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La Linea del Tramonto

La Linea del Tramonto

Stavo guardando “Fight Club”: per l’ennesima volta Tyler Durden fuggiva in mutande dal commissariato di polizia inseguendo i propri fantasmi interiori, affrontando la follia che aveva saputo trascinare alla luce le sue qualità migliori, trasformandolo nel suo “io” peggiore. Ascolto i deliri di Tyler mentre cerco di cucinare sulla piastra di ghisa un paio di petti di pollo. La testa mi sembra esplodere e lo stomaco è in subbuglio, ma se voglio tuffarmi nell’abbraccio soffice ed accogliente del paracetamolo devo mandar giù qualcosa. Il mio corpo si ribella, forse mi tradisce o forse sono io a tradirlo. Forse è la malaria, forse è la deriva, o la bonaccia, che alle volte afferra la mia vita. Forse mi serve una grande battaglia o forse solo una pace che sia veramente tale.

“Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita. Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene!”

Cerco di cucinare ma sono distratto, quando la testa si inceppa tutto smette di funzionare come dovrebbe. I miei pensieri sembrano in fuga, sbattono contro il mio cranio come lemmings che si lanciano contro un gong. Ogni pensiero batte e rimbalza come una vibrazione instabile. Come un animale vorrei immergermi in una pozza d’acqua buia, abbandonarmi al silenzio, all’oblio.

Mina, la gatta più giovane, salta baldanzosa sul davanzale della finestra: siamo al secondo piano, non è raccomandabile un tuffo verso il giardino. Ma è ancora piccola, curiosa, intraprendente. Le piace esplorare e prima o poi la porterò a spasso per i monti. Lascio che il petto di pollo sfrigoli sulla piastra insieme al mio mal di testa, mi avvicino alla finestra per agguantare la gatta: è allora, è quello il momento, quando il sole cala con i suoi raggi obliqui e crea ombre illogiche piegando la luce come non forse non dovrebbe accadere.

“Dio mio che bella!” Abito qui da quasi due anni, e passo davanti a questa finestra migliaia di volte. Ho fotografato il sorgere della luna, la nascita dell’alba, la neve ed il temporale. Con il cannocchiale ne ho studiato le forme, ricostruito le linee immaginarie su cui ho arrampicato. Eppure, eppure non l’avevo mai vista. Eppure era sempre stata lì. “Quella cresta, quello spigolo verticale è stupendo!”. La mia mente ricorda quel “dente”, quello scorcio dolomitico che si innalza dal canalone Comera, quella roccia che ho visto e toccato tanto da fuori e quanto da dentro. “E’ una linea meravigliosa, qualcuno deve averla vista. Qualcuno deve averla per forza vista! Non è possibile ignorarla!”.

Afferro la macchina fotografica, il pollo è ormai abbandonato a sé stesso mentre i pensieri sembrano riordinarsi. Ricordi, frasi, schegge di informazioni riemergono dall’inverno trascorso. Quando ero in forma, o mi sentivo tale, quando dietro ad una coppia di vecchiacci inesauribili calcavo la roccia di quelle bastionate due volte a settimana. “Sì, deve essere lei, ma da sotto non appariva così bella, così logica, così elegante, così attraente!”. 1932 – Mario “Boga” Dell’Oro compie la prima ascensione della Punta Stoppani per lo spigolo sud-ovest con G. Riva. Che sia lei?

Davide “Birillo” Valsecchi

Ma la realtà spesso si infrange sulla fantasia e quella linea che dalla mia finestra appare così continua e slanciata in realtà è forse un illusione. Lo spigolo della Stoppani, visto dalle placce di Onda d’Ombra, si mostra assai diverso mentre la memoria ricorda i racconti ed i dettagli ascoltati. Ecco la cengia erbosa verso cui si riemerge e più a sinistra, la linea elegante ed ingannevole della Bonatti. Però, accidenti, quanto è bello il Resegone con la sua roccia terribile.

Il giorno in cui Bonatti se ne andò

Il giorno in cui Bonatti se ne andò

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La mattina era cominciata in modo strano. Ero in largo anticipo ma, andando in stazione a Lecco per prendere Ivan, mi ero ricordato all’improvviso di aver lasciato a casa le scarpette. Gira la macchina, l’anticipo diventa ritardo ed inizia a salirmi uno strano nervosismo. L’unica serenità è una promessa del Guero: “Esplorazione su lunghe placche appoggiate di quarto”.

Quando Ivan sale in macchina la musica però cambia: “Oggi andiamo a cercare la Bonatti irripetuta alla Punta Stoppani”. Con Ivan stiamo aprendo molte vie insieme, mi piace il modo in cui stiamo esplorando senza costrizioni: una libertà che è la più affidabile delle sicurezze. Ma inseguire una Bonatti è tutta un’altra storia. Walter Bonatti aveva personalmente raccontato ad Ivan Guerini di quella sua prima via aperta in gioventù. Una via di quarto e quinto vecchio stile, il quinto di un Bonatti ventenne che presto sarebbe diventato uno dei più brillanti astri dell’alpinismo mondiale. Ivan cercava di rassicurami, “Se l’itinerario è davvero franato torniamo indietro”, ma ben sapevo che non avrebbe mai desistito. Forse avrei preferito evitare, ma sapevo quanto quella via fosse importante per Ivan e quanto Ivan sia importante per me. Nella vita quando attacca la musica puoi solo ballare, ballare e tenere il ritmo.

