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Tarzan che Ride

Tarzan che Ride

dscf6673“Dobbiamo risalire il ghiaione sotto il dente poi, sfruttando un passaggio segreto, usciamo dal canale e percorriamo un crinale che non conosco fino alla base della torre Trapezia. Quando siamo lì vediamo cosa si può fare per salire” Lasciamo alle nostre spalle il Boga-Kan ed iniziamo a salire tra piante e felci che manco nella giungla. “Tarzan”, là davanti con il suo zainetto arancione, ride divertito mentre attaccandomi alle piante cerco di stargli dietro. Non ci sono guide alpinistiche su questa zona, anzi, un volontario velo di silenzio sembra avvolgere tutte queste innumerevoli torri. Le voci raccontano di salite di Don Agostino, dei Ragni e di altre avventure a volte storiche, a volte brutalmente tragiche. La geografia che mi circonda è confusa, stretta tra la città, la valle, i Resinelli e le grandi pareti. Ma vi è una spiegazione perchè un’universo alpinistico tanto ricco sembra essere volontariamente dimenticato? Semplice: è un posto temibile sotto ogni aspetto!

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Sguero trova due gambe “sgranocchiate” di capriolo: “anima candida sguero” sembra turbato dal ritrovamento. Io invece, finchè stiamo nei reami delle bestie, non mi preoccupo poi troppo: quello è il mio ambiente. Storia diversa quando il “tarzan che ride” deciderà di puntare verso l’alto attraverso “una cascata di blocchi monolitici resi stabili dall’incastro meccanico del proprio peso”.     

Alla base della torre Trapezia il sole splende caldo mentre ci imbraghiamo: Sguero rimonta il filo di cresta con la consueta disinvoltura, scivolando sinuoso tra i grandi massi e le piante che benedicono la nostra cordata. Non sembra difficile ma come spesso accade l’apparenza inganna. La cresta che corre lungo il profilo della torre Trapezia racchiude un anfiteatro di roccia verticale quasi concavo, i bordi della cresta a volte sembrano instabili cornici di roccia protese nel vuoto. Sassi enormi che attendono solo il giusto stimolo per lanciarsi nel cuore del grande teatro.

La corda del Guero non segue mai il passaggio più ovvio, ma sembra cercare riparo tra le difficoltà. Per inseguirlo devo immergermi in movimenti complicati, devo spingere la roccia cesellando con il respiro ogni spostamento. Ai margini del mio filo di seta il mondo è fragile e feroce: “Birillo, non toccare nulla che ti possa crollare addosso” mi ripeto silenziosamente. Avete mai ballato al chiaro di luna su un tappeto di vetri rotti schivando pugnali volanti?

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Le soste sono su piccole ma fidate piante, la cresta però spesso mi nasconde il Guero mentre procedede. Alla cieca il rumore dei sassi che crollano con fragore verso valle è inquietante, solo la corda mi rassicura su quello che sta combinando il Guero. “Sai che non mi piace buttar giù sassi, ma appena ho messo le mani sulla destra e poggiato un piede sulla sinistra è venuto giù tutto…piuttosto impressionante” Come una flotta tra gli iceberg tracciamo la nostra rotta tra le difficoltà anticipando i pericoli e proteggendo in perenne diagonale la nostra linea. “Cazzo quant’è difficile! Fuuuuuuuu”. La punta delle dita ripuliscono dalla terra le tacche sempre più piccole a cui mi affido mentre le prese, quelle più grosse ed apparentemente godibili, si muovono e possono essere sfruttate solo in precise e limitate direzioni.

Afferro la copertina obliqua di un grosso libro alto come la mia coscia: sembra buono ma è un errore e si muove. Invece di tenermi sono io ora a tenere quel pezzo di lavagna. Muovo il mio peso sotto il blocco, rimonto e punto il ginocchio dove prima c’era la mano e sfilo il bacino. “Bhe, ora vai pure affanculo…” badabim bum bam!!

Poi però arriva la fregatura vera: la cresta è illuminata dal sole ma il passaggio per raggiungere quella che sembra una calda placca appoggiata è davvero tosto. Lo osservo da lontano pensando sconsolato: “Se non ci stanno un paio di chiodi con cavolo che rimontiamo!” Sguero, da vicino studia il passaggio. Potremmo calarci da una pianta e traversare in placca verso un diedro a sinistra della cresta, ma Sguero è preoccupato di come da secondo possa diventare rognoso quel passaggio. Scarte l’idea e decide di puntare nell’ombra, sfilare sotto la cresta inseguendo un paio di spaccature verticali fino alla pianta soprastante. Osservo stupefatto quella scelta: è un angolo di mondo buio e spaventoso, delle increspature di roccia mista a terra ed erba. Ho già visto qualcosa di simile ai Corni, nel giardino d’oriente, ed era terrificante!

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Sguero lavora con i friend, li accoppia, li sposta, li riprende. Poi, finalmente, a metà della “ruga” trova il modo di piantare un chiodo. Io da sotto lo guardo e come la piccola fiammiferaia esprimo due desideri: “Fa che Guero riesca a passare, fa che la corda salga dritta!” Sguero fa la sua magia impossibile e raggiunge la pianta. Tocca a me: la parte che più mi preoccupa è il piccolo traverso iniziale, se parto finisco oltre la cresta, nel vuoto, appeso ad una corda che si diverte a fiondarmi giù sassi dall’alto. “Porca eva… aderenza su rocce instabili” Non puoi tenerti, non puoi afferrare un mondo sfuggevole che va in pezzi, poi solo appoggiarti ed abbandonarti al tuo equilibrio da squilibrato: insomma, la metafora della mia vita…

Sono finalmente sulla verticale, c’è un chiodo a metà ed un friend che fa angolo prima dell’uscita: posso appoggiarmi alla corda ma non strapparla perchè se salta il friend prendo due metri di volo prima di caricare le pianticelle della sosta. “Okay Sguero, ora seguimi bene mentre mi alzo piano piano!”. Lavoro con i piedi mentre con le mani posso solo spingere verso il basso: sembro un contorsionista che cerca continuamente di sfilarsi i pantaloni!!

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Giunto in sosta sono cotto, mentalmente e fisicamente, fortunatamente lungo la cresta mancano solo due tiri al sole e siamo in cima. Un ultimo diedro, più godibile che difficile, e siamo finalmente su prato che rimonta la torre. Il sole d’autunno arrossa l’erba e seduti ci gustiamo tranquilli la bellezza dopo la tempesta. La Grignetta ci saluta illuminata mentre i torrioni che ci circondano si fanno più minacciosi tra le ombre. Ma ormai non importa più: ora dobbiamo solo rincorrere le tracce dei camosci per scendere lungo il crinale fino all’uscita del Boga. Ancora una volta ci siamo addentrati nelle terre di frontiera, ora torniamo a casa.

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Il Mozzo di Colombo

Il Mozzo di Colombo

“Scegli la vita”. Alzo lo sguardo verso la parete e nella mia testa parte un monologo che manco i vent’anni di Trainspotting: “Birillo, pesi 84 chili, dovresti fare a cazzotti nei bar, non aprire vie trad! Dovresti tornare a fare trekking: appestare internet di selfie e tramonti tutti uguali. Oppure potresti darti al trail, correre! Oggi tutti corrono: su e giù per le montagne …ma no, che correre?!? Pesi 84 chili: demolisci le ginocchia il primo mese. No, se proprio vuoi arrampicare dovevi darti all’arrampicata sportiva: spazzolino alla mano ed in due o tre piombe sugli spit un 7a alla fine lo puoi anche chiudere. Che dopo puoi anche fare il bullo e dire in giro che c’hai il grado… Ma tu no, dovevi per forza venire qui, nel buco del culo di Dio, appeso ad un paio di bonsai mentre anche il Diavolo se la ghigna divertito. Che poi se volevi andare dietro al Guero non ti conveniva farlo quando da sbarbatello si tirava su per i sassi di fondo valle accerchiato da belle ragazze? No. Niente. Tu sei come il mozzo di Cristoforo Colombo, quello sulla caravella, quello sulla Pinta, quello che non conta nulla e che gli tocca andar dietro a quello stralunato che, per forza, vuole andare ad infilare il naso in quel diedro indiano… Si passa! Nuova via, nuova rotta! Che poi chissà dove andrete davvero a finire!” Una voce dall’alto mi ruba ai miei pensieri: “Dado! Vieni pure!”. E cosa volete farci? Io vado…

La roccia questa volta è compatta, i blocchi instabili si vedono benissimo e non è difficile evitarli. Ci sono un sacco di lame e placche compatte attraversate da marcate fessure: il guaio è che quando la roccia è buona il grado sembra sempre impennarsi. Mi muovo piano, appoggiando con attenzione la punta dei piedi sugli appoggi piccoli e ruvidi. Le prese sono vive e le sento bene nell’estremità delle dita. Alla fine non è male, alla fine mi diverto… si però: “Sguero recupera un po’ sta corda molle!!!” Lui dice che in fondo non mi serve, che tanto non mi appendo, ma io preferisco che non si guardi troppo in giro mentre mi recupera!

