Il Sabato i quasi ottanta operai che lavorano nel cantiere tornarono verso casa e nella struttura rimanemmo solo noi sette europei e quindici ascari, le guardie locali. Sembrava una serata qualsiasi ed avevamo da poco finito cena quando il capo cantiere, che era in città, chiamò il capo squadra con una scomoda novità. C’era in giro la voce che quella notte sarebbero venuti a far razia nel cantiere con la compiacenza di alcune delle guardie: “…qualcuno degli ascari è con voi non so di quanti possiate fidarvi. Fate attenzione: senza fare gli eroi tenete gli occhi aperti”.
Il cantiere ospitava cinquanta bungalow e sette ville super lusso ormai quasi complete ed ammobiliate di elettrodomesti e condizionatori: una struttura imponente nel cuore dell’Africa a ridosso dell’Oceano Indiano.
L’area era vasta ed attraversata da piccoli vialetti immersi in un rigoglioso giradino esotico. I giardinieri non avevano ancora cominciato a potare le piante e nemmeno gli elettricisti avevano concluso l’istallazione delle luci: quei vialetti erano una dannata giungla buia a ridosso del muro di cinta verso la shamba, la campagna.
Andammo nel complesso principale ed accendemmo tutte le luci, salimmo sui tetti e puntammo alcuni fari nelle zone più buie ma, camminando lungo il perimetro, ci si rendeva conto di quanto fosse indifendibile quel posto senza le cancellate ed i fari di sicurezza che ancora dovevano essere installati. In quelle condizioni se una decina di uomini avesse deciso di entrare con un camion sfruttando l’appoggio delle guardie sarebbe stato impossibile impedirgli di portarsi via tutto.
Non mi andava di ritrovarmi ai ferri corti senza niente in mano e così tornai al cassone del rottame. Nel pomeriggio avevamo tagliato con il plasma una piastra da 3 millimetri sagomandola con una figura simile alla “donna blue” di Matisse. Uno degli scarti della sagoma mi aveva colpito per la sua forma allungata. Mi infilai i guanti di pelle e dopo una breve ricerca “impugnavo” di nuovo quel pezzo di metallo: un’ellissi allungata ed appuntita seguita da un sottile manico. Con una corda di nailon irrobustii l’impugnatura e fui soddisfatto del risultato.
La lama era frastagliata ma non aveva filo, era lunga circa cinquanta centimetri e terminava in una punta molto aguzza. Lo spessore la rendeva solida e l’impugnatura di una spanna rendeva facile afferrarla con una o due mani. Era artigianale ed improvvista ma era una buona arma. La arrotolai in una maglietta e me la misi sotto braccio. Sapevo che, per quanto buona, era solo una “piuma di pavone” e che la nostra unica concreta possibilità fosse far capire agli ascari corrotti che avevamo mangiato la foglia e che per quanto impreparati avremmo vigilato tutta la notte.
Al mio socio piacque il mio machete improvvisato ma, non trovando nulla di meglio, dovette accontentarsi di un semplice bastone di legno trovato nel laboratorio del carpentiere. Ci dividemmo in gruppi da due controllando i vari edifici e percorrendo in lungo ed in largo la struttura. Gli ascari erano sempre in giro e capirono che qualcosa di strano stava succedendo quella notte: noi guardavamo loro e loro guardavano noi. Quando nel buio dei vialetti ci incontravamo gridavo “Poa”, tutto bene, e loro facevano lo stesso dopo avermi riconsciuto. Era una strana situazione, nessuno si fidava più di nessuno ed ogni rumore ed ombra nella notte erano un buon motivo per trattenere il fiato.
Il carpentiere moldavo alla fine prese la pazienza ed affrontò il problema di petto. Si piazzo davanti all’ascari che dormiva sotto la mensa cucina e gli chiese duro, diritto negli occhi: “Dove è il problema questa notte?” L’ascari faceva finta di non capire, di non sapere ma il moldavo lo pressava: “Bungalow o ville? Dove?” L’ascari si ammutolì abbasando la testa. Il moldavo si convinse che non sapesse nulla e si voltò per continuare il suo giro. Fu quell’attimo che l’ascari sussurò “Bungalow” ed un brivido corse sulla schiena di noi tutti.
Avevamo deciso di montare la guardia tutta la notte e ci davamo il cambio rientrando in stanza per riposare un oretta. Io mi stesi sul letto e chiusi gli occhi. Ognuno di noi aveva sulle spalle una dura giornata di lavoro e dormire era ciò che avremmo sperato per la notte prima di quella telefonata.
Precipitai nel buio. Ero in un’albergo di montagna, uno di lusso. Eravamo nella Hall ed ero seduto ad un tavolino su di una poltrona di pelle. Davanti a me c’era un tipo biondo, occhi azzurri, aveva la mia stessa età ed altezza. Aveva i capelli un po’ lunghi ma ben curati e lo sguardo tagliente. Ben vestito aveva un grosso orologio in acciaio al polso. Io indossavo un hip-hop in plastica anni 80 che mi aveva prestato Bruna per tenere il tempo quando uscivo a nuotare in mare. Il tipo mi era già antipatico ancor prima di scoprire che era il nuovo fidanzato della mia ex.
Cominciò a raccontarmi che era il titolare di una piccola ma arrembate società di consulenza informatica e si mise a snocciolare i nomi dei prestigiosi clienti per cui lavorava quando al mio fianco apparve il padre della mia ex. Il vecchio era un tipo simpatico, eravamo molto amici anche se erano ormai anni che non ci vedavamo. Sorrideva ed aveva stampato sul viso un’espressione che letteralmente diceva: “…bhe, vedi, lui è un’altra cosa…”. Il biondo cominciava ad irritarmi seriamente.
Pensavo di essere al limite della sopportazione quando al tavolo si sedettero mio padre ed il padre di Bruna con il suo cappello da cow-boy e la sua passione per il Far-West. Il biondo cominciò a raccontare della sua collezione di Tex Willer anni ’60 e della sua ultima battuta di pesca in Canada in compagnia di un suo grosso cliente. Mio padre lo ascoltava interessato ed il padre di Bruna gli assestava compiatute pacche sulle spalle.
Ero furioso, il mio odio per il biondo era palpabile come il mio silenzio. Il peggio doveva ancora venire. Mi voltai e vidi Bruna e la mia ex camminare verso di noi chiacchierando tra loro come vecchie amiche: erano bellissime.Era la prima volta che vedevo insieme mia moglie e la mia ex-moglie e restai sorpreso da quanto onestamente volessi bene a quelle due donne. Per un attimo fui felice, almeno fino a quando il biondo, aggiustandosi la giacca, non si alzò in piedi per accoglierle sfoderando il suo sorriso migliore arrogantemente sicuro di essere il maschio Alpha tra noi due.
Era troppo, non ero più lì. Ero nella cucina dei miei, in compagnia di mia madre e guardavo fuori dalla finestra la nebbiolina di novembre che si alzava dalla valle del Lambro. Lei sapeva darmi una grande calma. In ogni mio viaggio più mi allontanavo da casa e più spesso la rivedevo, più profodamente riemergeva dai miei ricordi. Rivederla era sempre terribile e magnifico. Mi guardò e mi disse: “Perchè ti dai il tormento?”.
Nei miei pantaloni cominciò a vibrare silenzioso il cellulare. Era la sveglia. Ero di nuovo in Africa, completamente vestito nella mia branda con lo scarto di un Matisse come arma. Ero sveglio ed era di nuovo il mio turno. Era il mio momento di tornare tra le tenebre a caccia di fantasmi.
Davide “Birillo” Valsecchi