuss è stato il più grande alpinista esistito agli inizi del millenovecento. Tre ci sembrano i fatti che maggiormente hanno dato carattere alla sua azione. Il purissimo concetto dell’alpinismo. Il compimento da solo, senza alcun mezzo artificiale e in prima ascensione, delle scalate alla Est del Campanile Basso (percorsa anche in discesa) e alla Est della Piccolissima di Lavaredo (entrambe: 1911). La stupefacente quantità delle salite compiute in brevissimo tempo. Con il nascere del chiodo, Preuss aveva intuito dove si sarebbe andati a finire. La sicurezza è una cosa, l’abuso nella progressione un‘altra. Per la sicurezza, Preuss era disposto a concederne qualcuna (a se stesso, in tutte le sue salite, mai, a costo di accanite discussioni con taluni compagni e a costo di tornare indietro). Assoluta intransigenza, circa l’avanzamento, anche nei confronti dei terzi.

Era lampante, per lui, che con l’abuso di corde e chiodi, si sarebbe precipitati nel decadimento. Decadimento della libera arrampicata, la forma più naturale e più distintiva di tutto un procedere in montagna. Decadimento morale dell’alpinista che, per misurarsi e superarsi, le difficoltà deve cercarle e non mistificarle. Decadimento, svilimento della montagna stessa presto condannata dalla ferraglia alla sorte delle palestre. L’alpinismo è il solo sport, a tutt’oggi, che non abbia regole scritte. Con l’esposizione delle sue teorie, Preuss si trovò al centro di accuse polemiche, di discussioni a non finire, addirittura di scherzosi duelli e di ponderatissimi convegni. Piaz e Dullfer furono le due personalità alpinistiche più in vista ad avversarlo. Anche se Preuss stava dietro le sue teorie come una conferma dell’effettiva possibilità di applicazione, tuttavia, più che eccezionale, l’accusa prima che gli si muoveva era che per salvare uno sport andava cercando di reclutare dei «candidati al suicidio» o di vietarlo ai più.

Il movente di Preuss era in sostanza una ricerca di maggior coscienza, di maggiore «rettitudine» così come, in sostanza, alcuni anni dopo, quella di Welzenbach con la scala delle difficoltà. Per fare piazza pulita delle frodi, bisognava per prima cosa codificare. Ma, fra Preuss e l’alpinismo moderno, c’è ormai tutta una barriera. L’alpinismo moderno non poteva accontentarsi di ricalcare le orme dei predecessori. Ha cercato l’inedito, come dire, ha bussato alle soglie dell’impossibile. Per vincere questo impossibile, che spesso si identificava con l‘assurdo, al di là del quinto e del sesto in libera, non ci si poteva buttare sopra se non con mezzi artificiali. I campioni odierni hanno vinto le pareti impossibili e gli ottomila. Ma non da soli. Con l’aiuto dei ferri, dello scalettame e del cordame, da una parte. Così come dell’ossigeno dall’altra, tanto per farla breve. Preuss ha invece raggiunto il limite massimo del possibile, nel suo tempo, ma a mani pulite. Senza chiodi, senza corda in salita, senza corda doppia in discesa, da solo e senza auto-assicurazioni, in prima ascensione, al primissimo tentativo. Anche se si togliessero fino all’ultimo quella quindicina di chiodi, destinati ad aumentare, che si trovano oggi sulle vie Preuss alla Piccolissima di Lavaredo e al Campanile Basso, si sa ormai che si può procedere… Preuss non lo sapeva. Non avesse potuto farcela avrebbe dovuto tornare indietro. E quanti oggi saprebbero, in quello stile, esserne integralmente all’altezza?