Due placche, un paio di piante e sono dentro un piccolo diedro camino formato da un grosso masso. Provo ad incastrarmici ma non mi alzo e così, remi in barca, mi butto all’esterno e lo rimonto deciso. Gli ultimi metri della torre sono tutti da “tastare” cercando di non smuovere i sassi incastrati nell’erba. Poi finalmente sosta: una bella fettuccia su alberello, rinforzata con cordino e sasso incastrato. “Regge?” “Sicuro!” Mi risponde Ivan imitando la voce del leggendario Vasco Taldo.

Guero riparte, raggiunge la cima della torre, scompare alla mia vista e prosegue per una trentina di metri. “Giaggiolone! Molla tutto!”. Lascio che recuperi, smonto la sosta e raggiungo la cima. “Ma davvero?” Il mio pensiero ha la voce sagace e stupita di mio fratello Francesco: la corda corre tra i rami come un’inutile ghirlanda in un lungo traverso sul canale sottostante. Sulla cresta dei grandi sassi appoggiati sembrano indecisi su quale dei due lati lasciarsi cadere: sono quasi tentato di dargli una leggera spinta, giusto per vedere che succede, ma ho il sospetto che se lo spavento spingendolo in avanti finirà per cascarmi addosso ribaltandosi all’indietro. “Tu, Sguero, devi tenermi da conto! Non ne trovi mica tanti altri della mia generazione che ti accompagnano in ‘ste vaccate!” Sguero se la ride divertito prendendomi in giro.

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Tra i sassi della cresta trovo delle “fatte” di camoscio, dei piccoli confetti rinsecchiti di erba digerita. Probabilmente vengono a scaldarsi al sole e quindi, da qualche parte, c’è il modo di scendere dal giogo senza tirare una doppia tra gli alberi: …e infatti, con un po’ di attenzione, la via di fuga la trovo!

“Dado, vado in ricognizione sul diedro” Mi dice Sguero. “Bene …di qui mi sa che usciamo a piedi. Io però in quel diedro non ci metto piede: fa paura e raccapriccio!” Ivan se la ride, ormai è l’una e la nebbia oltre la torre sta cominciando ad abbassarsi: non potremmo comunque salire entrambi (ammesso che si riesca!) “Dai provo e quanto meno cerco di guardare dentro il dietro”. “Okay”. Mi siedo e rinforzo la mia sosta con una fettuccia su una pianticella. Guero parte, attacca il primo traverso e pianta un chiodo: sotto l’attacco della fessura che vuole risalire ci sono quantomeno trenta metri verticali: “Sai Dado, qui è bello esposto”. Fai te …alle volte Sguero si stupisce di cose terrificantemente ovvie.

La nebbia si abbassa, il sole scompare: io in maglietta, immobile, inizio a tremare …anche per il freddo. Guero è ingaggiato in una fessura terrificante e continua a raddoppiare i friend in un calcare svasato. Eccomi qui, sono il Mozzo di Cristoforo Colombo in mezza alla tempesta: che poi gloria e ricchezza, mio temerario e cocciuto esploratore, se la ruberà tutta Amerigo Vespucci impugnando il trapano dopo che avremo sgagiato e tracciato la via per le nuove indie.

Ivan pianta un chiodo, uno stonato, e poi ne pianta un’altro che canta meglio. Una pianticella, troppo piccola per attaccarcisi, continua ad agguantargli e deviargli il martello ad ogni colpo. “Spezza quella maledetta stronza!” mi verrebbe da dirgli, ma il Guero-pensiero è davvero diverso “Ma cha antipatica! Non mi lascia martellare” …e, senza spezzarli, piega i rami perchè non lo ostacolino …mentre è appeso senza mani su appoggi dubbi, protetti con una fila di fila di friend equivoci.

“Ora pianta il chiodo, si cala e ce ne andiamo.” Ma si cala giusto per recuperare i friend e ripartire. Accidenti che freddo in maglietta a novembre, pensare che ho lo zaino pieno di cose calde da mettermi! Sguero riparte, si alza ancora e tutto quello che posso fare per lui è manovrare la corda e fargli il tifo in silenzio. Che in effetti vorrei scendesse, ma arrivati a questo punto ho paura che lo faccia fin troppo in fretta. Nel diedro purtroppo tutto è smussato e strapiombante: “Da sotto non sembrava tanto duro” No, no, Sguero, io lo sapevo benissimo che era una rogna!

Lavora e respira mentre tiene posizioni che mi tolgono il fiato. Se in un diedro è possibile incastrarsi posso anche fare a meno di guardare il Guero mentre lo risale: so per certo che se la cava. Ma sto giro non c’è possibilità di incastrarsi… eppure lui, in una posizione senza senso, stacca entrambe le mani e le allunga oltre la verticale per piazzare una protezione. Quel vecchiaccio dove lo metti sta …ma sto giro non ci sono certezze.

 

Dopo due ore, infinite ed immobili, Sguero raggiunge finalmente l’uscita dei venticinque metri di diedro. Sono agghiacciato nell’animo e nel fisico, non ho fatto nulla ma sono demolito. “Trovi da far sosta?” “Sì, sì. Qui posso mettere un cordino in una frana consolidata… ed uno dei tuoi chiodini” Frana consolidata? “Accidenti, mettici tutti i chiodi che vuoi!! Quelli li vendono…” Finalmente inizio a calarlo mentre piano piano recupera tutto il materiale “Lascio questi chiodi, così la prossima volta che abbiamo tempo possiamo tornare e fare tutta la cresta” Ceeeeerttttttoooooo… giusto quando abbiamo tempo!

Finalmente è di nuovo alla base: ha le mani insanguinate ed un bozzo sulla fronte. Lascio che mi si sieda accanto e che tiri fiato, poi lo stropiccio un po’ abbracciandolo con manate da orso. Si toglie il casco e gli mollo un bacio su quella zucca pelata: sto giro mi ha fatto penare quasi quanto Mattia nelle nostre prime avventure ai Corni! Che fatica e che ansia fare da secondo a ‘sta gente!!

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Ivan, sereno e gigione come sempre, mi guarda poi con fare serio “Sai Dado, questo diedro qui è molto più difficile della tromba di Oceano Irrazionale.” Io me la ghigno: mai visto il diedro di Oceano …ma io già lo sapevo che sto giro eravamo finiti a bordo di una sgangherata caravella in una stramaledetta traversata atlantica!

Davide “Birillo” Valsecchi

Che Sbuatta!

Che Sbuatta!

dscf6324“Bentornato a casa!” Ivan dall’alto mi sfotte mentre io sono inchiodato in un nicchia tra grossi ed inquietanti massi di tagliente calcare vergine. C’era voluta un’oretta e mezza d’avvicinamento per mettersi in quel guaio: avevamo superato ghiaioni, boschi infranti e persino un’impegnativa crestina di terzo prima di infilarci nel canale e legarci alla base del pilastro. “Questo canale meno volte lo fai in vita tua e meglio è!” Come dargli torto. Nella nostra peregrinazione era riapparso anche il cordino azzurro che avevo abbandonato legato ad una pianta il giorno che si era fatta male Bruna. Sguero voleva riprenderselo, ma io l’avevo lasciato come una scaramantica offerta alla montagna e non intendevo rompere quel voto.

Ma forse conviene tornare al presente, al calcare che mi circonda, ammucchiato in un caos immobile fatto di incastri, pesi e contrappesi, che sottendono e sostengono questo solido e fragile palazzo di  cristallo. Giorni fa con Josef avevo arrampicato al sole sul compatto Gneiss di Machaby ed insieme avevamo di discusso dei rischi impliciti che la “libera esplorativa” di Ivan comporta. Già. Ivan e Josef, “una scuola, due spade”: che curioso mondo il mio. Alla fine avevo concluso che come in ogni cosa quello che conta è la consapevolezza, il qui ed ora, quello slancio interiore che spinge l’inconscio ad emergere coscientemente rivelandosi come illuminazione.

Eccomi quindi qui, con metà del corpo in una nicchia e l’altra metà che solletica come una lucertola i grandi massi che dal petto in sù mi sovrastano incuriositi. Sono un’artificiere che deve disinnescare una bomba evitando che la montagna mi urli addosso “JINGAAAA!”. Osservo stupito quello che mi circonda catalogando ogni sasso secondo il coefficiente “Bruna”: probabilità che crolli fratto i danni che può causare. Quello che mi stupisce davvero è la serenità dei miei pensieri: “Sì, qui è piuttosto pericoloso, anzi, è significativamente pericoloso. Ma okay, facciamo le cose per bene”. A Machaby avrei cercato una buona presa alta, avrei spinto con una gamba ed avrei imposto la mia forza tanto alla roccia quanto alla gravità. Qui non si può. Qui non puoi sovvertire la natura risalendo d’imperio la goccia d’acqua, qui devi essere una foglia appoggiata, sospinta dal vento. Afferro una presa minuscola sulla roccia più grande tra quelle che mi circondano: mi impongo di pensare che sia troppo grande e pesante per tradirmi muovendosi. Poi striscio verso l’alto, sfioro senza toccare nulla, alzo tutto me stesso riposizionando il peso del capo, poi delle spalle, trasformo trazioni in spinte fino a quando anche le gambe sgusciano dalla nicchia e mi seguono a piccoli passi.