Qualche ora più tardi siamo con Giancarlo Bolis nel canalone Comera, ai piedi della Punta Stoppani, alla base della Bonatti. Ivan parte e si alza su uno zoccolo a rampa che porta all’imbocco di un camino. “Un chiodo! Un chiodo di Walter!” Il suo entusiasmo è dirompente, la sua felicità quasi indescrivibile. Si alza ancora e trova il chiodo successivo “Davide! Quando sali fotografali tutti questi chiodi! Sono una testimonianza straordinaria!” Poi s’infila e scompare nel camino: tutto quello che possiamo vedere sono i sassi che fischiano ascoltando i suoi commenti entusiasti “Che via! Che via!”.

I cinquanta metri delle mie mezze corde scorrono veloci fino ad esaurirsi costringendoci a rimontare lo zoccolo per dare lasco al Guero. “Sosta! Molla tutto!”. Parto io e dietro di me Gianka. Parto sereno ma un paio di prese dello zoccolo saltano richiamandomi all’ordine: poi entro in camino, spalle alla roccia mi addentro in un mondo strepitoso. Un camino stupendo!

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Trovo altri chiodi e una vecchia punta di ferro piantata orizzontalemente. Mi infilo in uno stretto passaggio osservando oltre il buio il sorriso raggiante di Ivan. Non dovrei ma un pensiero comunque sfugge alla mia prudente superstizione: “Se è tutta così è strepitosa”.

Alla sosta, fatta con un chiodo nuovo ed un paio di friend, l’entusiasmo si scontra con la realtà. La frana c’è e non è per nulla promettente. “Vado solo in perlustrazione” proclama Guero, ma passati i quindici metri di corda non ci sono dubbi: ci prova comunque. Io comincio a guardami in giro cercando qualche variante su roccia solida in cui scappare per proseguire, ma Ivan sta già attaccando lo strapiombo. I sassi cadono, rimbalzano nella cengia franosa e si tuffano nel vuoto fischiando sopra le nostre teste come tie-fighter di guerre stellari. “Tranquillo Biri, quelli non ci prendono.” Sogghigna Gianka.     

La corda ci racconta la storia di Ivan. Non ci sono segni di passaggio di Walter e deve piazzare due friend tra le scaglie, poi si alza raggiungendo una nicchia a spirale. “Un chiodo! Un chiodo ad anello!”. Ivan si alza ancora, rimonta qualcos’altro, ormai vedo solo l’estremità dei piedi e delle mani. Un raggio di sole, all’improvviso, irrompe nella nebbia e la via si riempie di luce in un’ondata di roccia brillante. Ivan si ferma, resta immobile, io e Gianca dubbiosi non capiamo perchè. Solo poi scopriremo che quello è il punto esatto in cui Ivan Guerini, nell’assoluta concentrazione della salita, è stato travolto dalla commozione e dai suoi ricordi di Walter Bonatti. Qualcosa che noi due in sosta afferriamo ma non potremmo mai percepire.

Finalmente il bombardamento di quelle che Ivan definisce “leggere scaglie” cessa e Sguero chiama la sosta. Parto io e mi alzo. Poi mi fermo agghiacciato sotto una nicchia: ”Gianka, vieni qui e vieni in fretta. Io sto qui immobile ma tu non hai idea di quello che hai sulla testa…” Il passaggio originale di Bonatti è lì, steso per terra come un branco di elefanti che attende di travolgere la foresta.

Dalla nicchia ci spostiamo nel cuore del passaggio fragile. Nel camino mi ero molto divertito, ma in quel punto ero di nuovo ai Corni, oppure sulla Panzeri al Pizzo d’Erna o al Pizzo d’Eghen, ero di nuovo senza appello al limite delle mie capacità: un misto di disarmante serenità e rassegnazione. Salgo, in spaccata, in incastro, in opposizione, mi stendo, mi allungo: posso solo spingere perchè non c’è nulla che sembra reggere il peso dei miei ottantaquattro chili. Leggero e fluido, quanto posso, arrivo alla prima cengia e aspetto Gianka per non mollargli nulla addosso. Il chiodo ad anello è nel centro di un cavatappi, la corda di Gianka scende verticale dall’alto.

