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Hemingway, Babati e gli ippopotami

Hemingway, Babati e gli ippopotami

Monte Hanang dal lago Babati
Monte Hanang dal lago Babati

Mentre per il trasloco impacchettavo  i libri  mi è capitata in mano una vecchia edizione di “Verdi Colline d’Africa”. Il libro, stampato nel 1972, reca sulla copertina il nostalgico costo di Lire 700. Inevitabilmente ho cominciato a leggere qualche pagina a caso:

“Non mi piace fare domande, e sono cresciuto in un ambiente in cui non è educato farne. Ma erano due settimane che non si vedeva un bianco, da quando avevamo lasciato Babati per il sud, e intopparne uno su quella strada dove si incontrava solo qualche mercante indiano era una cosa davvero straordinaria.”

Babati? Sentire Hemingway nominare quel nome mi fece ricordare qualcosa. Poi nella mia mente presero forma le immagini: come potevo dimenticare Babati!!

Già perchè Babati è una piccola cittadina, poco più che un villaggio per i nostri standard, nel cuore delle Tanzania. Io ed Enzo ci siamo stati all’inizio del 2010 dopo le nostre peregrinazioni nel Tanganica. Arrivammo a Babati in pullman lungo la strada in terra battuta che proveniva da Kondoa dove avevamo speso alcuni giorni fotografando le pitture rupestri. Era giorno di mercato e la strada era affollata di gente che portava frutta ed altre mercanzie al mercato in riva al piccolo ed omonimo lago.

Cosa ci aveva portato sulle tracce di Hemingway? Beh, presto detto: gli ippopotami. Io volevo assolutamente vedere i grandi “cavalli d’acqua” e così Enzo accettò di fare una piccola sosta lungo la strada per Katesh ed il monte Hanang.
Per due giorni il tempo incerto funestava le nostre giornate mentre ci spingevamo nei canneti a bordo di una piccola piroga per scorgere e fotografare gli ippopotami. Il periodo era il peggiore perché, oltre al cattivo tempo, le femmine potevano diventare particolarmente aggressive per proteggere i giovani cuccioli.

Sentir “ruggire” un ippopotamo fa una certa impressione così come ascoltarlo mentre sbuffa e si agita tra il fitto della vegetazione che cresce sull’acqua del lago. Alla fine siamo riusciti a scorgerli con mia grande soddisfazione.

Verdi colline d’Africa è un libro speciale: “…a differenza di quanto avviene solitamente nei romanzi, nessuno tra i personaggi e i principali avvenimenti contenuti in questo libro è immaginario. L’autore ha cercato di scrivere un libro completamente vero per vedere se il profilo di una ragione e l’esempio di un mese di vita descritti con fedeltà possano competere con un opera di fantasia.”

E’ uno dei primi diari di viaggio, un genere narrativo nuovo e che rivive un po’ anche nei racconti delle spedizioni e delle iniziative realizzate da me ed Enzo. Inevitabilmente ci troviamo a ripercorrere, con molta umiltà, le orme di grandi scrittori e famosi avventurieri raccontando, sempre con molta umiltà, anche la nostra piccola storia.

Tuttavia, contrariamente ai grandi del passato, noi abbiamo il grande privilegio di raccontarvela quasi dal vivo giorno per giorno: Tanzania River Horse: 19 Aprile 2010

Davide “Birillo” Valsecchi

River Horse

River Horse

Ippopotami
Ippopotami

Due giorni fa eravamo a zonzo sulle colline di Kolo. I locali dicono che siano infestate dalle iene ma noi, fortunatamente o aimhè, non ne abbiamo vista nessuna. Oggi invece eravamo sul lago Babati che, zanzare apparte, si è  dimostrato un posto magnifico. Il lago non è molto grande ma oltre a cormorani, acquile urlatrici ed un infinità di altri colorati uccelli, offre la possibilità di incontrare uno dei miei animali preferiti: l’ippopotamo.

Non so bene perchè “Ippo” mi piaccia tanto. Forse perchè, nonostante l’aria pacioccona, è uno sciupafemmine poligamo che passa il tempo a “spezzare in due” i coccodrilli. Sì, un tipo decisamente interessante!!

Apparte questo in molti credono che l’ippopotamo sia un animale aggressivo e pericoloso. Questo è vero solo in parte. Per la maggior parte dell’anno in realtà è un animale pacifico e tranquillo che si può facilmente avvicinare. Tuttavia è estremamente protettivo nei confronti dei cuccioli e riesce ad essere davvero violento nel tutelarli. Nel periodo in cui ha i piccoli conviene decisamente stargli alla larga. Ovviamente noi siamo arrivati a Babati nel pieno di questo periodo!!

Ma, necessità virtù, abbiamo trovato lo stesso una piccola e scassata canoa e, in compagnia di George il pescatore, ci siamo addentrati tra i canneti del lago. Quello che non mi aspettavo è che “Ippo” facesse un simile fracasso: soffia, sbuffa, muggisce e quando si muove sembra di sentire Godzilla che avanza.

