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Gervasutti: un eroe friulano

Gervasutti: un eroe friulano

«Osa, osa sempre e sarai simile ad un dio». A volte un senso di vertigine mi coglie all’improvviso, un tremore che mi stordisce tanto nel fisico quanto nello spirito, che mi spinge a ridere e piangere mentre il destino sembra trascinarmi verso strade sconosciute, strade spaventose ed affascinanti che per quanto ignote e difficoltose appaiono giuste e semplicemente inevitabili.

In questi giorni un vecchio libro in francese di Rébuffat mi ha trascinato tra le immagini d’epoca del Monte Bianco, tra la neve ed i colori della roccia. Già, il Bianco, la “grande” e “piccola” montagna che il destino ha messo a due passi da casa, oltre l’orizzonte del familiare Rosa. Non mi sono mai spinto verso quella montagna, quel mondo, che per me è  il faro di mille fantasie che non sono ancora pronto a cogliere.

Ma Rébuffat è un francese, per quanto simpatico, straordinario ed ammirevole non parla la mia lingua e, per quanto mi sforzi nel tradurre la sua, la distanza tra noi si assottiglia senza tuttavia mai estinguersi.

Tuttavia il destino è buffo nel suo agire, senza alcun preavviso mi ha posto davanti alle immagini ed alle parole di uno degli alpinisti che, per il grande fascino che riesce ad esercitare su di me, più mi spaventa: Giusto Gervasutti, il “fortissimo”.

Gervasutti è contemporaneo di Cassin e come lui è di origine friulana: due grandi spesso in competizione, mai in conflitto, che trasformarono l’alpinismo di allora e quello di oggi. Gervasutti, l’introverso che con una penna in mano riusciva a trasmettere così tanto di quel mondo a cui tanti di noi cercano di prendere parte.

In questo documentario realizzato dalla Regione Friuli, che potete vedere in fondo all’articolo, si ripercorre la sua storia, si rileggono i suoi libri e si raccontano le sue vie. Nel video appare persino Cassin ed è emozionante ascoltarlo ormai quasi centenario mentre parla friulano: Riccardo Cassin, il grande Cassin, che è l’emblema di Lecco e del suo alpinismo, racconta Gervasutti in friulano.

Sebbene io sia nato a Lecco per uno strano destino comprendo meglio il friulano che il dialetto locale. Per un istante quella lingua, tanto legata alla mia infanzia, supera ogni distanza. Accompagnato da Cassin e Gervasutti raggiungiamo Rébuffat immergendoci nel mondo che con tanta pazienza aveva cercato di mostrarmi

«La vetta raggiunta è già superata. Credo sarebbe più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa, lottare continuamente per raggiungerla e non ottenerla mai. Io preferisco una felicità irraggiungibile, sempre vicina, sempre fuggente. […] Perchè non esiste una definizione dell’alpinismo oggettivo, ma esiste solo un’attività, che noi chiamiamo genericamente alpinismo, che permette a degli uomini di esprimere con quel mezzo, o di soddisfare mediante quel mezzo, un bisogno del proprio animo. Naturalmente, essendo questo bisogno diverso da individuo ad individuo, ecco sorgere le diverse forme di alpinismo. Lottare per ore ed ore sospesi sugli abissi, con la vita attaccata ad un filo, per forzare un passaggio di fredda pietra o intagliare nel ghiaccio una via verso il cielo è  un lavoro degno di veri uomini. Che quelle rocce innalzantisi in forma di mirabile architettura, quei canaloni ghiacciati salenti in contro al cielo, quel cielo, ora azzurro profondo dove l’animo sembra dissolversi e fondersi con l’infinito, ora solcato da nuvole tempestose che pesano sullo spirito come una cappa di piombo, sempre identico ma mutevolmente vario, suscitino in noi sensazioni che non si dimenticano più. Ed al giovane compagno che inizia i suoi primi cimenti ricorderò ancora il motto dell’amico caduto su una grande montagna: “osa, osa sempre e sarai simile ad un dio”. Provo una grande commiserazione per i piccoli uomini, che penano rinchiusi nel recinto sociale che sono riusciti a costruirsi contro il libero cielo, che non sanno e non sentono ciò che io sono e sento in questo momento. Ieri ero come loro, tra qualche giorno ritornerò come loro, ma oggi sono un prigioniero che ha ritrovato la sua libertà, domani sarò un gran signore che comanderà alla vita e alla morte, alle stelle, e agli elementi.» 

