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Lettera ad un Amico in partenza

Lettera ad un Amico in partenza

Foto scattata da Enzo Santambrogio in Brimania
Foto scattata da Enzo Santambrogio in Birmania

Guidando verso casa, ripensando a quanto ci siamo detti, ho cominciato a riflettere su come rispondere alle tante lettere che mi hai mandato. Quei fogli, scritti a mano e condensati di emozioni, ricordano le lettere che scrivevo al mio maestro ormai anni or sono: finalmente riesco a capire quali fossero i suoi pensieri nel leggerle.

C’è qualcosa di strano nel nostro essere, nell’inquietudine che ci accomuna e ci conduce spesso sullo stesso sentiero. Nei nostri occhi e nei nostri errori brilla una forza, una furia trascinante. Siamo consapevoli, spaventati ma allo stesso tempo tentati ed attratti della distruzione e dal potere che tale forza può offrire.

Non vi è molta differenza tra quello che tu sei ora e quello che avrei potuto essere io allora: solo il destino e la fortuna ci ha portato lungo strade diverse ed è la consapevolezza di questo che mi aiuta a comprenderti, a vedere in te una speranza che è anche mia.

Nella foto vi è un monaco che Enzo ha incontrato durante il suo viaggio in Birmania. Prima di indossare l’abito arancione era un soldato delle forze speciali del governo dittatoriale del Myanmar. Il suo corpo è coperto di tatuaggi e cicatrici così come la sua mente è colma di ricordi terribili.

In gioventù ha massacrato quasi tutti gli abitanti di un villaggio abbattendo uomini, donne e bambini ma neppure la droga, il denaro e l’onnipotenza sono state sufficienti a celare l’orrore, ad azzittire le voci.

Lasciò l’esercito e si ritirò in Ladakh, si chiuse in un monastero fuggendo dai suoi fantasmi e cercando consolazione nel buddismo tibetano. Lassù tra i monti lo hanno accolto, ne hanno compreso la furia ed il rimorso: hanno dato lui le cure e l’aiuto di cui aveva bisogno.

Quando è stato pronto, quando era finalmente riuscito a trovare un equilibrio, il suo maestro gli ha affidato un compito, qualcosa che solo lui avrebbe potuto fare in virtù di ciò che era e di ciò che ora era diventato: lo mandò a prendersi cura del villaggio che aveva attaccato, di coloro che erano sopravvissuti, dei parenti e degli amici delle sue vittime.

Gli abitanti del villaggio compresero e da allora, in mezzo alla giungla, lui è il monaco che si prende cura di quella comunità tra le mille insidie che affliggono quella terra. Quella foto ti fa comprendere perchè egli sia il monaco giusto e come tutto ciò che ha attraversato, tutto ciò che ha appreso, sia stato posto in un nuovo equilibrio.

Tu, per quanto giovane, hai alle spalle una vita densa di racconti ed ora sei alla fine di un percorso in cui hai lasciato alle spalle la furia, la criminalità, la droga e la violenza. Hai fatto una strada difficile ma è stato bello guardarti mentre la percorrevi sbandando qua e là ma andando comunque diritto.

Ora comincia una nuova parte del viaggio: non ti illudere, non sei guarito, non sei ancora pronto e l’inquietudine ed il dubbio che provi ne sono ancora la prova. Non vi è nulla di male in questo: sei caduto, ti sei ferito, ma ti stai alzando, stai riprendendo a camminare e non vi è niente che impedisca che tu torni a correre.

Non sbagliare però: è tempo di essere felice, è tempo di provare affetto, è tempo di lasciarsi aiutare. Credere di essere abbastanza eroico e stoico da cavartela da solo significa solo votarsi al martirio o alla sconfitta. E’ il tempo di prendere ciò che ti verrà offerto, prendere senza ricambiare, prendere con il cinismo di chi vuole guarire, di chi ha il dovere di guarire.