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Proseguiamo raggiungendo il Guero su una sosta sportiva/vintage su uno spuntoncino. Io mi attacco con la lounge in una radicetta psicologica mentre Ivan riparte. Il canale è ora invaso dai detriti, i sassi hanno smesso di fischiare ed ora ci cioccano contro. Appoggio il casco alla roccia, incasso il collo nello zaino e cerco di proteggermi in viso con il braccio nascondendo il gomito e la mano. Ivan prosegue (ed Ivan non è uno che muove avventatamente sassi!) ma la nostra è ormai una severa punizione. Un bel plocco grosso centra Gianka ad una spalla ma fortunatamente il vecchiacchio ha la corteggia dura. Tutto quello che voglio è che Ivan faccia sosta e ci dia il via per toglierci da quell’imbuto sul vuoto.

La sosta era in stile “plocco incastrato” ma non vado per il sottile. Nella nebbia si sentono i primi rombi di un temporale che scende da nord. La sindrome dell’Eghen comincia a pressarmi: “Andiamocene”. Un ultimo tiro in un canale franoso, un passaggio sotto un arco di roccia e finalmente la croce! Finalmente la gioia vera!

Il temporale incalza ma la felicità sembra trattenerlo almeno un po’: Ivan e Gianka scherzano come due bambini, si spingono e rotolano sul sentiero. La tensione inizia finalmente a scemare mentre il temporale ci raggiunge nel canale Bobbio trasformandosi in grandine. Arriviamo alla funivia fradici ma nulla davvero importa più: è il momento di fare festa!

Più tardi riporto Ivan al treno e rientro finalmente a casa. Bruna non c’è, sarà fuori tutta sera ed è dispiaciuta di non poter festeggiare con me. Stendo il materiale bagnato per tutto il salotto e mi butto in doccia. Poi, aggirandomi solo per casa, non riesco ancora a darmi pace. Una Bonatti perduta ripetuta insieme a Guerini, per di più la mia prima Bonatti in assoluto! Devi per forza dirlo a qualcuno!! Scelgo a caso una foto e sul web aggiungo questa frase “Prima storica ripetizione della Bonatti alla Punta Stoppani: Ivan Guerini, Giancarlo Bolis, Davide Birillo Valsecchi. La mia prima Bonatti è un irripetuta da 67 anni: continuo a ridere, piangere e bere birra. Un viaggio terrificante e magnifico: testimone atterrito di due talenti assoluti dell’arrampicata nella sua forma più avventurosa e selvaggia. Demolito dalla fatica e dall’emozione.” Credo che “testimone atterrito” sia l’unica espressione possibile per chi ha avuto la sfacciata sfortuna di osservare un’irripetibile ed incontaminato parallelo tra Bonatti e Guerini.

Rassegnato a cenare con una pizza stavo prendendo la porta quando suona il cellulare. Un messaggio, Francesco Milani Capialbi, “Mi spiace ma è già stata relazionata è ripetuta addirittura in solitaria!” Il punto esclamativo finale sembra un’ostile dichiarazione di guerra ma ormai conosco il giovinetto. “Scienza” ai tempi della via Attilio Piacco aveva caricato me e Mattia a testa bassa salvo poi tornare sui propri passi. “Noi sbagliando siamo partiti tutti aggressivi, fraintendendo le tue intenzioni. Tu ci hai subito fatto cambiare atteggiamento…” mi aveva scritto poi e tanto era bastato questo per diventare amici, anche conoscendoci poco. Ora dovevo scoprire cosa intendesse senza trasformare qualcosa di prezioso come una Bonatti misconosciuta in una gazzarra da bar.

Piano piano sono finalmente arrivate un paio di foto ed un nome: Stefano Valsecchi.  Stefano è il figlio dello storico rifugista dell’Azzoni e attuale capanat del rifugio. L’ho conosciuto giusto un mese fa, insieme a Josef in una nebbiosa giornata di mezza estate: ricci scompigliati, occhi azzurri e mani grandi. Abbiamo bevuto insieme un paio di birre parlando a lungo del Pizzo d’Eghen e del Camino Cassin che aveva ripetuto con Marco Anghilleri. Mi era stato subito simpatico e il racconto di quel giorno si trova ancora tra gli articoli di Cima. Ero contento fosse lui, ma volevo sapere anche tutto il resto.

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“Sono andato su il 13 settembre 2011 e l’ho fatta… poi il giorno dopo ho scoperto che era morto Bonatti. Mi sono sentito quasi speciale ma all’epoca, quando ancora facevo alpinismo, preferivo tenere le cose per me, soprattutto se fatte al Resegone” Scienza mi ha poi confidato che senza punzecchiarlo Stefano non avrebbe mai tirato fuori la sua salita.

Sebbene divertito stentavo a credere a tutta questa storia, non certo alla salita di Stefano ma a come questa sia avvenuta in un giorno tanto particolare: una coincidenza assolutamente improbabile. Ma la questione è ancora più complessa. Settimane fa i Badgers hanno dovuto consolare uno dei suoi membri per la morte di un amica, una giovanissima mamma rapita repentinamente da una brutta malattia. Una serie di coincidenze accadute dopo quel lutto avevano spinto il nostro amico a confidarsi con noi dando vita ad un confronto molto intimista.