Davide “Birillo” Valsecchi

Leggende nella tormenta

Leggende nella tormenta

«Perchè uno di Lecco scala con i monzesi?» Questa fu la domanda a bruciapelo che Riccardo Cassin rivolse a Luigino Airoldi quando, per la prima volta, si incontrarono in cima al Fungo in Grignetta. Il leggendario Cassin aveva ventidue anni in più rispetto al giovane Luigino ma quel giorno nacque una grande amicizia che si tradurrà in grandi ascensioni e che farà di Airoldi uno dei suoi grandi eredi.

Nella maggior parte di queste salite Luigino attacca da primo. Cassin conosce la fame di avventura di Airoldi e lo lascia andare avanti concedendo a quel giovane, così promettente e determinato, ciò che è da considerarsi come un grandissimo onore e riconoscimento.

Una salita delle tante che la coppia organizza è l’invernale alla classica Cresta Segantini: l’ascensione con i metri di neve caduta diventa davvero particolare e difficile. Durante l’ultima parte della salita il tempo si fa brutto e nel cielo si scatena la bufera. Luigino e Riccardo riescono comunque ad arrivare in cima alla Grignetta ma, quando si apprestanao a scendere, la neve e la nebbia oscura la vista, sbagliano e si infilano in un canale.

Senza punti di riferimento adottano una tecnica semplice: si calano a vicenda per tutta la lunghezza della corda, alternativamente: il socio che viene assicurato dall’alto riesce a sondare il terreno e mantiene la concentrazione, poi fanno a cambio. A furia di scendere arrivano in un punto della montagna protetto dal vento e quindi avvertono delle voci.

Non credono ai loro occhi: con tutti i posti possibili trovano nel canale gli amici Andrea Oggioni, Walter Bonatti e Carlo Casati che a loro volta, saliti da tutt’altra parte, sono finiti nello stesso impluvio! Cassin, rivolgendosi a Bonatti, gli dice: «Me consuli che te sbagliaa anca te!» Due accademici che scendono perdendo la strada e trovano altri tre accademici che hanno sortito lo stesso destino! Leggende nella tormenta!

Davide “Birillo” Valsecchi

Il racconto è tratto e riadattato dal Libro “Inseguendo la brezza: Pier Luigi Airlondi scalate ed esplorazioni in tutto il mondo” di Cristian Roccati. La foto invece è tratta dal libro “Neige e Roc” di Gaston Rébuffat (altra leggenda!) che sto leggendo (ahimè!) in francese.

Denis Urubko: come cavallo e scimmia

Denis Urubko: come cavallo e scimmia

Mercoledì sera sono sceso nella bassa insieme a Franco, allo Sport Specialist di Sirtori era ospite una figura d’eccezione: Denis Urubko. Io non sono un grande fan dei “Super Pro” dell’alpinismo moderno ma confesso di essere stato davvero fortunato nell’assistere alla serata di Denis.

Prima di tutto è giusto spiegarvi chi sia questo “ragazzo” di 40 anni (classe ’73): nato in Kazakhistan ha raggiunto senza ossigeno la vetta di tutti e 14 gli ottomila del pianeta, grazie alle sue salite in stile alpino, alle nuove vie ed alle invernali Himalayane è considerato dai grandi come il più forte alpinista della storia ad 8000 metri di quota.

Ero seduto a pochi metri da un “gigante” sorridente, tuttavia a colpirmi non sono state solo le sue imprese ma soprattutto le sue parole, pronunciate con entusiasmo e difficoltà in italiano.

L’alpinismo estremo spesso è un fatto di marketing: “scimmie spaziali” caricate a molla pronte a ballare ad alta quota a favor di sponsor.

Denis, invece, nella sua straordinaria semplicità è un concentrato di umanità autentica e coraggio alpinistico, un brillante esempio dello spirito originale ed onesto: era un piacere ed un’emozione lasciarsi coinvolgere nei suoi racconti.