Guarire significa trovare l’equilibrio per un nuovo inizio. Quando avrai ottenuto questo potrai iniziare a ripagare ciò che hai preso. Chi ora deciderà di aiutarti in modo onesto ti darà quello che può e non vorrà nulla in cambio, credere  che tu possa farcela è la speranza che ripaga i suoi sforzi. Prendi ciò che ti verrà dato,  l’unico modo che hai per ricambiare è semplicemente farcela, farcela per davvero.

Hai molto da dare quando ne diverrai consapevole ed è questo ciò in cui io credo.

In bocca al lupo, pischello: Birillo e tutto ciò che ha imparato da coloro che sono stati prima di lui vegileranno su di te nel tuo cammino illuminato dalla luna.

Davide “Birillo” Valsecchi

PS. Enzo è stramaledettamente geloso delle sue foto ma so per certo che non avrà da obbiettare per l’uso che ho fatto di questa. Grazie, Santos..

Un cancello di Blue Matisse

Un cancello di Blue Matisse

Questa fotografia è stata scattata da John Stead, un giovane fotografo inglese in viaggio a Zanzibar con cui ho fatto amicizia. Gli ho raccontato del nostro viaggio e del nostro cancello, poi gli ho chiesto: “Scatteresti una foto del cancello per i ragazzi della scuola del mio paese?”.

John è un fotografo professionista ma ha trovato la nostra storia interessante ed ha accettato volentieri di realizzare questa suggestiva immagine partecipando alla nostra avventura artistica in Africa.

Quello che vedete nella foto è il cancello che è stato completato, un’opera ideata da Vivide e realizzata da Enzo (con il paziente aiuto del sottoscritto) per l’ingresso principale del resort cinque stelle che accoglierà la prima Galleria d’Arte Internazionale dell’isola di Zanzibar.

Ecco svelato ciò su cui abbiamo lavorato per tutte queste settimane e per cui siamo stati invitati in Africa.

Davide “Birillo” Valsecchi

Thank you again, John!! Assante sana!!
John Stead WebSite

Yanez de Gomera

Yanez de Gomera

«Che importa se il suo passato fu tremendo – rispose Marianna – se ha immolato vittime a centinaia, se ha commesso vendette atroci? Egli mi adora, egli farà per me tutto ciò che io gli dirò, io farò di lui un altro uomo. Io abbandonerò la mia isola, egli abbandonerà la sua Mompracem, andremo lontani da questi mari funesti, tanto lontani da non udirne più mai parlare. In un angolo del mondo dimenticati da tutti, ma felici, noi vivremo assieme e nessuno mai saprà che il marito della “Perla di Labuan” è l’antica Tigre della Malesia, l’uomo che ha fatto tremare regni e che ha versato tanto sangue. Sì, io sarò sua sposa, oggi, domani, sempre e l’amerò sempre!»

Così diceva la bella Lady Marianna allo spericolato Yanez de Gomera che pur di aiutare il fraterno amico Sandokan si era intrufolato nel palazzo di Lord Brooke spacciandosi per’ufficiale inglese cugino Baronetto William, il promesso sposo della “Perla di Labuan”.

Questo spezzone de “Le Tigri di Mompracem” di Emilio Salgari è preso da una delle tante versioni on-line disponibili. Salgari era una figura eccezionale con una storia personale però molto triste che riesce a commuovermi anche più dei suoi romanzi e per questo mi piace ricordarlo.

Leggendo però questo spezone mi è tornata alla mente un proverbio cinese: “Quando il cuore si fa schiavo della bellezza, la libertà è perduta”. Credo che il nostro Sandokan, l’indomita tigre della Malesia, si fosse scelto una bella gatta da pelare. Rileggere i propositi della “Lady”, ancora in prigione, sul suo futuro con Sandokan fa venire i brividi: “…egli farà per me tutto ciò che io gli dirò, io farò di lui un altro uomo”. Alle volte un’uomo le rogne se le va proprio a cercare!!