Ed ora questo: 13 settembre 2011. Io credo che ieri Ivan abbia chiuso un cerchio, intenso e bellissimo, con un amico, con un uomo e un alpinista tra i più straordinari. Forse anche Bonatti ha atteso che un ragazzo giovane, così come lo era lui all’epoca, ripetesse finalmente la sua prima via per chiudere il suo straordinario cerchio. Chissà, forse le mie sono solo le riflessioni leggere di chi è ancora travolto dall’emozione e dalla fatica, tuttavia c’è una frase di Bonatti che mi è sempre piaciuta (…e che probabilmente è l’esatto opposto di come Ivan considera la montagna): “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”. Il secondo tiro della Bonatti alla Punta Stoppani è inequivocabilmente una pericolosa pila di sassi, ma credo che tutta questa storia ne mostri il suo inestimabile valore.  

Davide “Birillo” Valsecchi

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Considerazioni:
“Ecco soprattutto ciò che intendo per avventura, nell’accezione più vasta e coinvolgente del termine. Scoprire se stessi è indubbiamente la più stimolante delle avventure, ma lo è ancor più se questa ricerca ha per sfondo la grande natura intatta, rimasta ancora fuori dalla portata di chi troppo spesso non sa, o non vuole, coglierne la preziosità.” Dagli appunti radiofonici di Walter Bonatti. Questa frase di certo piace molto anche ad Ivan.

Abbiamo inseguito i chiodi di Bonatti, immobili dal ‘49, spinti dal desiderio di esplorare tanto lo spazio quanto la storia. Una grande emozione che, genuinamente, abbiamo voluto condividere e conservare. Pensavamo di essere i primi, niente sembrava indicare il contrario, e solo dopo abbiamo scoperto che, prima di noi, era passato Stefano ed ancor prima Luigi! Una condivisione ed una scoperta che non ha sminuito la nostra salita ma che, anzi, ha impreziosito ed arricchito un’esperienza comune. Una Bonatti intatta non deve e non può diventare un feticcio da esibire, credo quindi che sia molto importante che questo itinerario, così come quelli vicini del Boga e di Rossi, conservino questa loro “natura intatta”, senza che fittoni, fix o spit ne deturpino lo spirito e la testimonianza.

Ivan, con i suoi tempi, pubblicherà una relazione più tecnica e puntuale della via con lo scopo di non perderne la memoria. Io posso solo dirvi che la seconda parte della via è decisamente pericolosa ed impegnativa, anche per chi ha buona esperienza di detriti e roccia instabile (…mi raccomando, sarebbe un grave errore cercare gloria caricandola a testa bassa). Se qualcuno, come Stefano o Luigi, ha una propria storia da raccontare si faccia avanti: sarà un piacere ascoltarlo =)

Esami a Settembre

Esami a Settembre

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«Questo non è il VietNam! Ci sono delle regole!» L’elicottero del soccorso alpino, trecento metri sotto di noi, continuava le esercitazioni nel canalone Bobbio. Il frastuono rimbalza tra le pareti saturando l’aria di caos e confusione. Due camosci si fermano ad una trentina di metri da noi quasi vogliano domandarmi «Che accidenti di fracasso state combinando oggi?! Siete strani forte voi bipedi! Voi altri due, poi, non lo avete visto il sentiero?» Mi piacerebbe fargli una foto ma, in quel pandemonio, ho le mani occupate a fare sicura al Guero sopra di me.

L’accordo era chiaro: andiamo a fare delle roccette semplici semplici che sono fuori allenamento con la testa. Eccoci quindi qui, con il Guero che ammucchia tra loro friend e piazza un chiodo (evento raro) per proteggere un passaggio strapiombante: «Dal parcheggio non sembrava buttasse tanto fuori!» Già, mille metri di dislivello tendono ad appiattire le prospettive…

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Finalmente capisco che è in sosta ma, con il fracasso dell’elicottero, è impossibile capire cosa mi stia urlando. Quindi parto e, per far prima, mi lego a metà della corda senza aspettare che la recuperi tutta. Già, roccette facili…

Rassegnato mi applico alla salita cercando di lavorare bene di piedi e di guadagnare il più possibile evitando movimenti troppo intensi o faticosi: in pratica arrampico come andrebbe fatto. Rimonto fino a dove strapiomba, studio i piedi e mi alzo oltre il passaggio. Mi attaccato ad una manetta ma prendo il martello con l’intento di schiodare. Il mio economico canapone arancione dell’ 11 però non ne vuole sapere ed appena provo ad appoggiarci il peso si allunga verso il basso. Cercando di metterlo in tensione mi abbasso e rimonto nuovamente lo strapiombo (e siamo a due). Nel fracasso urlo a Guero di tirare ed il canapone sembra irrigidirsi un po’ ma ad ogni tentativo mi riappoggia comunque sotto lo strapiombo. Risalgo un’altra volta (e siamo a tre) ma non c’è verso di riuscire ad utilizzare quella corda per schiodare: devo riuscirci tenendomi con una mano sola.