Con grandissima umiltà ha raccontato la sua infanzia, la sua vita nell’esercito, le grandi amicizie e di come queste lo abbiano aiutato spingersi sempre oltre saziando il suo bisogno di confrontarsi con i grandi alpinisti, del passato e del presente,  lasciando un riferimento ed un insegnamento a coloro che lo seguiranno.

Le parole d’amicizia che ha rivolto a Simone Moro erano semplici ed intense.  Simone ha infatti aiutato molto Denis a trovare i mezzi e le risorse con cui poter organizzare le sue spedizioni ed insieme hanno condiviso grandi salite, grandi tentativi e grandi successi. Diversamente dallo stile “russo”, spesso rigido, competitivo e freddo, Denis ha imparato quale grande risorsa nelle difficoltà sia l’amicizia: ”Quando tu hai vicino amico su cui confidare tu puoi salire montagna come pirata, mettendo tutti tuoi muscoli e tutta tua testa in salita. Lui è vicino, pronto ad aiutarti: non devi pensare ad altro”.

Parlando del suo allenamento ha cercato, nel suo italiano volenteroso ma ancora approssimativo, di portare un esempio importante che, ascoltandolo, sulle prime  può sembrare buffo ma invece racchiude in sé una grande verità e la saggezza di un grande alpinista: ”Alpinista è come Cavallo, deve correre, essere forte e resistere a lungo. Alpinista è anche come Scimmia, deve arrampicare su alberi e su roccia. Problema che cavallo non arrampica e scimmia non corre. Per essere buon alpinista devi allenarti come Cavallo e come Scimmia.”

Questo lo raccontava mostrando le immagini delle numerose gare di corsa in montagna e delle gare di arrampicata a cui ha partecipato e vinto confrontandosi con gli specialisti delle rispettive discipline. (Un grande!)

Alla serata erano presenti i grandi gruppi alpinistici del nostro territorio, i nomi importanti e le piccole “Crew” di giovani arrampicatori. C’erano tutti ad ascoltarlo.

Mentre Danis parlava delle grandi montagne di casa sua io avevo fisso in testa una roccia trovata sui Corni, un grosso masso di una decina di metri con una fessura obliqua che lo taglia dall’alto in basso.  Questo mi ha fatto sorridere: nonostante l’abisso che ci divide l’emozione a cui diamo la caccia è probabilmente la stessa.

Grazie per la bellissima serata e per i piccoli grandi insegnamenti!

Davide Valsecchi

Storia alpinistica delle Grigne

Storia alpinistica delle Grigne

Le Grigne sono la cattedrale dell’alpinismo Lariano, il gruppo montuoso che maggiormente carratterizza la storia dell’arrampicata Lariana, la culla di alpinisti di grandissima fama nazionale ed internazionale.

Domenica Alberto Pozzi, vice-presidente della sezione Assese del CAI, ha tenuto una piccola lezione ai ragazzi dell’alpinismo giovanile proprio sulla storia e sulle gesta alpinistiche che furono compiute sulle Grigne. Eccovi un estratto della sua lezione:

L’esplorazione del gruppo delle Grigne ebbe inizio con un certo ritardo, ben dopo che le maggiori vette alpine erano già state scalate. Verso la fine del 1800, quando l’alpinismo senza-guide cominciò ad interessare gli  italiani, ci si rivolse alle montagne più modeste e vicine alle città in modo da svolgervi un’attività accademica e di allenamento in vista di più ambiziosi programmi.

Nel 1902 si riesce a passare dal Torrione Maniaghi Meridionale a quello Centrale: il passaggio di IV grado fu per lungo tempo considerato il più difficile delle Prealpi lombarde.

Dalle Dolomiti, ove nel frattempo le guide locali aveva condotto i propri clienti su vie molto ardite, arriva una folata di aria nuova: latori furono Arturo Andreoletti e Carlo Prochownick che nel 1909 introdussero lo stile d’arrampicata dolomitico nelle Grigne.