Per questo il portoghese, lo sconsiderato Yanez de Gomera, appare invece una figura molto più affasciante e concreta. So che Davide Van De Sfroos ha presentato al Festival di San Remo una canzone dedicata proprio a questo mitico personaggio in chiave Laghéé: in effetti, per gli stralunati del lago, Yanez è decisamente il più adatto, quello più nostrano e che più facilmente si potrebbe incontrare per le valli del Lario (specie nell’interpretazione che ne fece Philippe Leroy).

Con qualche difficoltà ma sono riuscito anche io ad ascoltare la canzone sebbene io sia qui in Africa e, devo ammetterlo, mi ha divertito sopratutto perchè ora ci troviamo sull’oceano ai tropici, in equilibrio tra situazioni da romanzo e stranezze da riviera romagnola. Mi piace, Yanez è una bellissima citazione di Salgari proposta con l’irriverente spirito Laghéé e con la poesia tanto ruvida quanto delicata del nostro dialetto.

Enzo è da sempre uno dei più impegnati sostenitori della “filosofia” Laghéé e proprio lo scorso anno avevamo disegnato insieme una maglietta commemorativa per la seconda spedizione dei Flaghéé, le bandiere del lago.

Quella volta io e “Santos” eravamo partiti da Piazza Cavour a Como alla volta di Piazza San Marco a Venezia con le nostre 48 bandiere ed una canoa alla David Crockett (anche se il progetto originario era curiosamente  in pedalò). Per l’occasione la nostra  “uniforme” era una maglietta ispirata ai pirati dell’Isola Comacina (che furono catturati sbronzi…) che recitava  «Laghéé: Pirati d’aqua dulza»:  eravamo già troppo avanti!!

So che la canzone di Van de Sfroos si è classificata tra i primi sei e questo mi fa molto piacere: in bocca alla tigre al buon Yanez ed al cantante più conosciuto e benvoluto del nostro lago tra i monti. Qui ai tropici, i due pirati di Asso, continuano la loro missione!!

Davide “Birillo” Valsecchi

I Pirati del Lario

La tradizione vuole che i pirati si nascondessero sull’Isola Comacina e che attaccassero i comballi, le tipiche imbarcazioni del lario per il trasporto merci.

Comballo sul Lario
Comballo sul Lario

I comballi, spesso “cargàa fina a la fàsa“, erano facili prede per le piccole ma veloci imbarcazioni degli improvvisati pirati lariani.

Quando le autorità cercarono di arginare il fenomero presero vita furiosi scontri anche se il più delle volte i colpevoli semplicemente si dileguavano nel silenzio dei paesani.

Per questo fu utilizzato uno stratagemma decisamente sagace: un comballo, carico di liquori, divenne l’esca ideale per i pirati. La sera stessa, infatti, le autorità catturarono i “pirati d’aqua dulza” completamente sbronzi e senza alcuna resistenza proprio sull’isola Comacina.

A volte noi del Lario sappiamo essere proprio strani!

Fiamme viola nella notte africana

Fiamme viola nella notte africana

Acqua bassa sotto il pontile
Acqua bassa sotto il pontile

La parola swahili per “corrente elettrica” è “humeme”. La cosa divertente è che lo stesso termine era usato già in precedenza per la parola “fulmine”. Quindi parlando in swahili si ha l’impressione che siano i fulmini a far funzionare tutti gli strani marchingegni elettrici che gli europei hanno introdotto sull’isola. La realtà non è poi cossì dissimile perchè la corrente elettrica è effettivamente parente stretta di un fulmine ma, nel nostro linguaggio, il tutto appare meno pittoresco, meno denso di mistero. Forse soprattutto perchè, da noi, quando i fulmini si mettono a correre nell’impianto elettrico di casa non è affatto nè normale nè un bene.

La parola “moto” invece indica il “fuoco” ed “anga” indica il “cielo”. In swahili “fuoco e fulmini nel cielo” suonerebbe più o meno così: “moto na umeme katika anga”.