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“Ivan ha la straordinaria capacità di mantenere una posizione, anche incerta, per tempi lunghissimi” Avevo discusso con Josef “Questo è il suo talento e ciò che gli permette di arrampicare su quella roba. Ma chi non ha questa capacità rischia di farsi male, di tirarsi addosso la montagna”. Non conta il proprio equilibrio, conta l’equilibrio di ciò che ti circonda. Se provi ad imporre la tua forza sarai stritolato dalla forza instabile che ti circonda. Trattengo il fiato modulando il respiro in gesti interminabili cercando di trasformare in nebbia i miei 84kg: un soffocante sforzo privo di forza. Strano mondo il mio…

“Ivy! Comincia a gocciolare: serve trovare un’uscita prima della pioggia!” “Va bene, se raggiungiamo il colletto dovremmo poter uscire poi scendendo nel canale” Quaranta metri di corda stesa ad ogni tiro, un friend, una fettuccia, nulla di più. La corda però è per lo più un elemento folcloristico da sfruttare nei passaggi più intensi. La quantità di massi e lame che ci circondano ne limitano le funzionalità. C’è da sperare che, afferrata da qualche balena in fuga, si tranci piuttosto che trascinarci negli abissi. Ma questa è la frontiera: nè io nè il vecchiaccio possiamo concederci errori ed è servito tempo per consolidare l’intesa e la consapevolezza che ci permette di avventurarci insieme quassù.

dscf6373Finalmente in cima ci abbassiamo in un ripido canale. Ivy indica un diedro compatto che rimonta dalla valle sullo sperone successivo: “Quello l’ho fatto da solo nel ‘74. Anche quello vicino si può risalire ma servono giornate lunghe perchè bisogna chiodare”. Fortunatamente arriva la pioggia ed i sogni per oggi sono rimandati. Mi guardo intorno e sgnignazzo “Davvero, perchè sono il figlio di un cacciatore e sono cresciuto accompagnandolo a pesca con una canna corta e venti metri di corda, perchè diversamente un socio per postacci del genere mica lo trovavi!” Ivan sghignazza mentre tra canali, boschi e paglione verticale ci riabbassiamo allegro verso la macchina.

La pioggia ha ristretto i nostri programmi e così alle due ci infiliamo diretti al Pub, “Dalla Vecchia”. Due giovani nuove cameriere, Anna e Noa, ci servono da ordinanza una media chiara per il pischello ed una rossa per il vecchiaccio. Già, primo giro. Ivan è stato chiuso in casa una settimana con la tosse: è ora felice della salita ed ha voglia di festeggiare. Secondo giro. La birra e le chiacchiere lavano via le tensioni, l’ansia e le incertezze della frontiera. Quando stiamo iniziando i primi giri di piccole nel pub fa il suo ingresso l’inaspettato: scatta un boato di applausi e trema il teatro della realtà. Quasi come evocato da una magia imprevista, eccolo: Gigi che Sbatta!

Per quanto mi riguarda Gigi è una delle figure più significative del panorama indigeno, una vera e propria fonte d’ispirazione. Lui ed il suo collega (di cui ahimè non ricordo il nome) si siedono con noi a chiacchierare mentre sfruttano la loro pausa pranzo: mi piace osservare Gigi ed Ivan parlare, ascoltarli descrivere di luoghi e nomi per me sconosciuti. Conoscendo Ivan è curioso come siano andati subito d’accordo. Gigi gli mostra alcune foto sul cellulare, Ivan, una talpa senza occhiali, gli fa comunque domande sinceramente interessato e curioso. Sarebbe davvero interessante vederli insieme sulla roccia: toccherà darmi da fare.

Un ultimo giro di piccole, per annaffiare il nostro pranzo a base di patatine, e ci avviamo verso la stazione. Manca ancora un’ora al treno e Lecco è in festa per l’RBL, l’arrampicata cittadina organizzata dagli AsenPark e dai Gamma. Io e Sguero vaghiamo divertiti tra le stradine osservando i ragazzi che arrampicano e salutando gli amici che capita di incontrare. Ivy all’inizio storce il naso citando decaloghi di arrampicata urbana dell’800, ma alla fine il clima generale di festa coinvolge anche lui (potere della birra!)

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Cerchiamo TeoBrex, che partecipa alla competizione, ma senza successo. Stremato, con un abbraccio consegno Ivan al treno e torno a cercare gli amici. “Birillo!! Birillo!!” Una voce mi chiama da lontano: fortunatamente gli amici hanno trovato me! Leggero mi attacco ad un blocco fuori gara, felice di come la birra e le scarpe da trekking infangate mi tengano alla pari con i concorrenti muniti di scarpette e magnesite. Ma il mio momento di vanagloria dura poco perchè Davidino, divertito, inizia a scimmiottarmi inseguendomi in ciabatte sui cordoli: d’altronde dal socio del Guerra, uno dei Corni, uno di Civate allevato a Valmadrera e Calolzio, ci si deve aspettare questo ed altro!

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La mia molesta presenza trasfigura la competizione in un pick-nic e mezz’ora prima che la gara termini gli amici sono più interessati alla torta di Veronica che ai blocchi che ancora mancano. Così, vagabondando sempre più leggeri arriviamo finalmente in piazza, nel cuore della festa. Gianni, Giacomo, il Giarletta, il Panz, la mia cuginetta ed il moroso, Ben Affleck, Davidino Com’Era, il Morezt Ben Pettinato, AkaPanizza, Luca, Andrea, Tiziano, Federico, il Tarlo che sbraccia con la bandana gialla da Sandokan, e tutti gli altri: nomi, volti e storie che scorrono in un susseguirsi di abbracci, pacche e strette di mano.

Con le monetine che mi restano in tasca addento un panino con la salamella mentre i finalisti della gara assaltano un pannello deserto di prese che manco con le picche nel compensato. Sorrido mentre il fresco della sera mi solletica attraverso i buchi e gli strappi del mio equipaggiamento da esplorazione: “Bhe, Birillo, come giornata da vivere direi che è stata piuttosto interessante!”

Davide “Birillo” Valsecchi

Onda d’Ombra

Onda d’Ombra

dscf6043La roccia è fredda e l’aria umida mentre arrampichiamo in ombra. Le dita per il freddo cominciano ad irrigidirsi, a farsi meno sensibili. L’ambiente che mi circonda è assolutamente ed inaspettatamente dolomitico: la nebbia ed il sole scivolano in un alternarsi di luci ed ombre tra grandi ed imponenti torrioni. Curiosamente con le dita infreddolite cerco prese e tacche sempre più piccole, questo sembra scaldarle un poco dandomi la sicurezza che la diminuita sensibilità non mi inganni su qualche roccia instabile. Mi muovo sciolto, lavorando in appoggio con i piedi, in un’arrampicata intensa ma non troppo faticosa. Mi guardo intorno studiando i passaggi, meravigliato da quello che mi circonda: “Questa è una delle più belle salite che io abbia mai fatto”.

Una placca di calcare grigio che risale per oltre duecento metri fino alla cresta sommitale, credo che sulle nostre montagne sia qualcosa di assolutamente raro se non addirittura unico. Sguero me ne aveva parlato a lungo di quelle placche e così, prima che l’inverno irrompa, abbiamo deciso di andare finalmente ad esplorarle. Lui e Giancarlo nelle settimane passate avevano aperto un’altra via in quella zona, affrontando un lungo diedro strapiombante sulla vicina bastionata: fortunatamente io ero piacevolmente dal dentista quel giorno!

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Quando arriviamo alla base della placca ci imbraghiamo distribuendo i vari materiali. Una piccola grotta formata da macigni incastrati segna il punto in cui rimontiamo il primo muretto attraverso una ripida spaccatura. Ci alziamo per trenta metri prima di piegare verso destra per altri trenta attraversando la cengia che porta al centro della prima grande placca. Guero ride, guarda in alto e parte. Io lascio scorrere la corda nel reverso mentre la osservo distendersi libera verso l’alto. La roccia è quasi monolitica, molto più compatta di quanto ci aspettassimo da lontano. Con la dovuta accortezza è davvero poco quello che sembra cedere, mentre richiede grande attenzione il pietrisco che, cadendo dall’alto si è appoggiato sulle placche. “Guero, aspetta un secondo che c’è un mezzo problema”. Un grosso sasso appoggiato sulla placca mi osserva da quando sono in sosta. Lui mi guarda dall’alto ed io lo tengo d’occhio dal basso: quando la corda ha cominciato ad avvicinarsi mi era chiaro il resto della trama. La corda sfiora il sasso che, quasi svegliandosi all’improvviso dal suo lungo letargo, si agita buttandosi spaventato di sotto. Un rimbalzo e poi giù per trenta metri. Come un giocatore di baseball ne osservo la traiettoria. Un’altro rimbalzo e poi impatta andando in pezzi sulla grande roccia che protegge la mia sosta. Le scaglie volano inoffensive tutto intorno mentre mi investe il profumo di roccia infranta: “Okay Guero, problema risolto” gli urlo allegro.

dscf6036Poi Guero, come una nave su un mappamondo, scompare dalla mia vista. Cinquantacinque metri più tardi sento il rumore di un martello su un chiodo: “Ecco la sosta”. La nebbia va e viene mentre la nostra voce rimbalza sulle grandi pareti alle nostre spalle. “Vengo!”. La corda è quasi libera, vincolata in sinuosi passaggi tra gli speroni e protetta sola da qualche friend nei passaggi più duri in diedro. Da secondo posso arrampicare quasi dove voglio e con un po’ di sfacciataggine raddrizzo la via del Guero ingaggiando verticale i passaggi più estetici. Certo, se “birlo di sotto” la corda avrà tutto il tempo di farmi passare la voglia di ridere prima di tendersi e bloccarmi, ma ormai mi sento quasi stregato dal quell’arrampicata. Non ho mai arrampicato su una placca di calcare tanto sconfinata, intensa ma anche docile e generosa. La maggior parte delle placche su calcare che ho affrontato in passato erano traversi su roccia liscia dove ho collezionato una buona ed inquietante serie di lunghi pendoli: la placca è solitamente la mia bestia nera, per questo ero assolutamente rapito dalla bellezza di questa salita.