Molti itinerari classici, ancora oggi tutt’altro che banali, vengono trovati da una nutrita squadra di alpinisti milianesi poco prima e subito dopo la grande guerra: incontriamo innanzitutto Eugenio Fasana, Vitale Bramani, Erminio Domed, Angelo Vassalli, Gino Carugati, Gaetano Polvara.

Questi si distinguono brillantemente con il IV ed il V grado e prendono dimestichezza con il rudimentale mezzo di assicurazione inventato dalla guida tirolese Hannes Fiechtl: il chiodo.

L’attività dei milanesi è meno attiva sul piano esplorativo, salvo pochi casi (Basili, Parisi, De Tisi), mentre sul piano della frequentazione prima, e dell’esplorazione poi, il loro posto nel gruppo delle Grigne viene preso dai lecchesi.

Nominiamo innanzitutto Giovanni Gandini, guida di Ballabio, che dal 1929 al 1933 completerà e traccerà molte vie, di grande ardimento e difficoltà con limitatissimi mezzi artificiali: il suo capolavoro è la parete S del Torrione del Cinquantenario (di fronte al Rifugio Rosalba), sino ai pochi anni fa un vero e severo VI  grado.

Si fanno avanti anche dei giovani operai, spesso in bolletta, che, equipaggiati in maniera rudimentale e con scarse cognizioni tecniche si portarono subito sulle grandi difficoltà e si affermarono rapidamente. Si chiamano Mario Dell’Oro (Boga), Riccardo Cassin, Giuseppe Comi, Augusto Corti (Giustin), Rizieri Cariboni, Luigi Pozzi (Bastianella), Antonio Piloni (Togn), G.B. Riva (Sora), Gigi Vitali, Vittorio Panzeri (Cagiada). Dopo un breve tirocinio attaccano ogni torrione della Grigna per il loro versante più severo: dove non si ha tecnica ci si aiuta con la forza. Pochi chiodi, naturalmente pesanti tre volte gli attuali e fatti in casa.

Nel giugno del 1933 arriva ai Resinelli Emilio Comici che insegnerà ai giovani lecchesi le tecniche moderne di arrampicata: il Corno del Nibbio diviene costellato di vie. Il Boga, poi, traccia sul Medale una terza via estremamente difficile; Cassin e Corti vincono il sasso Cavallo, Vittorio Panzeri traccia una via inaudita sui Magnaghi: la Marinella. Nel 1938 un altro eccezionale alpinista, Nino Oppio, fornisce una prova della sua bravura scalando il Sasso Cavallo per una via ancora più ardua della Cassin.

Le vie classiche sono state, in massima parte, trovate durante il decennio 1930-1940: la guerra poi comprime le attività di questi giovani, spesso relegati nelle fabbriche di armamenti o chiamati al fronte. Ercole Esposito detto Ruchin, operaio dell’Alfa Romeo, riformato perché di statura e corporatura troppo minuta, parte ogni domenica col fedele Gentile Butta,per salire ogni residua parete: lui sale là dove gli atri valenti arrampicatori non si erano mai sognati di passare. Le sue vie sono tra le più rischiose di tutto il gruppo.

Lo smarrimento seguito all’8 Settembre 1943 spinge molti dei nostri scalatori sulle montagne: valorosi episodi di lotta partigiana vennero condotti in Valsassina. Il 25 Aprile viene ucciso da una pattuglia tedesca nel centro di Lecco Vittorio Ratti, prestigioso compagno ed amico di Cassin e Vitali.

Nel dopoguerra i disagi economici durano a lungo: frequentatori delle Grigne erano ancor più sommariamente equipaggiati. Il circolo dei giovanissimi alpinisti di Lecco, “sempre al verde”, si tramutò per iniziativa di Gigi Vitali nell’eccezionale equipe dei Ragni di Lecco.

Accanto a tutti questi nome di olimpica grandezza su cui si regge la storia alpinistica del gruppo, anche una miriade di anonimi alpinisti si è preparata su queste rocce, in modo autonomo o grazie ai corsi di alpinismo e sicuramente dalla montagna ne hanno tratto godimento.

Questa è la storia delle Grigne e degli uomini che le hanno visute ed amate prima di noi. Grazie di nuovo ad Alberto per avere mantenuto viva la memoria nelle giovani generazioni.