Questa notte è una notte strana, intensamente strana. In Madagascar si è abbattuta una tempesta tropicale ed anche qui, nonostante la distanza, se ne sentono gli effetti. Come sapete “il napoletano”, un nostro nuovo amico italiano, è appassionato di pesca ma da ben tre giorni non riesce a prendere alcun pesce: in realtà non è colpa sua perchè la marea sembra assente ed il livello del mare è rimasto per giorni basso ed immutato.

Nel mese in cui siamo qui non era mai successo prima. La marea cambiava spesso l’aspetto del mare crescendo lungo la scogliera anche di tre o quattro metri. Ormai era abitudine durante la notte ascoltare il rifrangersi delle onde contro la roccia. Da giorni tutto tace. Probabilmente è la luna o qualche cambiamento stagionale ma l’effetto è particolare, disorientante.

Come se non bastasse la notte è rischiarata da incredibili fulmini viola che in lontananza sull’oceano sfrecciano all’orizzonte. Il mare quieto e lampi viola che silenziosi corrono nel buio senza che se ne possa ascoltare il tuono. Sono grandi a tal punto che l’occhio li vede arrampicarsi attraverso le nuvole così come vedrebbe un rivolo d’inchiostro correre lungo un foglio di carta aprendo il suo tratto in mille ramificazioni. Fulmini grandi come mai visti prima, ma muti, resi silenti dalla distanza che ci separa: lampi senza voce illuminano la notte.

Io, Enzo ed il Napoletano ci siamo incamminati lungo un pontile di legno lungo quasi 120 metri che dalla scogliera si spinge nel mezzo della baia. Da là, in fondo eravamo immersi nel mare, circondati dall’acqua guardando da un lato la terra ferma e dall’altro l’orizzonte ed il suo spettacolo di saette. Su tutto l’oceano silenzioso e quieto come mai l’avevo ascoltato.

Sì, una notte strana. Mi ricorda un piccolo libro a fumetti a cui ero decisamente affezionato che racconta proprio di una notte come questa dove tutto può succedere, persino l’incredibile: La notte del Saraceno. Spero che la signorina che ora custodisce quel mio tesoro di infanzia ne abbia debita cura, era una storia delicata di avventura ed amore che non dovrebbe andar persa.

Io ora resto qui, a guardare il fuoco del cielo ed il silenzio del mare. E’ una notte strana di cui ancora nessuno conosce l’alba.

Davide “Birillo” Valsecchi

Con noi  non abbiamo l’attrezzatura fotografica per “catturare” i fulmini ma quest’immagine, presa da fenomenitemporaleschi.it, si avvicina molto, sebbene in piccolo, a quello che possiamo vedere noi da qui. Giulio, il nostro ingegniere al “Campo Base Le Zie”, poi mi/ci spiegherà perchè i fulmini sono viola qui =)

A caccia di Fantasmi

A caccia di Fantasmi

Blue Matisse
Blue Matisse

Il Sabato i quasi ottanta operai che lavorano nel cantiere tornarono verso casa e nella struttura rimanemmo solo noi sette europei e quindici ascari, le guardie locali. Sembrava una serata qualsiasi ed avevamo da poco finito cena quando il capo cantiere, che era in città, chiamò il capo squadra con una scomoda novità. C’era in giro la voce che quella notte sarebbero venuti a far razia nel cantiere con la compiacenza di alcune delle guardie: “…qualcuno degli ascari è con voi non so di quanti possiate fidarvi. Fate attenzione: senza fare gli eroi tenete gli occhi aperti”.

Il cantiere ospitava cinquanta bungalow e sette ville super lusso ormai quasi complete ed ammobiliate di elettrodomesti e condizionatori: una struttura imponente nel cuore dell’Africa a ridosso dell’Oceano Indiano.

L’area era vasta ed attraversata da piccoli vialetti immersi in un rigoglioso giradino esotico. I giardinieri non avevano ancora cominciato a potare le piante e nemmeno gli elettricisti avevano concluso l’istallazione delle luci: quei vialetti erano una dannata giungla buia a ridosso del muro di cinta verso la shamba, la campagna.