Prendo un appiglio verticale con la destra e provo ad usare il martello da mancino tenendomi sui piedi. I risultati sono scarsi, il corpo è tutto fuori asse e comincio ad essere stanco: il chiodo non vuole uscire. Per un secondo accarezzo l’idea di abbandonarlo mentre la stanchezza comincia a sussurrare maligna «Arrenditi, lasciati cadere, lasciati sulla corda e fatti calare. Vai a casa, lascia perdere, accettati.» Strani momenti quando arrampichi.

«Nella migliore delle ipotesi la sosta sarà un cordino attorno ad una pila di sassi su cui sta seduto a gambe incrociate il Guero…» Un pensiero buffo, distorce la realtà descrivendola però nella sua essenza. «Non puoi arrenderti Birillo, questa è la realtà. Semplicemente non puoi». Dura un istante ma finalmente qualcosa scatta, qualcosa che non sentivo da tanto, forse troppo tempo. Non c’è rabbia, non c’è ansia, ma solo una ritrovata consapevolezza: sono lì.

Cambio mano, ed incrocio le braccia mentre riposiziono i piedi. Riprendo il martello e schiodo, …finalmente. Riparto, rimonto ancora lo strapiombo e mi appoggio con i piedi su un ballatoio. Ho il fiato corto, incastro un avambraccio in una fessura e sgagio qualche sasso con i piedi fino a trovare un appoggio solido. Diritto non salgo, respiro, giro le anche e vado in spaccata con la gamba sinistra cercando dove pareggiare con il piede destro. Vado, arrampico, un diedrino delicato e sbuco con la testa su una cengia erbosa. Il rumore dell’elicottero si è finalmente allontanato: «Hey Biriz! Fermo lì che ti faccio una foto!» (…quel curioso aggeggio che usa per farmi sicura bloccherà se lascia le mani?)

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Quando arrivo in sosta (assolutamente solida) mi sento diverso. La mattina, quando mi ero alzato lavandomi i denti davanti allo specchio, mi sentivo stanco, sentivo crampi e dolori ovunque. Il morale era sotto i tacchi. L’altra sera, a cena dai miei, mio padre mi aveva fissato dritto negli occhi «Che stai combinando? Sembri invecchiato tutto di colpo!». Ma ora, a quella sosta, sembra esserci una persona diversa: «Ciao Sguero, eccomi finalmente!»

DSCF4885Il tiro successivo la roccia è bellissima, “leggermente” friabile all’attacco ma poi strepitosa. Mi muovo e respiro, lasciando che siano i movimenti a guidarmi. Devo essere grato a quel vecchiaccio: forse non siamo sulle roccette che mi aveva promesso ma il risultato è stato di certo quello sperato. Eccomi qui, sono di nuovo qui.

L’ultimo tiro è un camino, un po’ orrido, ma piacevole. Poi eccoci qui, appena sotto la cima del Dente, mentre traversiamo su altre roccette curiosando qua e là. Insacchiamo il materiale e giù, nuovamente per il canalone Bobbio. A Lecco ci infiliamo nella solita birreria «Esami a Settembre: chiamiamola così.» Al Guero piace, o forse manco gli interessa: è felice, della via, della roccia, di come abbiamo arrampicato. Ingolliamo un paio di birre medie mentre ci servono patatine per pranzo. «Sguero, prima del treno abbiamo ancora tempo: cambiamo finalmente il vecchio canapone arancione? Mi aiuti a sceglierlo?» Come due adolescenti molesti e logorroici ci infiliamo nel negozio di “Gigi Che Sbatta” che, con pazienza stoica, appoggia sul bancone la nostra nuova corda. Esami a Settembre: finalmente passati.

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Azzoni Point-Blank

Azzoni Point-Blank

DSCF4631“Anch’io sono disposto a morire… Ma non di noia!” – ZabriskiePoint. Quando usciamo dal bar del piazzale della funivia era abbastanza chiaro che le giornata promettesse pioggia, quello che non mi aspettavo era di sentire in lontananza una chiara ed intensa scarica di sassi venier giù da qualche parte sul Pizzo D’Erna: “Accidenti!” Nonostante sembrasse interminabile non c’è stato modo di capire da dove fosse venuta già “…vabbè, tanto a me la Gamma1 non mi piace: è una scala che porta in spazzacà! Con questo tempo fortunatamete non ci sarà nessuno da quelle parti…”.

Io e Josef iniziamo a camminare e chiacchierare fondendo insieme i massimi sistemi alla filosofia, al cimena, al lavoro, alle donne, ai sogni, alla vita in genere.  Spesso quando si arrampica si è legati e divisi da 50 metri di corda, forse è anche per questo che senza se ne approfitta per rinsaldare i legami che sono la vera sicura di una cordata.