Davide Valsecchi

 

Emilio Comici: l’angelo delle Dolomiti

Emilio Comici: l’angelo delle Dolomiti

Comici è una figura quasi leggendaria, un alpinista che è universalmente ritenuto il più straordinario talento italiano del periodo tra le due guerre. Riccardo Cassin, che fu suo alievo arrampicando con lui durante la propria gioventù, disse di Comici: “In più di cinquant’anni non ho mai visto nessuno arrampicare con tanta apparente facilità, con tanta eleganza”.

Il triestino Emilio Comici non giunse all’alpinismo in giovanissima età, come altri suoi contemporanei, ma vi giunse invece dopo una prolungata attività speleologica praticata nelle vicine grotte del Carso. Per Comici l’arrampicata era soprattutto un momento estetico, un rapporto narcisista: la parete era il grande specchio su cui si riflettevano i gesti ed i movimenti dell’arrampicatore.

Gesti eleganti, fluidi e perfetti: l’importante non era raggiungere la vetta ad ogni costo, l’importante era raggiungerla lungo un tracciato ideale, la famosa via della goccia cadente, ed altrettanto importante era arrampicare in modo elegante e sicuro.

Comici diede un fondamentale contributo perfezionando la progressione in artificiale, elaborando l’uso della doppia corda, introducendo l’impiego delle staffe di cordino e quindi, di conseguenza, specializzandosi nel superamento di tetti e strapiombi con abili manovre, più impressionanti e spettacolari che difficili.

Cercò anche di studiare più a fondo le tecniche di assicurazione, che fino a quell’epoca erano sempre piuttosto improvvisate e complesse. Comprese anche l’importanza di creare una scuola d’alpinismo per costruire un forte vivaio negli ambienti cittadini.

Famosissima inoltre fu la sua straordinaria salita solitaria e senza corde della sua stessa via sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo nel 1937, un exploit fra i più grandi di tutta la storia dell’alpinismo. Dopo quella salita Comici scrisse: “Da che cosa ero pervaso io? Da una forma di pazzia o di sadismo alpinistico, forse? Non so, ero ebbro, si, ma cosciente: perché mi sentivo la forza fisica di superare lo strapiombo, e la sicurezza morale di dominare il vuoto. Riconosco a priori che l’arrampicamento solitario su pareti difficili, è la cosa più pericolosa che si possa fare… Ma ciò che si prova in quel momento è talmente sublime che vale il rischio.”

Ma è sopratutto l’eleganza della sua arrampicata e del suo stile ciò che maggiormante i grandi alpinisti contemporanei rimarcano parlando di Comici e così, incuriosito, ho certato qualcosa su di lui che potesse spiegarmi il perchè tanta ammirazione.

Io credo che molte risposte possano essere trovate in questo video d’epoca che ho trovato in rete. Ecco a Voi immagini di un passato lontano, ecco a Voi una leggenda che danza sulla roccia.

Davvero una fortuna che esista un simile filmato! Incredibile leggerezza e guardate come facevano le doppie questa gente!

Davide Valsecchi

Erich Abram

Erich Abram

Ogni anno noi reduci del K2 organizziamo un incontro, ed invitiamo anche il Cassin che, malgrado il suo curriculum, era stato escluso dalla selezione, perché Ardito Desio temeva che la sua fama avrebbe potuto metterlo in secondo piano. Durante la spedizione eravamo ben affiatati: tutti sapevano andare in montagna.

Io ero quasi sempre in tenda con Walter Bonatti e con Cirillo Florianini. Occidentalisti ed orientalisti (alpinisti con esperienza sulle Alpi occidentali o orientali N.d.R.) erano in ugual numero. Favoriti erano gli occidentalisti perché abituati al ghiaccio, al misto e alle quote più alte, ma poiché il K2 non è una passeggiata su neve, ma c’è dell’arrampicata, dove la parete si impenna, erano davanti i “dolomitisti”.