La sosta è all’uscita sulla seconda grande cengia, un passaggio ben noto ai camosci che la attraversano orizzontalmente. Trenta metri verso destra e siamo alla base del grande canalone che rimonta verso la cima. Il cuore del canale è umido, reso viscido dal muschio e dall’acqua che cola: Guero vuole rimontare il primo tratto per poi tornare in placca verso sinistra. La roccia del canale è logorata dalle intemperie e cede al primo assaggio di Ivan. Una fettuccia, un friend e Guero passa oltre. Poi, sulla sinistra, trova un vecchio chiodo a foglia anni 60 che esce a mano. Incuriositi dal ritrovamento cerchiamo senza fortuna altre tracce di passaggio. Forse un tentativo o forse una salita invernale. Alla base delle placche, tra le rocce del canale sottostante, avevamo trovato i resti di un vecchio scarpone in cuoio e, con il senno di poi, quei due oggetti anni ‘60 potrebbero appartenere alla stessa storia. Purtroppo la montagna ed il tempo sono bravi a custodire i propri segreti, spesso nonostante le lapidi sbiadite sul fondo del canalone principale.

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Altri sessanta metri scorrono davanti a me prima che il suono del martello chiami l’imminente sosta. Quando riparto mi immergo nuovamente in un’arrampicata straordinaria. Distribuisco il peso, tegno piccole ed appaganti prese mentre i piedi si spalmano sugli appoggi in placca. Passaggi di forza che si alternano a passaggi delicati di appoggio: stupendo. Ogni tanto la corda fa fischiare qualche sasso dall’alto ma solo roba piccola, ormai mi sono abituato e mi muovo con la giusta lentezza perchè non colgano di sorpresa. Nel mezzo di un grande placca una lama verticale mi regala una Dulfer da collezione: stupendo! Poi dall’alto sento battere nuovamente il martello: “…o sta rinforzando la sosta oppure ha iniziato a schiodarla… in ogni caso è il momento di lasciar perdere i numeri ed arrampicare schiscio!” Gli ultimi passaggi si fanno sempre meno verticali e solo un diedrino rotto mi ingaggia prima della sosta.

Quando arrivo in sosta, una bella cengia, un bel chiodo ed un friend, Ivan mi sorride malandrino: “Venivi su bene ed ho iniziato a schiodare uno dei due chiodi”. Per arrivare sulla cresta manca solo una decina di metri ed un diedro aggettante. Potremmo aggirarlo verso destra ma, visto che il tempo ce lo permette, rimontiamo questo passaggio nonostante poco si accosti alle caratteristiche del resto della salita.

Sul sentiero di cresta ci sediamo finalmente al sole felici della salita. Monica, l’adorabile moglie di Ivan e sua compagna in numerose salite, guardando le foto delle placche aveva suggerito un nome per la via: “Onda d’Ombra”. I più attenti avranno compreso di quale montagna e di quale zona si tratti. Fortuntamente nessuno ha preso d’assalto con il trapano quelle bellissime ed atipiche placche e si spera che anche in futuro quel vecchio chiodo a foglia rimanga l’unica testimonianza del passaggio dell’uomo in una natura intatta.

Davide “Birillo” Valsecchi

Onda d’Ombra
7/10/2016 – Ivan Guerini, Davide “Birillo” Valsecchi, 5 lunghezze, NoSpitZone

Cimitero di Lumachine

Cimitero di Lumachine

dscf5767Quando usciamo dalla funivia sembra il pandemonio: l’elicottero del soccorso alpino si alza in volo in un fracasso di rotori mentre una comitiva di scolaretti delle elementari si raduna vociante nella piazzetta. L’elicottero continua a sorvolarci facendo la spola avanti ed indietro con i tecnici del soccorso che partecipano all’esercitazione. Il rumore rimbalza tra le pareti come in un bombardamento mentre le voci dei bambini rendono la situazione surreale proiettandoci in un dissennato film stile vietnam: “Charlie non fa surf!”

Con lo zaino carico ci avviamo lungo il sentiero come tre improbabili e baldanzosi remagi. I ragazzi del soccorsi si stanno esercitando in un canale ed il punto in cui l’elicottero scarica la squadra è poco distante dal nostro passaggio. Per questo, accucciati tra le piante con il soccorso, aspettiamo che l’elicottero droppi e riparta. In quel fracasso d’inferno riusciamo comunque a scherzare e a fare due chiacchiere con i tecnici. A differenza dei soliti gitanti non ci chiedono se andiamo a fare una ferrata: hanno capito chi è il vecchiaccio che capeggia la combriccola.

Il “Panz” scatta una foto con Ivan e ridendo glielo dice chiaro: “Ricorda quello che diceva Cassin: meglio un chiodo in più che un alpinista in meno”. Ed Ivan per tutta risposta: “Sì, ma quando poi ci siamo incontrati mi ha detto che facevo bene ad arrampicare come arrampico io”. Il Panz, Ivan, Cassin… gente troppo spessa perchè Birillo metta naso nella discussione. Speriamo però che un chiodo buono ogni tanto lo metta!

Quando riprendiamo a salire sono bello sereno. La giornata mi appare complessa il giusto. Stando al programma oggi si va ad esplorare un bel camino che ho indicato ad Ivan in una delle nostre precedenti uscite. Un bel camino di 40 metri al sole, avvicinamento un po’ complesso ma poi godibilissima salita ad incastro fino all’uscita, dove il camino si abbatte ed esce su una cengia erbosa. Due tiri al massimo, roba gestibile. Certo, ci sono mille incertezze ma un bel camino è un bel camino: non si sbaglia.

“Hey, ma di qui non si va al mio camino?!” chiedo distratto “No, no. Oggi è una bella giornata, è un peccato sprecarla con solo due tiri. Ci andiamo un’altra volta al camino. Oggi andiamo a quel diedrino che mi hai fatto vedere l’altra volta. Sai, hai ragione, è proprio bello: oggi andiamo a vederlo” Come? Cosa? Io? Cosa ho indicato cosa a chi? Ancora disorientato maledico la mia linguaccia restando assolutamente attonito quando capisco a cosa si riferiscono “O.H.M.E.R.D.A.!!!”

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SBAAMM. “Ma davvero volete farlo oggi?” Guardo la parete e la parete, leggermente illuminata dal sole, mi annichilisce con un’occhiata di riflesso. Lassù, in alto, c’è un diedro che esce strapiombate carico di promesse ad incastro. Ma la base è un tripudio verticale di roccia incerta e strapiombante sovrastata da erba altrettanto strapiombante. “Ma siete davero sicuri?” Quando arrampichiamo soli io ed Ivan probabilmente si ricorda che sono una matricola, quando c’è anche Giancarlo si gioca solo nella Major League. “Provo a vedere se trovo un passaggio logico per raggiungere l’attacco del diedro. Se è troppo terribile mi calo ed andiamo a vedere il tuo camino.” Mi dice Ivan sereno. Io con il naso all’insù faccio i conti: per arrivare al diedro su quel terreno servono almeno 3 o 4 tiri di corda, da fare corti ed affollati di chiodi. Serve un boato di tempo per affrontare quel disastro di erba e pilastrini. Questo prima ancora di dover affrontare il diedro. Sono quasi le undici e mezzo: dove accidenti vogliono andare?!

Ma Ivan parte, un primo traverso verso sinistra, poi un diedrino verso destra, si alza, trova un clessidrone poco rassicurante. Piazza un paio di friend e supera un traverso che spancia violento atterrando in un diedrino erboso. Poi riparte verso l’alto risalendo un torrente verde. Io, sbigottito, lo osservo. Arrampica costantemente con un piede sulla roccia ed uno sull’ebra, in strapiombo. L’ultima protezione è un friend che come un appendi abiti sorregge la corda che scorre ormai oltre una decina di metri oltre le sue spalle.