1300 metri di dislivello più tardi siamo davanti al rifugio Azzoni, sulla cima del Resegone. La nebbia copre ogni cosa e le goggioline si fanno più frequenti: “Birra?”. L’Azzoni è un bel rifugio di vetta: rosso fuori e dall’interno in legno intriso di storia. Quando entriamo ci accoglie un ragazzo ricciolo con due intesi occhi azzurri, mani grandi e sorriso sincero. Lui e Josef si conoscono bene ma ancora io non so chi sia. Però ha “una bella faccia”: mi sta subito simpatico. Il rifugio è quasi vuoto e così, tutti e tre, ci sediamo insieme ad un tavolo. Un boccale da litro in mezzo e qualche lattina di birra per riempirlo.

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“Ma tu sei Birillo?” Mi chiede il giovane “capanat” di 24 anni: oltre ad essere quasi omonimi ci siamo già parlati senza saperlo. E’ compagno di cordata di “Scienza”, con cui ha aperto diverse nuove vie, ed era con Marco Anghileri al Pizzo d’Eghen nella sua celebre maratona verticale ”Le 6 C – Tributo a Cassin”. Non lo incontri mica tutti i giorni qualcuno con cui chiacchiarare di quel caminone sulle Grigne!

DSCF4645“Ma sai che il mio socio Mattia, nonostante tutto, ci è tornato due volte per esplorare la famosa grotta di Cassin prima del penultimo ultimo tiro? In quel punto, proprio come diceva il libro, la grotta rientra per una decina di metri e sul fondo, praticamente al buio, ci sono davvero i tre sassi incastrati con cui ha superato il sasso incastrato che tutti gli altri, noi compresi, abbiamo passato appesi fuori a sbalzo!”

Fuori è agosto ma sembra ottobre: chiacchieriamo svuotando il boccale, poi una stretta di mano e ci salutiamo. La pioggerellina si è fatta più fitta ma con fare tranquillo ci avviamo lungo le creste. Poi, nel buio bianco dell’orizzonte, risuonano i tuoni che avanzano, probabilmente dalla Grignette. Il piacevole torpore della birra scompare ed i nostri piedi, spronati da una rinnovata lucidità funzionale, si muovono veloci sui sassi del Canale Bobbio: “Accidenti! Basta nominarlo l’Eghen che scatta il temporale! Peggio di Frau Blucher!!”

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Quando la pioggia arriva è come una secchiata violenta e riempie l’aria. Io e Josef siamo però già seduti al bar della Seggiovia con due nuove birre in mano. “Bhe, credo che per scendere questa volta ci facciamo dare uno strappo!”

Mentre la gabina della funivia si inabissava nella nebbia pensavo ad un titolo con cui scrivere l’articolo. Non so perchè ma mi è venuto in mente “Azzoni Point”, mi ricordava lo “Zabriskie Point”, il punto più caldo del pianeta nella Death Valley in California. Enzo me ne parlava sempre ad anche a Milano, in un stradina di via Torino,  c’era un vecchio e scassato negozio di dischi con quel nome. Credo sia diventato qualcosa di famoso dopo un film culto degli anni ’70, realizzato per di più da regista un italiano: non avevo mai visto quel film e così, mentre scrivevo, ho cominciato a guardarlo via internet, lasciandolo come sottofondo, rubandone qua e là qualche frase. Strano mondo gli anni ’70, quasi più incasinato dei quello del nuovo millennio. Poi, all’improvviso, mi è tornata alla mente un passaggio di Bernard Amy: tutto ha cominciato ad avere un senso, anche se inafferrabile, forse inutile. Strano modo di cominciare il lunedì mattina…

Davide “Birillo” Valsecchi     

“Forse le riunioni non sono il suo forte?!  Dite a quel tipo di iniziare a leggersi il libretto rosso, alla prima pagina, dove sta scritto che in nessun posto può iniziare una rivoluzione senza che ci sia un partito rivoluzionario …e che se andrà avanti così, con il suo individualismo borghese, finirà per lasciarci la pelle!” “Non scherzo, ne ho le scatole piene… hai sentito quel cretino dire che si deve fare qualcosa solo quando ce n’è bisogno? No, Io ne ho bisogno prima!” Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni

“La scalata era diventata il segno della nostra sottomissione all’uomo bianco, arrampicare era una nuova obbedienza. Uno dei modi per far disobbedire le parole è tacere. Uno dei modi per ottenere che la scalata non sia più una sudditanza è proibirla. Chiesi a qualche bravo scalatore che avevo conosciuto di venire sulle nostre torri, di spezzare i ferri che vi erano stati conficcati, di cancellare ogni traccia di passaggio. Poi le abbiamo vietate. E non poterle salire è, ai vostri occhi, la nostra nuova disubbidienza” La disobbedienza di Bernard Amy

“Nel mio boccale voglio solo gioia ed allegria. Non ho tempo nè voglia di pensare. Troppo tardi mi sono accorto dell’inutilità di fidarsi dei libri degli antichi saggi. Ieri sera, barcollando ubriaco, mi appoggiai ad un pino. Domandai all’albero «Quanto sono ubriaco io?» Mi parve che il pino si chinasse a sorreggermi, allora gli dissi sprezzante «Vattene Via!»” Xin Quii – L’unghia del drago – via WhatsUp per Londra

Resegone: Operazione Gamma

Resegone: Operazione Gamma

Quando apri gli occhi un istante prima che la sveglia inizi a suonare è sempre un buon segno, specie se l’orologio segna le cinque e mezza del mattino. Fuori è ancora buio ma con calma preparo il mio caffè e osservo l’alba alle spalle del Cornizzolo. Il menù del giorno prevede, in rapida e stretta successione, la ferrata Gamma 1 del Pizzo d’Erna e la Gamma 2 al Dente del Resegone.