Questo andava bene, anche perché per tanto tempo non c’è stato nessun attrito, intanto in parete eri fuori dalle grinfie del “vecchio” (Ardito Desio, il capo spedizione). Ogni giorno alle tre voleva il collegamento radio, ma spesso non era possibile perché non portavi sempre la radio che pesava più di un chilo e la lasciavi in tenda. Prima si portavano le tende, le bombole, il cibo e così avanti e indietro occupavamo via via i vari campi a quote sempre più alte; poi si alternavano i gruppi e si costruiva la teleferica. La teleferica trasportava materiali a 30 chili per volta, così noi potevamo arrampicare liberi da pesi, anche se c’era il rischio di perdere qualche carico.

Allora il sentimento nazionalistico era molto forte, ma non solo in Italia. La gente, come si vede nel documentario di Mario Fantin girato prima della spedizione, era un po’ scettica, non credeva che avremmo potuto avere dei risultati dove avevano fallito gli Americani. In realtà noi eravamo molto ben preparati, con un equipaggiamento d’avanguardia per l’epoca. Siamo stati per 47 giorni su una cresta dove il vento raggiungeva i 110 km/h e dovevi continuare a salire e scendere, ad arrampicare malgrado la bufera. I giorni di bufera erano logoranti, anche perché capitava che in una tenda di due persone eravamo dentro in cinque.

Anche quando Mario Puchoz (l’unica vittima della spedizione, morto di edema polmonare) stava male, era salito il medico e noi siamo scesi per fargli posto. A scendere eravamo costretti anche perché più sei in alto e meno riposi, meno recuperi la fatica. Anche Puchoz se fosse riuscito a scendere anche di 5/600 metri poteva cavarsela. All’epoca il mal di montagna era poco conosciuto e lui pensava di poter riprendere a salire il giorno dopo con noi. In realtà il giorno dopo era peggiorato e poi era troppo tardi per fare qualcosa. Uno a quelle quote deve interrogare se stesso e decidere, anche un medico non può dirti nulla. Ma tutti questi fenomeni si possono migliorare se si scende di quota.

Il nostro organismo è fatto a regola d’arte ma è fatto per vivere a quote basse, devi assorbire ossigeno e acqua e anche questa è un problema da risolvere nelle alte quote perché devi sciogliere neve e si ottiene un liquido privo di sali e anche di questo ha bisogno il corpo umano. Il medico della spedizione era Pagani e siccome non voleva parlare di donne ci siamo fatti spiegare tutto sulla medicina di montagna.

Molti di noi avevano mogli e fidanzate e l’unico contatto era la posta che andava e veniva con i portatori con 14 giorni di marcia. Quando arrivava la posta era sempre una bella sferzata per il morale. Con il sacco della posta viaggiavano anche rifornimenti per i portatori. I portatori avevano la farina per tutti e si facevano il pane fresco. Usavano del peperoncino sciolto nell’acqua dove intingevano il pane. Quando noi lo abbiamo provato ed abbiamo scoperto che era buono lo scambiavamo con le nostre caramelle, con cartine colorate e con cibi speciali che sembravano paglia, e che era stato confezionati appositamente per noi da alcune ditte farmaceutiche.

Dopo il K2 sono tornato ancora con la voglia di andare in montagna e ho continuato ad arrampicare, ma ho preso anche il brevetto di volo, prima dell’aereo poi dell’elicottero. Con il Piper sono stato bloccato al Rifugio Casati sommerso dalla neve per 14 giorni. In quei tempi il Soccorso Alpino si faceva con questi piccoli e maneggevoli aerei. Abbiamo recuperato uno sciatore sulla Croda da Lago atterrando su una valanga. Il Piper era come una Volkswagen, mai sentito che si sia fermato un motore. Con l’elicottero una volta mi sono incendiato in volo.

Nella foto Walter Bonatti ed Eric Abram al K2 nel 1954
Intervista a cura di Ermanno Filippi ed Augusto Golin

 

Paul Preuss: il signore delle montagne

Paul Preuss: il signore delle montagne

“La misura delle difficoltà che un alpinista può con sicurezza superare in discesa senza l’uso della corda e con animo tranquillo, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che può affrontare in salita.”

Questa è una delle celebri frasi pronunciate da Paul Preuss, un’alpinista austriaco nato il 19 agosto 1886 e morto il 3 ottobre 1913 alla giovane età di 27 anni.