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Ivan ha 62 anni. Lo osservo muoversi. Non può essere forza, nè atleticità: è tecnica e puro equilibrio. Si muove con una lentezza infinita che diventa eleganza. Riesce ad essere “appoggiato” sopra un mondo instabile. La risultanza dei suoi gesti annulla il suo peso: incredibile. Resta immobile in posizioni che mi sembrano asfissianti riuscendo comunque a raccontarci quello che sta facendo: a volte ride da solo divertito di come le difficoltà gli complichino la salita. Cristo Santo… vorrei che piantasse un chiodo, vorrei che ci fosse qualcosa di razionalmente solido a cui potesse aggrapparsi, ma ormai mi è chiaro che se la sua mente cercasse rifugio in qualcosa di simile infrangerebbe quel suo incredibile equilibrio che è l’unica sola sicurezza possibile. L’unica certezza su quella parete è Ivan Guerini …ed io che me la faccio sotto per lui!

Le mie mezze corde sono da 50 e si distendono completamente prima che Ivan decida di fermarsi. Il sole illumina la parete ma noi siamo ancora in ombra. Le gambe mi tremano leggermente, forse è il freddo, forse l’immobilità… forse no.

Guardo verso l’alto mentre sento Ivan finalmente piantare un chiodo. Sono tutti tiri obliqui su strapiombi di misto. Riesco ad immaginare il mio respiro sotto sforzo mentre sposto il mio equilibrio ascoltando prese incerte. Posso sostenere quella sensazione di “nulla” per un po’, ma quella parete è troppo grande perchè riesca a contenerla tutta. Se cedo mentalmente e parto in pendolo i miei ottanta chili strapperanno ogni cosa: un tripudio di corde che cantano, roccia che crolla e birilli che sbattono. Bruna dopo l’Eghen è stata chiara “Fai quello che vuoi, ma dai retta sempre e solo alla tua pancia”. Alzo la testa un’altra volta e respiro. In questo campionato ogni dubbio è una sola certezza: non posso cominciare quello che non sono pronto a finire.

“Ivy!! Io questo giro lo passo!” “Non sali?” “No” “Sicuro?” “Sicuro!” “Okay”. Fine della questione. In cuor mio ho solo il timore che, comunque vada, mi pentirò della mia scelta. Gianka, ghigno alla Clint Eastwood, mi strizza l’occhio e parte. Giancarlo Bolis ha 70 anni: se Ivan è una farfalla Gianka è un rinoceronte da combattimento. Protestando in bergamasco si alza con malizia e mestiere da fuoriclasse. Questi due insieme hanno più del triplo dei miei anni, ma la distanza che ci separa è incalcolabile.

Nel passaggio chiave del primo tiro Gianka si ingarella a sbalzo protestando perchè non riesce a risolvere. Poi allunga una mano e si mette a ridere, si punta e finalmente si alza: “Biri, non riuscivo a trovare il modo di passare e sai cosa ho trovato? Quel figun lassù, oltre lo strapiombo, ha scavato nella terra una fessurina per le dita e si è tirato su!” Fantascienza pensare di riuscire a gestire di testa una cosa simile con i piedi sul marcio e dieci metri di corda alle spalle. Con il culo a terra me ne sto con il naso all’insù come una cintura bianca nel Dojo della Tradizione.

Giancarlo raggiunge Ivan e con un breve tiro intermedio sono alla base del diedro. Dove io ipotizzavo tre dispendiosi tiri ne hanno fatti solo due, se avessimo avuto le corde da 60 Ivan sarebbe arrivato diretto al diedro. “Devi farne di strada Birillo se vuoi vedere quanto è grande il mondo”. Canticchio…

Quando Ivan attacca il diedro mi tranquillizzo un po’. La roccia finalmente è buona, posso rilassarmi e studiare meglio i suoi movimenti. Si alza, si ferma, piazza un friend, lo rinforza con un secondo, poi disarrampica fino al friend precedente e lo recupera. Poi risale e ripete di nuovo il tutto. Sembra di guardare Al Pacino nel celebre discorso di “Ogni maledetta domenica”: i centimetri che gli servono sono ovunque e lui li raccoglie tutti per salire un centimetro alla volta. Il diedro è nel suo passaggio più strapiombante. Ivan incastrato d’anca, un braccio verticale sopra la testa, una gamba in asse a rana e l’altra in spaccata a controbilanciare, una mano all’imbrago per staccare un friend: “Qui sarà una bella faticaccia” sogghigna divertito.

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“Devi farne di strada Birillo se vuoi vedere quanto è grande il mondo”. Finalmente Ivan è in cima, accanto a quella grande roccia che dal basso mi sembrava la testa di un serpente o di un drago. Kundalini ha fatto ancora una volta la sua magia ed è scivolato tra le difficoltà con apparente semplicità. Gianka inizia a salire, la roccia è buona e quindi Ivan si prende il lusso di infastidirlo facendogli scherzi dall’alto. Nel cuore dello strapiombo però si ferma: “Ivan! Aspetta che devo mollare giù due scaglie. Biriz! Arriva qualcuno?” Io guardo il canale sgombro e do l’okay. Due bombe fiondano giù verticali verticali nel vuoto schiantandosi appena sopra l’attacco iniziale. Roccia sana con eccezioni…

Mi alzo sopra un pilastro che fronteggia la parete in modo da riuscire a parlargli: “Biriz! Se unisco le due corde posso recuperarti e provi il diedro! Dai dai! Non supera l’ottavo”. …anche no, grazie! Poi i due, nonostante qualche manovra decisamente alla moda vecchia, in un paio di doppie scendono finalmente a terra. Dalla base del diedro al prato sono esattamente 50 metri (fortunatamente!)

Questa è la terza volta che do forfait arrampicando con Ivan. Ovviamente ogni volta eravamo in tre o quattro e la situazione permetteva un call-out: purtroppo quando tocca ballare si balla e basta. Tuttavia, a differenza delle altre volte, sono quasi contento: oltre ad essermi evitato una buona dose di strizza ho potuto osservare uno spettacolo straordinario. A saperlo avrei portato la macchina fotografica con il teleobbiettivo, tuttavia spero che queste foto possano bastare per testimoniare qualcosa che sfiora l’arte.

Cimitero di Lumachine non è il nome della via, è una frase di Ivan quando salendo ha trovato una nicchia piena di gusci vuoti. Visto che in tre ore e mezza è stato salito in trad a vista da una coppia di ultra sessantenni credo che per rispetto tutto il torrione sia da considerarsi ora NoSpitZone.

Davide “Birillo” Valsecchi

Il giorno in cui Bonatti se ne andò

Il giorno in cui Bonatti se ne andò

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La mattina era cominciata in modo strano. Ero in largo anticipo ma, andando in stazione a Lecco per prendere Ivan, mi ero ricordato all’improvviso di aver lasciato a casa le scarpette. Gira la macchina, l’anticipo diventa ritardo ed inizia a salirmi uno strano nervosismo. L’unica serenità è una promessa del Guero: “Esplorazione su lunghe placche appoggiate di quarto”.

Quando Ivan sale in macchina la musica però cambia: “Oggi andiamo a cercare la Bonatti irripetuta alla Punta Stoppani”. Con Ivan stiamo aprendo molte vie insieme, mi piace il modo in cui stiamo esplorando senza costrizioni: una libertà che è la più affidabile delle sicurezze. Ma inseguire una Bonatti è tutta un’altra storia. Walter Bonatti aveva personalmente raccontato ad Ivan Guerini di quella sua prima via aperta in gioventù. Una via di quarto e quinto vecchio stile, il quinto di un Bonatti ventenne che presto sarebbe diventato uno dei più brillanti astri dell’alpinismo mondiale. Ivan cercava di rassicurami, “Se l’itinerario è davvero franato torniamo indietro”, ma ben sapevo che non avrebbe mai desistito. Forse avrei preferito evitare, ma sapevo quanto quella via fosse importante per Ivan e quanto Ivan sia importante per me. Nella vita quando attacca la musica puoi solo ballare, ballare e tenere il ritmo.

Qualche ora più tardi siamo con Giancarlo Bolis nel canalone Comera, ai piedi della Punta Stoppani, alla base della Bonatti. Ivan parte e si alza su uno zoccolo a rampa che porta all’imbocco di un camino. “Un chiodo! Un chiodo di Walter!” Il suo entusiasmo è dirompente, la sua felicità quasi indescrivibile. Si alza ancora e trova il chiodo successivo “Davide! Quando sali fotografali tutti questi chiodi! Sono una testimonianza straordinaria!” Poi s’infila e scompare nel camino: tutto quello che possiamo vedere sono i sassi che fischiano ascoltando i suoi commenti entusiasti “Che via! Che via!”.

I cinquanta metri delle mie mezze corde scorrono veloci fino ad esaurirsi costringendoci a rimontare lo zoccolo per dare lasco al Guero. “Sosta! Molla tutto!”. Parto io e dietro di me Gianka. Parto sereno ma un paio di prese dello zoccolo saltano richiamandomi all’ordine: poi entro in camino, spalle alla roccia mi addentro in un mondo strepitoso. Un camino stupendo!

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Trovo altri chiodi e una vecchia punta di ferro piantata orizzontalemente. Mi infilo in uno stretto passaggio osservando oltre il buio il sorriso raggiante di Ivan. Non dovrei ma un pensiero comunque sfugge alla mia prudente superstizione: “Se è tutta così è strepitosa”.