Andammo nel complesso principale ed accendemmo tutte le luci, salimmo sui tetti e puntammo alcuni fari nelle zone più buie ma, camminando lungo il perimetro, ci si rendeva conto di quanto fosse indifendibile quel posto senza le cancellate ed i fari di sicurezza che ancora dovevano essere installati. In quelle condizioni se una decina di uomini avesse deciso di entrare con un camion sfruttando l’appoggio delle guardie sarebbe stato impossibile impedirgli di portarsi via tutto.

Non mi andava di ritrovarmi ai ferri corti senza niente in mano e così tornai al cassone del rottame. Nel pomeriggio avevamo tagliato con il plasma una piastra da 3 millimetri sagomandola con una figura simile alla “donna blue” di Matisse. Uno degli scarti della sagoma mi aveva colpito per la sua forma allungata. Mi infilai i guanti di pelle e dopo una breve ricerca “impugnavo” di nuovo quel pezzo di metallo: un’ellissi allungata ed appuntita seguita da un sottile manico. Con una corda di nailon irrobustii l’impugnatura e fui soddisfatto del risultato.

La lama era frastagliata ma non aveva filo, era lunga circa cinquanta centimetri e terminava in una punta molto aguzza. Lo spessore la rendeva solida e l’impugnatura di una spanna rendeva facile afferrarla con una o due mani. Era artigianale ed improvvista ma era una buona arma. La arrotolai in una maglietta e me la misi sotto braccio. Sapevo che, per quanto buona, era solo una “piuma di pavone” e che la nostra unica concreta possibilità fosse far capire agli ascari corrotti che avevamo mangiato la foglia e che per quanto impreparati avremmo vigilato tutta la notte.

Al mio socio piacque il mio machete improvvisato ma, non trovando nulla di meglio, dovette accontentarsi di un semplice bastone di legno trovato nel laboratorio del carpentiere. Ci dividemmo in gruppi da due controllando i vari edifici e percorrendo in lungo ed in largo la struttura. Gli ascari erano sempre in giro e capirono che qualcosa di strano stava succedendo quella notte: noi guardavamo loro e loro guardavano noi. Quando nel buio dei vialetti ci incontravamo gridavo “Poa”, tutto bene, e loro facevano lo stesso dopo avermi riconsciuto. Era una strana situazione, nessuno si fidava più di nessuno ed ogni rumore ed ombra nella notte erano un buon motivo per trattenere il fiato.

Il carpentiere moldavo alla fine prese la pazienza ed affrontò il problema di petto. Si piazzo davanti all’ascari che dormiva sotto la mensa cucina e gli chiese duro, diritto negli occhi: “Dove è il problema questa notte?” L’ascari faceva finta di non capire, di non sapere ma il moldavo lo pressava: “Bungalow o ville? Dove?” L’ascari si ammutolì abbasando la testa. Il moldavo si convinse che non sapesse nulla e si voltò per continuare il suo giro. Fu quell’attimo che l’ascari sussurò “Bungalow” ed un brivido corse sulla schiena di noi tutti.

Avevamo deciso di montare la guardia tutta la notte e ci davamo il cambio rientrando in stanza per riposare un oretta. Io mi stesi sul letto e chiusi gli occhi. Ognuno di noi aveva sulle spalle una dura giornata di lavoro e dormire era ciò che avremmo sperato per la notte prima di quella telefonata.

Precipitai nel buio. Ero in un’albergo di montagna, uno di lusso. Eravamo nella Hall ed ero seduto ad un tavolino su di una poltrona di pelle. Davanti a me c’era un tipo biondo, occhi azzurri, aveva la mia stessa età ed altezza. Aveva i capelli un po’ lunghi ma ben curati e lo sguardo tagliente. Ben vestito aveva un grosso orologio in acciaio al polso. Io indossavo un hip-hop in plastica anni 80 che mi aveva prestato Bruna per tenere il tempo quando uscivo a nuotare in mare. Il tipo mi era già antipatico ancor prima di scoprire che era il nuovo fidanzato della mia ex.