Paul in gioventù fu affetto dalla poliomelite e costretto su una sedia a rotelle: solo la volontà lo rimise in piedi facendo di lui uno dei più grandi e famosi alpinisti dell’inizio del secolo.

Quest’uomo, il suo approccio tanto puro, tanto radicale e poetico alla montagna mi spaventano, riescono a terrorizzarmi ed affascinarmi al contempo: era un solitario, arrampicava da solo e lo faceva senza avvalersi di nessun mezzo tecnico o artificiale. Persino la corda, secondo lui, andava usata con parsimonia. Il 28 luglio 1911 parte solo e senza corda per la parete est del Campanile Basso, o Guglia di Brenta. In 2 ore risale i 120 metri del monolite aprendo una nuova via da cui, naturalmente, ridiscende disarrampicando: un’ impresa incredibile tanto allora quanto oggi.

Come vi ho detto mi spaventa: “Tra i massimi principi vi è quello della sicurezza. Non però la sicurezza che risolve forzosamente con mezzi artificiali le incertezze di stile, bensì la sicurezza fondamentale che ciascun alpinista deve conquistarsi con una corretta valutazione delle proprie capacità”. Difficile dargli torto ma è anche difficile, oggi, accettare di avvicinarsi tanto al limite, tanto all’imprevisto, senza alcun tipo di “protezione”.

I suoi detrattori lo accusarono di spingere senza motivo i giovani alpinisti verso il pericolo, di immolarne le vita in nome di un’ideale tanto insensato quanto inconsistente. Nell’epoca del “Piton”, il chiodo da roccia, Preuss era una rivoluzionario contro corrente mal visto da molti degli emergenti alpinisti del tempo.

Forse come sempre la verità sta nel mezzo, nell’accettare un compromesso. Alpinisti come Bonatti o Messner hanno tributato alla filosofia di Preuss ammirazione e stima portandolo come un esempio e, loro stessi, sono stati protagonisti di altrettanto celebri solitarie. Messner, che ha fatto di Preuss il soggeto di un suo libro, scrisse: “Un compromesso è possibile nella pratica… non nella filosofia della montagna”.

Il 3 Ottobre 1913 Preuss precipitò dalla Nord del Mandlkogel che stava salendo in libera e da solo. Nessuno sa cosa avvenne e perchè cadde, vicino al corpo esanime semi coperto dalla neve fu trovato un coltello da tasca aperto e la “leggenda” vuole che Preuss, superate le maggiori difficoltà della salita, si sia fermato a riposare e, mangiando quello che aveva nel sacco, abbia perso l’equilibrio cadendo.

Alla sua morte anche i puoi sui severi contestatori tributario omaggio alla sua giovane vita ed alla sua grande capacità. Tita Piaz, il “Diavolo delle Dolomiti”, l’inventore della discesa in corda doppia, dopo averne criticato l’intransigenza ebbe a dire di lui: “Le rocce gli appartenevano. Era il signore delle montagne.

Durante l’omelia funebre Geoffrey Winthrop Young, alpinista inglese e poeta, disse commemorando Preuss: “L’arrampicata solitaria avrà sempre i suoi critici così come i suoi devoti. Ma con la sensazione di rammarico per la morte prematura di un grande alpinista e di un bella persona proviamo anche un grande senso d’ orgoglio nel costatare che nella nostra generazione ci sono ancora gli uomini di altissimo intelletto che, con la piena consapevolezza di tutte le alternative più facili e più redditizi che la vita ha da offrire, continuano a mettere alla prova la propria abilità accrescendola contro difficoltà sempre più grandi con coraggio e calma.”

In cuor mio non saprei dirvi quale sia la strada giusta nè mai mi arrischierei a consigliarvi di seguire le sue gesta. Posso dirvi che la breve vita di Paul Preuss è una vita piena di fascino e che l’ammirazzione che provo per le sue gesta è innegabile. Senza clamore percorreva la via più difficile assaporando una gioia ed una libertà di cui non si può essere che silenziosamente attratti.