Alla sosta, fatta con un chiodo nuovo ed un paio di friend, l’entusiasmo si scontra con la realtà. La frana c’è e non è per nulla promettente. “Vado solo in perlustrazione” proclama Guero, ma passati i quindici metri di corda non ci sono dubbi: ci prova comunque. Io comincio a guardami in giro cercando qualche variante su roccia solida in cui scappare per proseguire, ma Ivan sta già attaccando lo strapiombo. I sassi cadono, rimbalzano nella cengia franosa e si tuffano nel vuoto fischiando sopra le nostre teste come tie-fighter di guerre stellari. “Tranquillo Biri, quelli non ci prendono.” Sogghigna Gianka.     

La corda ci racconta la storia di Ivan. Non ci sono segni di passaggio di Walter e deve piazzare due friend tra le scaglie, poi si alza raggiungendo una nicchia a spirale. “Un chiodo! Un chiodo ad anello!”. Ivan si alza ancora, rimonta qualcos’altro, ormai vedo solo l’estremità dei piedi e delle mani. Un raggio di sole, all’improvviso, irrompe nella nebbia e la via si riempie di luce in un’ondata di roccia brillante. Ivan si ferma, resta immobile, io e Gianca dubbiosi non capiamo perchè. Solo poi scopriremo che quello è il punto esatto in cui Ivan Guerini, nell’assoluta concentrazione della salita, è stato travolto dalla commozione e dai suoi ricordi di Walter Bonatti. Qualcosa che noi due in sosta afferriamo ma non potremmo mai percepire.

Finalmente il bombardamento di quelle che Ivan definisce “leggere scaglie” cessa e Sguero chiama la sosta. Parto io e mi alzo. Poi mi fermo agghiacciato sotto una nicchia: ”Gianka, vieni qui e vieni in fretta. Io sto qui immobile ma tu non hai idea di quello che hai sulla testa…” Il passaggio originale di Bonatti è lì, steso per terra come un branco di elefanti che attende di travolgere la foresta.

Dalla nicchia ci spostiamo nel cuore del passaggio fragile. Nel camino mi ero molto divertito, ma in quel punto ero di nuovo ai Corni, oppure sulla Panzeri al Pizzo d’Erna o al Pizzo d’Eghen, ero di nuovo senza appello al limite delle mie capacità: un misto di disarmante serenità e rassegnazione. Salgo, in spaccata, in incastro, in opposizione, mi stendo, mi allungo: posso solo spingere perchè non c’è nulla che sembra reggere il peso dei miei ottantaquattro chili. Leggero e fluido, quanto posso, arrivo alla prima cengia e aspetto Gianka per non mollargli nulla addosso. Il chiodo ad anello è nel centro di un cavatappi, la corda di Gianka scende verticale dall’alto.

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Proseguiamo raggiungendo il Guero su una sosta sportiva/vintage su uno spuntoncino. Io mi attacco con la lounge in una radicetta psicologica mentre Ivan riparte. Il canale è ora invaso dai detriti, i sassi hanno smesso di fischiare ed ora ci cioccano contro. Appoggio il casco alla roccia, incasso il collo nello zaino e cerco di proteggermi in viso con il braccio nascondendo il gomito e la mano. Ivan prosegue (ed Ivan non è uno che muove avventatamente sassi!) ma la nostra è ormai una severa punizione. Un bel plocco grosso centra Gianka ad una spalla ma fortunatamente il vecchiacchio ha la corteggia dura. Tutto quello che voglio è che Ivan faccia sosta e ci dia il via per toglierci da quell’imbuto sul vuoto.

La sosta era in stile “plocco incastrato” ma non vado per il sottile. Nella nebbia si sentono i primi rombi di un temporale che scende da nord. La sindrome dell’Eghen comincia a pressarmi: “Andiamocene”. Un ultimo tiro in un canale franoso, un passaggio sotto un arco di roccia e finalmente la croce! Finalmente la gioia vera!

Il temporale incalza ma la felicità sembra trattenerlo almeno un po’: Ivan e Gianka scherzano come due bambini, si spingono e rotolano sul sentiero. La tensione inizia finalmente a scemare mentre il temporale ci raggiunge nel canale Bobbio trasformandosi in grandine. Arriviamo alla funivia fradici ma nulla davvero importa più: è il momento di fare festa!

Più tardi riporto Ivan al treno e rientro finalmente a casa. Bruna non c’è, sarà fuori tutta sera ed è dispiaciuta di non poter festeggiare con me. Stendo il materiale bagnato per tutto il salotto e mi butto in doccia. Poi, aggirandomi solo per casa, non riesco ancora a darmi pace. Una Bonatti perduta ripetuta insieme a Guerini, per di più la mia prima Bonatti in assoluto! Devi per forza dirlo a qualcuno!! Scelgo a caso una foto e sul web aggiungo questa frase “Prima storica ripetizione della Bonatti alla Punta Stoppani: Ivan Guerini, Giancarlo Bolis, Davide Birillo Valsecchi. La mia prima Bonatti è un irripetuta da 67 anni: continuo a ridere, piangere e bere birra. Un viaggio terrificante e magnifico: testimone atterrito di due talenti assoluti dell’arrampicata nella sua forma più avventurosa e selvaggia. Demolito dalla fatica e dall’emozione.” Credo che “testimone atterrito” sia l’unica espressione possibile per chi ha avuto la sfacciata sfortuna di osservare un’irripetibile ed incontaminato parallelo tra Bonatti e Guerini.

Rassegnato a cenare con una pizza stavo prendendo la porta quando suona il cellulare. Un messaggio, Francesco Milani Capialbi, “Mi spiace ma è già stata relazionata è ripetuta addirittura in solitaria!” Il punto esclamativo finale sembra un’ostile dichiarazione di guerra ma ormai conosco il giovinetto. “Scienza” ai tempi della via Attilio Piacco aveva caricato me e Mattia a testa bassa salvo poi tornare sui propri passi. “Noi sbagliando siamo partiti tutti aggressivi, fraintendendo le tue intenzioni. Tu ci hai subito fatto cambiare atteggiamento…” mi aveva scritto poi e tanto era bastato questo per diventare amici, anche conoscendoci poco. Ora dovevo scoprire cosa intendesse senza trasformare qualcosa di prezioso come una Bonatti misconosciuta in una gazzarra da bar.

Piano piano sono finalmente arrivate un paio di foto ed un nome: Stefano Valsecchi.  Stefano è il figlio dello storico rifugista dell’Azzoni e attuale capanat del rifugio. L’ho conosciuto giusto un mese fa, insieme a Josef in una nebbiosa giornata di mezza estate: ricci scompigliati, occhi azzurri e mani grandi. Abbiamo bevuto insieme un paio di birre parlando a lungo del Pizzo d’Eghen e del Camino Cassin che aveva ripetuto con Marco Anghilleri. Mi era stato subito simpatico e il racconto di quel giorno si trova ancora tra gli articoli di Cima. Ero contento fosse lui, ma volevo sapere anche tutto il resto.

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“Sono andato su il 13 settembre 2011 e l’ho fatta… poi il giorno dopo ho scoperto che era morto Bonatti. Mi sono sentito quasi speciale ma all’epoca, quando ancora facevo alpinismo, preferivo tenere le cose per me, soprattutto se fatte al Resegone” Scienza mi ha poi confidato che senza punzecchiarlo Stefano non avrebbe mai tirato fuori la sua salita.

Sebbene divertito stentavo a credere a tutta questa storia, non certo alla salita di Stefano ma a come questa sia avvenuta in un giorno tanto particolare: una coincidenza assolutamente improbabile. Ma la questione è ancora più complessa. Settimane fa i Badgers hanno dovuto consolare uno dei suoi membri per la morte di un amica, una giovanissima mamma rapita repentinamente da una brutta malattia. Una serie di coincidenze accadute dopo quel lutto avevano spinto il nostro amico a confidarsi con noi dando vita ad un confronto molto intimista.

Ed ora questo: 13 settembre 2011. Io credo che ieri Ivan abbia chiuso un cerchio, intenso e bellissimo, con un amico, con un uomo e un alpinista tra i più straordinari. Forse anche Bonatti ha atteso che un ragazzo giovane, così come lo era lui all’epoca, ripetesse finalmente la sua prima via per chiudere il suo straordinario cerchio. Chissà, forse le mie sono solo le riflessioni leggere di chi è ancora travolto dall’emozione e dalla fatica, tuttavia c’è una frase di Bonatti che mi è sempre piaciuta (…e che probabilmente è l’esatto opposto di come Ivan considera la montagna): “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”. Il secondo tiro della Bonatti alla Punta Stoppani è inequivocabilmente una pericolosa pila di sassi, ma credo che tutta questa storia ne mostri il suo inestimabile valore.  

Davide “Birillo” Valsecchi

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Considerazioni:
“Ecco soprattutto ciò che intendo per avventura, nell’accezione più vasta e coinvolgente del termine. Scoprire se stessi è indubbiamente la più stimolante delle avventure, ma lo è ancor più se questa ricerca ha per sfondo la grande natura intatta, rimasta ancora fuori dalla portata di chi troppo spesso non sa, o non vuole, coglierne la preziosità.” Dagli appunti radiofonici di Walter Bonatti. Questa frase di certo piace molto anche ad Ivan.