Unendo le due ferrate si ottengono circa mille metri di dislivello tutto su roccia attrezzata. Mentre la Gamma1 è una vecchia conoscenza non ho mai avuto affrontato la Gamma2, quella che da tutti viene considerta la ferrate più impegnativa e fisica del nostro territorio.

Finisco il mio caffè, infilo lo zaino e parto in macchina. Sono solo in questo viaggio ed ho deciso di partire all’alba proprio per godermi la montagna in assoluta solitudine. Non so cosa aspettarmi dalla Gamma2: per questo non voglio nessuno con me e nessuno sulla mia strada.

Alle sette sono sul piazzale della funivia e mi incammino verso la Gamma1. Unire le due ferrate è qualcosa che appartiene alla tradizione tuttavia la gamma1 è quella che, in assoluto, meno preferisco. Una serie infinita di scale che attraversano verticali roccia che, diversamente, avrebbe potuto essere splendida. Le scale, il ponte tibetano, il ponte in ferro: tutta roba che non mi piace ma che risalgo a testa bassa pensado a ciò che mi aspetta e che ancora non conosco.

La gamma 2 è rimasta chiusa per molto tempo e proprio oggi è il giorno in cui, ufficialmente, viene riaperta,  una coincidenza che è caduta perpendicolare con una delle rarissime giornate di bel tempo di questa strampalata estate del 2014. Non potevo quindi sottrarmi alle conicidenze!

Dalla cima del pizzo d’Erna mi incammino verso il passo del Fo. Davanti a me due alpinisti, attrezzati con casco, imbrago e set da ferrata, mi precedono dopo essere scesi dalla prima funivia del mattino. Li avvicino, li saluto, scambiamo due chiacchiere e li lascio alle spalle. Sono le nove ed l mio motore gira a regime ormai da due ore, non c’è modo che mi stiano dietro o che io ceda loro il passo.

Alle dieci meno un quarto sono all’attacco della gamma2. Le relazioni della salita sono chiare: “inizia facile per diventare estremamente impegnativa nella seconda metà”. Mentre spingevo sulla Gamma1 sapevo che il difficile era conservare le energie, dosare quanto spendere e risparmiare per il finale. La storia di questa ferrata è costellata di incidenti, spesso mortali, che sembrano accrescerne la temibile fama. Voci e dicerie che avevo sentito per anni fin da bambino e che ora, da solo, mi facevano compagnia lungo la salita insieme ai miei fidati 30 metri di corda statica dell’11 nello zaino (vis pacem para bellum).

Tuttavia quello che la maggior parte della gente non racconta è la straordinaria ed assoluta bellezza attraverso cui scorre la ferrata. Il sole irrompe tra le guglie del Resegone ed io mi guardo attorno assolutamente rapito della magnificenza di quello scenario in cui il verde dei prati si alterna alla verticalità della roccia, lasciando che lo sguardo spazi senza confini in ogni direzione. La ferrata conduce colui che la percorre attraverso un Resegone assolutamente inedito per chi, come me, ha sempre battuto le altre piste, gli altri canali, le altre ferrate. E’ bellissimo!

La ferrata è così estrema come dicono? Non è assolutamente da sottovalutare, questo è certo, ma per come mi sento ora l’ho trovata difficile e “fisica” il giusto, niente di impossibile. Voglio essere più chiaro: pensare di “tirarla” tutta è follia, serve arrampicare e dosare le forze affidandosi alle braccia ed alla catena solo nei passaggi davvero duri. Certamente è lunga e “bastona” sopratutto in fondo. Questo significa giocare a scacchi con le forze e con i cambiamenti del tempo: non ci sono vie di fuga e si deve per forza arrivare alla fine per poterne uscire. Io l’ho trovata deserta (anche perchè sono partito presto) ma il pericolo di sassi smossi da chi precede è qualcosa di cui tenere conto. Anche perchè chi sta davanti può aver finito la benzina e non prestare la dovuta attenzione in un tracciato dove i sassi non mancano affatto…

La placca verticale che è considerata il punto chiave della ferrata non mi ha impressionato. Ho trovato più insidiosi molti altri punti più banali. Il problema di quel passaggio è che se ci si affida alla catena c’è il rischio di sbandierare e di sbattere contro la roccia cadendo inevitabilmente. Senza la catena è abbastanza dura, dicono sia un 5b, ed il vuoto sottostante non aiuta. Come ho detto non è difficile ma c’è il rischio di farsi piuttosto male sbagliando. Se usate la catena dovete trazionare il peso con attenzione verso destra pronti ad accorciare e recuperare la posizione quando, inevitabilmente, dovrete girare il peso e tutto il corpo verso sinistra per mettervi sulla verticale.