«Sperate sempre in ciò che aspettate, ma non aspettate mai ciò in cui sperate. Credete solo in ciò che vi convince, ma lasciatevi convincere solo da ciò in cui credete»

In ricordo di Paul Preuss

Davide Valsecchi

Bruno Detassis: il Re del Brenta

Bruno Detassis: il Re del Brenta

“L’alpinismo è salire alla vetta per la via più facile, tutto il resto è acrobazia” Nel 2012 vorrei riunire un piccolo gruppo di giovani alpinisti ed esplorare più in profondità le nostre Alpi, vorrei ripercorrere quegli itinerari che unendo bellezza, fascino e storia sono chiamati “classici”.

Quando però inizi a documentarti sulle “classiche” inevitabilmente ti imbatti nei “giganti dell’alpinismo” e la montagna si fonde con le loro vite. Inizi esplorando fantascientifiche rappresentazioni tridimensionali delle vie e finisci con l’emozionarti nelle trascrizioni di vecchi diari, nelle citazioni, nei ricordi del passato e nelle foto ingiallite.

Bruno Detassis, classe 1910, era uno di questi giganti. Lo chiamano il patriarca, il Re del Brenta, e leggendo i consigli e le sue testimonianze si può capire perchè: “Ricordetelo ben, se rampega prima cola testa, po’ coi pei, e sol ala fin cole man” è una delle tante lezioni che ci ha lasciato, forse la più semplice ma anche la più importante.

Interessante è anche leggere cosa i grandi scirvevano e pensavano l’uno dell’altro: “La prima volta che incontrai Bruno fu nel settembre del 1949 in cima al Campanile Basso. Lui festeggiava la sua centesima salita al famoso campanile, io festeggiavo la prima. Solo ripetendo le sue salite mi sono reso realmente conto, non solo della sua indiscutibile bravura tecnica, ma soprattutto della sua intuizione nel tracciare e scoprire il percorso più logico. Una dote questa che ha fatto di tutte le sue vie capolavori di grande e spettacolare effetto anche estetico. Salendo lungo i suoi itinerari più famosi ho potuto rendermi conto della sua classe, della sua originalità, della sua perspicacia alpinistica.” (Cesare Maestri – classe 1929)

Bruno ebbe a dire una volta di Maestri: “Vedi, Cesare è un amico, gli sono molto attaccato, ma ha un unico difetto: non vuole convincersi che il tempo passa anche per lui. Non aspettare che ti dica che è una caratteristica del suo carattere. E’ talmente vivo che non sente la necessità di ringraziare e incoraggiare i giovani come te”.

Raccontano che al Rifugio Brentei, dove per anni ne fu il gestore, fosse diventato a poco a poco il grande vecchio, il patriarca custode dei mille segreti della montagna, il guru dispensatore di una saggezza tanto sommessa quanto preziosa: “Prenditi il tempo, ma non la vita…”.

Mi è parso giusto “incontrare” la sua storia mentre cercavo tra le alpi le montagne giuste con cui permettere un giusto confronto ai giovani alpinisti della “squadra”. Il suo grande senso di responsabilità come capo cordata è di ispirazione ed esempio. In un epoca di “eroi” lui era un elegante e romantico esempio di buon senso, di rispetto per la montagna, per le persone e per la vita: “Il Cerro Torre è una montagna impossibile, ed io non voglio mettere a repentaglio la vita di nessuno. Pertanto, nella mia qualità di capo spedizione, vi proibisco di attaccare il Torre”(1957)

“… Nei riguardi di ciascuno, la natura opera una sua selezione: chi arriva ai rifugi, chi sale per i sentieri più impervi, chi raggiunge le cime lungo le difficili vie d’arrampicata. Esiste però una cosa che ci accomuna tutti e che ci spinge in questo ambiente unico: la passione per la montagna” (Bruno Detassis)

Mi ha emozionato ed ha colpito tutti il breve filmato della sua salita, a 82 anni, lungo lo Spigolo della Madonnina alla Brenta alta. Ecco il Re del Brenta, il grande vecchio dell’alpinismo italiano:

“…gli appigli mi dicono: dove sei stato tutto questo tempo?”

Davide Valsecchi

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