Abbiamo inseguito i chiodi di Bonatti, immobili dal ‘49, spinti dal desiderio di esplorare tanto lo spazio quanto la storia. Una grande emozione che, genuinamente, abbiamo voluto condividere e conservare. Pensavamo di essere i primi, niente sembrava indicare il contrario, e solo dopo abbiamo scoperto che, prima di noi, era passato Stefano ed ancor prima Luigi! Una condivisione ed una scoperta che non ha sminuito la nostra salita ma che, anzi, ha impreziosito ed arricchito un’esperienza comune. Una Bonatti intatta non deve e non può diventare un feticcio da esibire, credo quindi che sia molto importante che questo itinerario, così come quelli vicini del Boga e di Rossi, conservino questa loro “natura intatta”, senza che fittoni, fix o spit ne deturpino lo spirito e la testimonianza.

Ivan, con i suoi tempi, pubblicherà una relazione più tecnica e puntuale della via con lo scopo di non perderne la memoria. Io posso solo dirvi che la seconda parte della via è decisamente pericolosa ed impegnativa, anche per chi ha buona esperienza di detriti e roccia instabile (…mi raccomando, sarebbe un grave errore cercare gloria caricandola a testa bassa). Se qualcuno, come Stefano o Luigi, ha una propria storia da raccontare si faccia avanti: sarà un piacere ascoltarlo =)

Achtung Lodovico!!

Achtung Lodovico!!

dscf5395-001“Lodovico, sei dolce come un fico…” Renato Chabod e Giusto Gervasutti inseguono Armand Charlet e Fernand Belin sulla Nord delle Jorasses mentre io aspetto Sguero alla Stazione di Lecco. Il racconto di quel loro “tentativo” del ‘35 è ormai un’avventura a puntate che prosegue ad ogni attesa sul piazzale dei Bus. Renato e Giusto stanno ritirandosi dopo che anche Charlet è tornato sui suoi passi: in parete restano solo Meier e Peters ma, purtroppo, la gloria costerà loro un prezzo altissimo.

Mi piace come scrive Chabod, e mi piace l’umorismo con cui descrive la sua difficile e fortunata condizione di secondo di cordata con un “fortissimo”. La storia la fanno i Primi di cordata, ma è ai Secondi che tocca raccontarla, spesso vivendola scomodamente incastrati tra “l’incudine ed il martello” del loro ruolo. Un giorno qualche saggio, distraendosi dalle mirabolanti acrobazie di chi sta davanti, spenderà qualche parola anche sui Secondi, su quello che gli frulla nella pancia e nella testa, su quello che serve per essere validi nella propria trincea a metà strada tra il fronte e le retrovie. Ma ecco il mio primo di cordata farsi strada tra la gente con il suo consueto sorriso. Butto il libro sul sedile di dietro ed apro la portiera: “Buongiorno Sguero! Si va?”

Tecnicamente questa è una giornata di relax: arrampicando quasi ogni due giorni serve darsi il giusto ritmo, non sovraccaricarsi tanto fisicamente quanto mentalmente. Per questo abbiamo scelto uno tra i luoghi più miti ed accoglienti del nostro territorio “quasi dolomitico”: una zona piacevolmente ricca di verde, di animali, pozze alpine e grandi pareti in buona parte inesplorate. C’è un immenso universo roccioso da esplorare sebbene la maggior parte della gente curiosamente creda che non vi sia niente su cui arrampicare: un posto davvero bello, tanto bello che non ho intenzione (per ora) di darvi alcuna indicazione in merito! Chi riesce a capirlo mia sia divertito complice nel salvaguardarne il segreto 😉

dscf5354Se l’ambiente circostante è tutt’altro che opprimente le linee di salita sono tutt’altro che banali. Su una di queste strutture rocciose proviamo a tracciare una “normale” dapprima rimontando alcuni gradoni e poi puntando ad una spaccatura in piena parete. Il primo tiro diventa quindi una curiosa commistione di passaggi di bouldering e cenge erbose. Si stendono quasi tutti e 60 i metri di corda ed un passaggio, quello tra le due “corna” finali, si rivela piuttosto impegnativo. I camosci, più pragmatici degli arrampicatori, hanno però aggirato queste roccette iniziali tracciando sulla cengia un camminamento che, scopriremo poi, si snoda nelle zone più irraggiungibili della struttura rocciosa creando un periplo decisamente ardito quanto sagace.

Le dita, sulla roccia umida ed in ombra, assaporano il primo assaggio del freddo autunnale: “Bagai è tornato il freddo!”. La sosta del primo tiro è un’accoppiata tra due micro clessidre ed un valido chiodo a lama. Sguero riparte dritto per dritto puntando ad una spaccatura che piega verso destra. La parte superiore della spaccatura è crollata lasciando grossi detriti al suo interno. Sguero deve sgusciare sotto le roccie rotte evitando di far precipitare più in basso quelle già cadute: un bel passaggio di contorsionismo spacca-vestiti. Superata la spaccatura si infila in una specie di delicato diedro che lo porta verso l’uscita.

Quando è il mio turno tocca darsi da fare. La corda deve restare lasca per non stuzzicare la roccia “indecisa” ed al contempo, per orgoglio, devo riuscire a passare senza far cadere i sassi risparmiati da Sguero. Speravo di risolverla con un esosa dülfer sul vuoto ma raggiungere la maniglia non è facile come sperassi (anzi!). Quindi ripiego sul contorsionismo “spacca-vestiti”: i sassi però non si son mossi!

Giunti in cima siamo nuovamente sui prati, ci cambiamo le scarpe, insacchiamo la corda, e ridiscendiamo sereni verso la base della struttura. “Abbiamo ancora tempo: andiamo a curiosare più in là?” Ci spostiamo verso destra e troviamo un canale roccioso da cui si intravvede un bel diedro d’uscita. C’è un sacco di materiale franato ma il lato destro sembra solido. Guero parte e mi racconta: “Sembra di essere sulle vecchie vie dei Maniagni: roccia marmorizzata coperta di detriti. Davvero bello!” Lo osservo risalire distendendo quasi trenta metri di corda libera “Se non metti chiodi è quasi impossibile proteggersi qui”. La mente corre ai Maniaghi ed ai tempi delle grandi esplorazioni, alle reali difficoltà affrontate da quei pionieri e forse oggi dimenticate. Guero avanza con la solita cautela ma la parete, complice la corda, molla verso il basso sassi ogni tipo: la famosa mitraglia? Rimbalzano sulla parete e vanno in pezzi in ogni direzione: fortunatamente è roba piccola e sono agile nello schivare, ma non deve essere stata una banalità affrontare una cosa simile all’inzio del secolo scorso con un cappellaccio di feltro sulla testa. Corda dall’alto salgo abbastanza agevolmente anche se qualche passaggio, senza prese salde su calcale levigato, qualche dubbio me lo lascia (Sti cazzi, alla faccia dei Maniaghi!!).

dscf5412In sosta ritroviamo la traccia del “periplo del camoscio”. I quadrupedi hanno avuto un istinto eccezionale nel tracciare una linea “normale” assolutamente aerea ma capace di guadagnare la cima vincendo a spirale le difficoltà senza mai affrontarle direttamente. La nostra esplorazione è però tentata tanto dall’etica quanto dall’estetica e così Sguero attacca in dulfer la grande fessura/diedro. Il cuore della fessura è un misto di fango e sassi incastrati, “Il festival dell’orrido”, ma Guero sale facile aprendosi poi in spaccata per affrontare l’uscita. Al termine della fessura la roccia torna a farsi fragile ed incerta: come faccia il Guero a riposizionarsi da uno spaccata simile è materia per me ancora misteriosa. Scomapare poi lungo lo spigolo e, un bel po’ di corda dopo, lo sento chiamarmi la sosta.

dscf5415La spaccatura in Dulfer è uno spettacolo orribile, una specie di “Zombie della Luna Nascente”, ma l’uscita è un’altra storia. Provo a spaccare come il Guero: “Bene, è adesso? Come esco da sta posizione?” Non c’è nulla di solido a cui attaccarsi per “estrarsi” dal quell’incastro ed il corpo è ancora troppo sbilanciato verso destra dalla parte strapiombante. Mi viene in mente una vignetta di quelle che girano su internet: “Bill non fa spaccate che non può chiudere. Bill arrampica sulle proprie misure, nei propri limiti. Bill è intelligente. Sii come Bill”.

In spaccata non la risolvo e se la corda si tira di botto (ossia cado) non ho idea di cosa mi possa piombare sulla testa. No, devo cambiare strategia. Sempre a gambe larghe mi nascondo nuovamente sotto lo strapiombo e cerco di infilare il braccio quanto più possibile dentro la fessura. Sento la mano scivolare tra i sassi ed il fango mentre il braccio si torce affondando nell’oscurità. Mi sento come uno di quei veterinari che infilano il braccio nelle vacche per inseminarle! “Bhe, Birillo, poteva andarti peggio: potevi essere quello che munge il toro!” Con il braccio sinistro saldo nel “buco della vacca” giro i fianchi e chiudo la spaccata, riavvicino i piedi, lancio il destro oltre lo strapiombo e scalcio in una lolotte che sembra un ushiro geri. Una battuta di Josef risuona nella testa strappandomi un sorriso mentre sbuffo sotto sforzo: “Non ci sono più gli uomini di una volta, a sbalzo fuori in parete, oggi tutti di traverso in lolotte come signorine”.