Il camino finale è divertente ma impegnativo. Affrontandolo bisogna ricordare che le energie sono ormai quasi tutte spese, si deve lavorare bene in opposizione sulle due pareti e procedere con prudenza fino all’uscita.

A mezzo giorno ero sdraiato al sole sul prato del Dente del Resegone a 1810 metri di quota. Partito alle sette dai 610 metri del piazzale avevo dalla mia, se i conti non mi ingannano, 1200 metri di dislivello in 5 ore che, tenuto conto della tipologia di tracciato, non mi paiono male. Tuttavia la vera soddisfazione era il mondo che mi circondava e che sapeva spaziare dal Monte Rosa al Disgrazia accarezzando le Grigne, il Legnone, il due mani, Il Tre Signori ed i miei Corni di Canzo ed il mio Moregallo. In ogni direzione c’era una montagna di cui non conoscevo il nome e questo rassicurava l’animo su quanto ampia e sconfinata sia ancora la ricerca.

La tentazione di una birra all’Azzoni era forte ma il vociare che proveniva dalla croce di vetta sembrava capace di sconfiggere la mia sete.«Nel 2014 il più bel giorno d’Agosto è stato il 2 Settembre». Ridendo di questo strambo pensiero mi sono avviato allegro verso casa scendendo lungo il canale Bobbio.

Quindi, Birillo, com’è la Gamma2? E’ una ferrata stupenda, ma affrontatela solo quando avrete l’allenamento e le capacità tecniche sufficienti per godere appieno della sua strepitosa bellezza

Davide “Birillo” Valsecchi

Per la serie “buoni consigli, pessimi esempi”: non adateci da soli!

Tramonto sul Resegone

Tramonto sul Resegone

«La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune.» La citazione di Manzoni ne I Promessi Sposi è quasi d’obbligo per parlare del Resegone (o del Serrada) ma non è l’ambito letterario, o quanto meno non solo, quello che mi interessa.

Lavorando a Lecco me lo ritrovo sempre davanti e, giorno dopo giorno, ho cominciato a studiarlo scoprendone dettagli e particolari. Le Grigne, con le loro guglie e le loro cime abbondantemente oltre i 2000 metri, sono le regine del nostro territorio ed è forse anche per questo che il Resegone, con i suoi 1875 metri di quota, non gode della stessa fama alpinistica.

Tuttavia più lo guardo e più mi rendo conto di come sia una realtà da scoprire, da esplorare. Con la macchina fotografica ho fatto qualche scatto con il mio teleobiettivo nel tentativo di catturare dal basso i dettagli che la luce del tramonto metteva in evidenza.

Le foto non sono venute male e per questo ho pensato di mostrarvele. Nella mia piccola biblioteca ho molti libri ma sono poche le informazioni che ho trovato sul Resegone. Certo, ci sono salito spesso, conosco le sue ferrate, i sentieri attrezzati ed i tracciati principali ma sono ben lontano dal poter dire che “conosco” quella montagna come potrei dire, per esempio, per i Corni di Canzo.

Per questo ho chiesto qualche dritta ad alcuni amici lecchesi del gruppo AsenPark.it: il sempre ottimo “Girabachi” e l’inossidabile “Moretz the Mortex”. I due, tra le altre cose, sono parte della squadra che lo scorso anno ha disceso in snowboard il Canale Comera: sono i miei “esperti sul campo”. (Grazie bagai!!)

In un’esplorazione si deve in qualche modo cominciare e per questo ho pensato fosse giusto partire dai nomi.

Creste sud, da La Passata alla Punta Cermenati:
Cima Quarenghi (1636 m s.l.m.) Cima Piazzo (1640 m s.l.m.) I Solitari (1626 m s.l.m.) Pizzo Brumano (1756 m s.l.m.) Pizzo Daina (1864 m s.l.m.) Torre di Valnegra (1852 m s.l.m.) Punta Cermenati (1875 m s.l.m.)

Creste nord, dalla Punta Cermenati al Passo del Giuff:
Punta Stoppani (1849 m s.l.m.) Punta Manzoni (1801 m s.l.m.) Dente (1810 m s.l.m.)Cima Pozzi (1810 m s.l.m.) Pan di Zucchero (1758 m s.l.m.) Pizzo Morterone (1758 m s.l.m.)

Canali versante lecchese:
Val Negra al Rif. Azzoni, Comera tra la Punta Cermenati e la Stoppani, Cazzaniga tra la Punta Stoppani e la Manzoni, Cermenati tra la Punta Manzoni e il Dente, Bobbio tra il Dente e la Cima Pozzi, Pesciola meridionale a nord del Pan di Zucchero,Pesciola settentrionale a sud del Pizzo Morterone

Direi che c’è veramente “tanto” da spuntare 😉

Davide “Birillo” Valsecchi

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