Ma, per le mutate esigenze e le mutate specializzazioni, per i sostanzialmente diversi terreni di gioco, mettere a confronto Paul Preuss con i campioni d’adesso, sarebbe un errore grossolano. Quasi come, ci si perdoni il paradosso, voler mettere a confronto una ballerina classica per la quale lo stile è tutto, con dei rulli compressori dai quali il «risultato tecnico» e l’unica cosa che ci si aspetti. Quando anche il campo delle nuove possibilità in artificiale sarà esaurito, e l’alpinista si troverà solo più di fronte all‘alternativa di una scelta per «inevitabili ripetizioni», allora, finirà per emergere la possibilità di un ritorno all’arrampicata libera. In quell’epoca, Preuss tornerà a essere il paladino di un genere di superamento, il più puro, il più bello, il più logico. Anche se non verrà tolta una preziosa spontaneità regolamentando il gioco, l’alpinista saprà allora benissimo dove indirizzare le sue preferenze.

Se nella pesantezza, manualità, aridità delle vie ferrate, sia pure a strapiombo sul vuoto, o se nell’esaltante naturalezza delle vertiginose arrampicate in libera. Solo che, dalle prime, saprà fin troppo bene che i voletti a ripetizione saranno quasi sempre senza serie conseguenze, mentre, volare dalle seconde vorrà dire purtroppo, spesso, pagare irrimediabilmente con la vita. Ma è solo allorquando si sa cosa si rischia, e in proporzione al rischio stesso, che l’alpinismo può essere utile e ineguagliabile nella formazione del carattere e della personalità. Non certamente, comunque, con gli inganni e i compromessi.

Ma la grandezza di Preuss non sta solo nell’aver toccato nel suo tempo, e in modo inequivocabile, il massimo dell’arrampicata in libera. C’è poco da fare, in tutta la già lunga storia alpinistica nessuno compì, in pochissimi anni come lui, un uguale «numero di salite. Sia d’inverno, sia d’estate, con prime ascensioni e con prime scialpinistiche (specialmente nello Zillertal, nello Stubaital, sulle catene del Grossglockner e del Gross Venediger), portò sui monti una febbrile ansia d’azione. Nel giro dei suoi ultimi quattro anni di vita effettuò più di mille difficili salite. E spaziò sull’intera catena delle Alpi: dalle Dolomiti al gruppo del Dachstein, dai gruppi del Bernina e dell’Ortles a quelli del Bianco, del Rosa e del Gran Paradiso,dal gruppo del Kaiser a quello del Gesause. Il suo diario parla chiaro, infilava una salitella al mattino e un’altra al pomeriggio (specie in Dolomiti). Raramente la pioggia lo respingeva: soltanto la neve e le bufere…

Nel 1911 raggiunse qualcosa come centosettantanove vette. Più che innata, la grandezza di Paul Preuss è stata il frutto della volontà, della costante ricerca nel perfezionarsi, dell’intensità dell’allenamento. Nato nel 1886 ad Altaussee in Stiria (Austria), da madre francese e padre ungherese, senti fin da ragazzo (dall’età di undici anni)l’attrazione irresistibile delle montagne che gli stavano tutt’attorno. Era pressoché di bassa statura e quasi «mal messo», ma ciò nonostante, versato per gli sport (all’incirca, un campione nel pattinaggio e nel tennis). Si era laureato, e con lode, nel 1912, in fisiologia delle piante. Ma della cultura d’eccezione e della geniale versatilità, Preuss lasciò sprazzi in più d’un centinaio d’articolo di montagna e più d’una cinquantina di conferenze (in francese e in tedesco).

Paul Preuss cadde per le solite «cause ignote», a soli ventisette anni, sul finire del 1913, vittima delle sue stesse teorie. Sempre da solo, aveva posto mani all’inviolato spigolo Nord del Manndlkogel (Dachstein) che aveva superato fino alla traversata d’uscita. Una corda e un chiodo di sicurezza, con un secondo vigile ed efficiente, l’avrebbero probabilmente risparmiato. Cadeva con lui un fiero proposito di onestà e di purezza. Uno di quei propositi che non possono non nobilitare la piccolezza dell’uomo. Anche nelle infuocate polemiche (così come nella vita e nell’azione, tutte improntate ad eccezionale fermezza di carattere), non si dimentichi almeno che egli non smise mai di essere un combattente cavalleresco. E, soprattutto, un combattente cui la modestia, la dignità e la coerenza non fecero mai difetto.
ARMANDO BIANCARDI

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