Oltre il diedro è un’avventura fragile che culmina su dell’erba fradicia all’ingresso di una grotta. Orribile …ma anche un po’ magnifico. Nuovamente sulla cima ci sediamo a sistemare il materiale. La struttura rocciosa è estremente carsica e, nonostante la vegetazione, sembra voler inghiottire un piede del Guero che si ritrova scalzo con la scarpa ostaggio della montagna. “Guero come accidenti fai ad infilarti nello stesso buco tre volte di fila?! Recupera la scarpa!” Cosa volete farci, lui se la ride!

“Belle! Due vie severe, quattro tiri densi di passaggi interessanti: mi sono davvero piaciute”. L’ambiente mite che ci circorda sembra cancellare ogni difficoltà così come il ricordo del pericolo affrontato, lasciando solo il piacere dell’esplorazione e della compagnia. Io e Guero stiamo lentamente prendendo il ritmo allineandoci sulle rispettive capacità ed esigenze: ci stiamo proprio divertendo!! “Sai Davide, le persone continuano a ripetere in modo meccanico ed asettico le cose fatte e rifatte senza rendersi conto che la dimensione ignota spesso attende ad un metro dal sentiero.” Probabilmente è stata questa comune esigenza la scintilla che ci ha reso tanto amici, allontandoci da ogni confronto, costrizione o forzatura.

Davide “Birillo” Valsecchi

La Cresta del Sardanapalo

La Cresta del Sardanapalo

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Sguero se ne sta seduto dietro la sua birra rossa ed agita le mani davanti alla faccia di Gianka scimmiottando improbabili mosse di Karate, con tanto di imbarazzanti effetti sonori: la scenetta sarebbe anche divertente se non avessimo addosso l’attenzione di tutto il bar. “Gianka, io Ivan lo conosco da quattro anni: tu come hai fatto a sopportarlo per quaranta?” Giancarlo Bolis appoggia la sua birretta, piega la testa verso di me e sfodera un mezzo sorriso compiaciuto sull’angolo della bocca, un ghigno degno del migliore dei Clint Eastwood: “Io l’Ivan l’ho conosciuto che era giovane, quella volta con me stava abbottonato”.

Ivan mi ha raccontato spesso del suo primo incontro con Giancarlo. Una storia densa di dettagli che forse proprio Ivan dovrebbe raccontarvi nel dettaglio. Tuttavia, per sommi capi, posso farvene un riassunto.

Ivan, all’epoca era un giovanissimo arrampicatore alle prime armi ed aveva attaccato in inverno con Antonio Goi, suo compagno delle scuole medie, la Taveggia alle Corna di Medale.  La parete di 400 metri allora era in condizioni d’attrezzatura molto diverse da come lo conosciamo oggi. Sua mamma, entusiasta sostenitrice delle sue gesta esordienti, lo aspettava all’allora rifugio Medale. Il giovane Antonio in serata doveva essere di ritorno a Milano per recarsi il giorno successivo prima a scuola e poi al lavoro. Al tramonto i due non erano però ancora usciti dalla via e la mamma di Ivan si rivolse a due alpinisti che scendevano dalla cima del Medale con le corde in spalla: Ermenegildo Arcelli e Giancarlo Bolis. I due, vedendo la tangibile preoccupazione della signora, tornarono senza esitazione in cima al Medale per poi calarsi con decisione fulminea verso i due ragazzi, ormai al buio lungo l’ultimo tiro della via. Ivan, trovandosi davanti Arcelli all’improvviso, si trovò spiazzato e a nulla valse spiegargli che il poco materiale a disposizione, la fatica e l’inesperienza li avevano fatti parecchio ritardare. Ivan avrebbe voluto terminare l’itinerario nonostante il buio ma non ci fù nulla da fare: dovette cedere alla furia bergamasca di Arcelli che lo legò da secondo recuperandolo con poderosi strattoni in pochi minuti fino al canalino d’uscita, senza che avesse nemmeno il tempo di protestare. All’ultima sosta conobbe Giancarlo Bolis che divertito gli faceva l’occhiolino cercando di sdrammatizzare e rincuorare i due ragazzi.

Si sono incontrati appesi al vuoto nel buio, ed eccoli ancora qui, quarant’anni dopo, a scherzare bevendo birra dopo aver aperto una nuova via. “Vedi l’Ivan non è più quello di un tempo” mi dice ogni tanto Giancarlo. Poi sogghigna “…ma forti come lui ce ne sono in giro ancora pochi”.

Ma torniamo alla via di ieri: gli oltre mille metri di dislivello per raggiungere l’attacco dovevano essere la principale difficoltà per una nuova via di cresta. “Biriz, due tiri di quarto e poi spiana…”. In realtà i tiri sono diventati cinque, un “sali, scendi e traversa” tra le guglie. La cresta, prevedibilmente, ha spianato giusto l’ultimo metro. Una via logica, mai forzata, di ispirazione classica ma tutt’altro che banale.dscf5221

Durante la salita Gianka e Sguero riflettevano sui passaggi paragonandoli a questa o a quella via in Dolomiti (a me ovviamente sconosociuta). Loro erano completamente a proprio agio mentre io dovevo “far ballare l’occhio” per riuscire a stargli dietro. Quattro anni fa vi avrei detto che quello era un “inferno di cristallo”, uno spaventoso tripudio di roccia instabile. Questo in parte è ancora vero, tuttavia la mia esperienza è completamente diversa ed ora non mi sembra più follia sentire dire cose del tipo “Guarda che bella roccia solida!” mentre trattengo il fiato tra i passaggi

Una cresta, spazzata dagli elementi da tutti i lati, inevitabilmente ha una compattezza e solidità abbastanza precaria: se non avete mai sperimentato una via assolutamente inedita tra le guglie difficilmente riuscirete a comprendere l’incredibile quantità di roccia instabile che dovrete affrontare. Tuttavia, con la giusta esperienza, si impara a muoversi in sicurezza anche in uno scenario simile, anzi, si inizia ad apprezzarne gli aspetti compatti ignorando istintivamente tutto ciò che va assolutamente evitato. Non solo scegli con un’attenzione diversa cosa “toccare” ma i movimenti stessi si trasformano: i quattro classici punti d’appoggio si moltiplicano mentre “scarichi” il peso frammentandolo ed annullandolo. Una presa di dita si estende sul palmo, sull’avambraccio, diventa una torsione di tutto il corpo allungandosi fino al polpaccio che spinge lateralmente sulla roccia senza sbilanciare l’appoggio della punta del piede. Non sei attaccato alla roccia: la tieni insieme ascoltandone la resistenza. Per quanto mi riguarda il problema non è più “tenersi” ma capire quanto la roccia “ti tiene”: tanto nella posizione statica quanto, e soprattutto, nella transizione dinamica.

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A volte la tentazione di appendersi ad una bella presa solida e “rasparsi su” è molto forte, ma non è mai possibile “tirare” perdendo, anche solo in parte, il controllo del movimento: si rischia di mollar giù qualcosa oppure, ancor peggio, si può avere l’istinto di “sbracciare” o “scalciare” tirandosi addosso qualcosa di grosso. Non c’è possibilità di scelta: devi “esserci” in ogni lento e snervante gesto. Un tipo di arrampicata che consuma a profusione tanto energie fisiche quanto mentali. D’altro canto tutto questo permette di sperimentare tutta l’intensa bellezza dell’arrampicata libera nella sua accezione originale (…ed è un vero e proprio viaggio fuori dal mondo!). Ammettiamolo: quando ti capita mai una “prima” su 200 metri di cresta inaccessa sulle cime delle montagne di casa?

Spesso mi chiedono dove siano queste nuove vie aperte con Sguero: purtroppo al momento è un segreto, una piccola tutela. Ivan, dopo il libro sulla Val Grande e quello più recente sulla Val di Mello, sta lavorando su due nuove pubblicazioni dedicate all’attività esplorativa che ha condotto in questi anni. Ha recentemente imparato a realizzare eBook con il preciso scopo di avvalersi di uno strumento economico ma completo per affrontare gli argomenti a cui tiene di più. Quindi sarà lui a descriverle nel dettaglio, fornendo al contempo tutti gli spunti di riflessione necessari per affrontare consapevolmente questo tipo di arrampicata oggi sempre meno diffuso. Ad Ivan non interessano le pubblicazioni catalogo, le guide censimento: nei suoi scritti c’è molto altro da scoprire.

Davide “Birillo” Valsecchi

Errata Corrige: la volta scorsa Ivan non imitava Gigi CheSbatta con la voce del Gerry, ma con la voce di Simone Servida imitava Gigi CheSbata che faceva arrabbiare il Gerry (Ivan mi ha abbondantemente stressato per questa puntualizzazione!!)

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