Un paio di volte ci siamo avvicinati a mamma ipopotamo più del dovuto: era ancora nascosta nel fitto dei rami quando ha cominciato a “ruggire” in modo inquietante scuotendo le canne come un mostro preistorico. Abbiamo cominciato a pagaiare tra le alghe quasi da olimpionici!!

Anche se con qualche brivido e difficoltà mi ha fatto molto piacere vedere, finalmente dal vivo, questo gigante dalle zampe corte e le orecchie a sventola.

Domani ci spostiamo nuovamente fino al villaggio di Katesh, alle pendici del Monte Hanang. Ci vorranno un paio di ore di pulmino ma avremmo i due giorni successivi a disposizione per organizzare la salita. Dal lago Babati si vedeva in lontananza la montagna e mi è sembrata molto bella: un vulcano inattivo di 3417 metri che si alza tra le colline e la pianura.

Prima di chiudere vorrei però riportate qui per Voi un passaggio sugli ippopotami di uno dei miei autori preferiti: Alexander Lake. Eccovi la storia di uno tra i più strani ippopotami che sia andato a spasso per l’Africa.

I primi esploratori africani, come Livingstone, Stanley, Speke, Du Chailly, Burton, Grant e Baker descrissero l’ippopotamo come un animale feroce ed aggressivo. Non solo essi non conoscevano l’indole di questo animale ma mostrarono di credere a tutte le atrocità che gli indigeni raccontano a proposito dell’ippopotamo. Peggio ancora le narrarono come storie autentiche… Il più famoso tra gli ippopotami erranti fu Hubert, un ippopotamo di tre tonnellate, che al principio del 1940, si scosse dai piedi il fango della sua nativa palude nello Swaziland e partì per andare a scoprire le meraviglie del Sud Africa. Per più di trenta mesi Hubert sconvolse le teorie degli zoologi e degli scienziati, compiendo la travesata del Transvaal e del Natal, alla media di un miglio al giorno, e viaggiando sempre su strade di grande comunicazione o su quelle secondarie. Percorse più di mille miglia, visitando i villaggi, i kraal, le fattorie e le città. La maggior parte dei giornali d’Africa e d’Europa seguirono giorno per giorno la sua impresa. Poichè avvenne di frequente che le piogge cadessero poco dopo il suo passaggio in un dato distretto, i Kaffir incominciarono ad adorarlo come il Dio della Pioggia. Perfino alcuni bianchi lo adorarono. Fu un viaggio trionfale. Nelle fattorie e nei villaggi accoglievano il grande “cavallo di fiume” con mucchi di squisiti cavoli, di sedani e canne da zucchero. Quando non si era provveduto in tempo al suo pasto andava nei campi e, facendo uso dei suoi enormi denti, si procurava il cibo da se. Gli piaceva stare in compagnia della gente ma mostrava scarso interesse per le automobili. Sembrava che avesse uno spirito religioso perchè sostava sui sagrati delle chiese più a lungo che in qualsiasi altro posto. Per tre giorni si sentì a cosa sua in un monastero buddista e se ne andò soltanto dopo aver mangiato la maggior parte dei fiori e dei firgulti che c’erano nel giardino. Ogni tanto passava una giornata nei templi indù. Presso Johannesburg, a circa duecento miglia dallo Swaziland, Hubert prese bruscamente la direzione sud-est e si diresse verso Durban. La città organizzò un accoglienza trionfale per l’arrivo di Hubert, ma questi si fermò alla periferia della città per partecipare ad un banchetto a base di canna da zucchero. Benchè fosse stato proclamato “protettore della Provincia del Natal” e gli fosse stata accordata la protezione della polizia, sfuggì all’accoglienza popolare girando al largo ed entrando nella città da Parco Vittoria. Là consumò un pasto a base di fiori esotici prima di imboccare la West Street. Si servì senza complimenti di guiave e di nespole del Giappone quando passò davanti alle bancarelle della frutta, e sostò a lungo davanti ad un cinema guardando con interesse un manifesto che rappresentava Judy Garland. Mentre masticava un cavolo, alzo il grosso muso e annusò l’aria. Acqua! Lasciandosi cadere di bocca pezzi di foglie di cavolo si precipitò verso il serbatoio della città e prese un bagno. Per farlo uscire fu necessario adescarlo con carote, sedano e fieno. Stufo della gente che cercava di grattargli il dorso uscì dalla città dirigendosi vesto East London. Aveva percorso duecentoventicinque miglia e se ne stava un pomeriggio nel bel mezzo della strada rimirando dei fiori rosso vivo quando una canaglia d’un bianco lo uccise con una fucilata. Gli indigeni dicono che l’assassino fosse un contadino boero ma la polizia non fu mai in grado di accertarlo. Nel 1953 una statua di Hubert fu innalzata nel Parco Vittoria dai cittadini di Durban

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