Cominciò a raccontarmi che era il titolare di una piccola ma arrembate società di consulenza informatica e si mise a snocciolare i nomi dei prestigiosi clienti per cui lavorava quando al mio fianco apparve il padre della mia ex. Il vecchio era un tipo simpatico, eravamo molto amici anche se erano ormai anni che non ci vedavamo. Sorrideva ed aveva stampato sul viso un’espressione che letteralmente diceva: “…bhe, vedi, lui è un’altra cosa…”. Il biondo cominciava ad irritarmi seriamente.

Pensavo di essere al limite della sopportazione quando al tavolo si sedettero mio padre ed il padre di Bruna con il suo cappello da cow-boy e la sua passione per il Far-West. Il biondo cominciò a raccontare della sua collezione di Tex Willer anni ’60 e della sua ultima battuta di pesca in Canada in compagnia di un suo grosso cliente. Mio padre lo ascoltava interessato ed il padre di Bruna gli assestava compiatute pacche sulle spalle.

Ero furioso, il mio odio per il biondo era palpabile come il mio silenzio. Il peggio doveva ancora venire. Mi voltai e vidi Bruna e la mia ex camminare verso di noi chiacchierando tra loro come vecchie amiche: erano bellissime.Era la prima volta che vedevo insieme mia moglie e la mia ex-moglie e restai sorpreso da quanto onestamente volessi bene a quelle due donne. Per un attimo fui felice, almeno fino a quando il biondo, aggiustandosi la giacca, non si alzò in piedi per accoglierle sfoderando il suo sorriso migliore arrogantemente sicuro di essere il maschio Alpha tra noi due.

Era troppo, non ero più lì. Ero nella cucina dei miei, in compagnia di mia madre e guardavo fuori dalla finestra la nebbiolina di novembre che si alzava dalla valle del Lambro. Lei sapeva darmi una grande calma. In ogni mio viaggio più mi allontanavo da casa e più  spesso la rivedevo, più profodamente riemergeva dai miei ricordi. Rivederla era sempre terribile e magnifico. Mi guardò e mi disse: “Perchè ti dai il tormento?”.

Nei miei pantaloni cominciò a vibrare silenzioso il cellulare. Era la sveglia. Ero di nuovo in Africa, completamente vestito nella mia branda con lo scarto di un Matisse come arma. Ero sveglio ed era di nuovo il mio turno. Era il mio momento di tornare tra le tenebre a caccia di fantasmi.

Davide “Birillo” Valsecchi

Uno di Asso: Fabrizio Crippa

Uno di Asso: Fabrizio Crippa

La foto che gli scattò Andrea la sera della Festa
La foto che gli scattò Andrea la sera della Festa

Chi oggi blatera di sicurezza all’epoca fu quasi indifferente a tutta questa storia che, per molti motivi, è per me impossibile dimenticare.

Erano giorni di neve e freddo ed un elicottero, quel lunedì mattina, sorvolava la valle. “Cos’è successo?” “Non si trova più Gigio” “E chi è?” “Quel ragazzo piccolo, che guida il trattore. Quello che hai tirato fuori dal frigor all’ultima festa che hai organizzato!” Si qualche giorno prima avevamo fatto festa, la “superbicchierata” l’avevamo chiamata.

Fabrizio, “Gigio” come lo chiamavano in molti dei suoi amici, aveva bevuto un bicchiere di troppo e qualche fesso, per scherzare, l’aveva fatto cadere dentro il frigor dei gelati.

Mi ero preoccupato prendesse freddo e così, pur di tirarlo fuori, mi ero infilato anche io nel nel frigor tenendomelo poi ben stretto perché si scaldasse.  Eravamo quasi coetanei ma quella era quasi la prima volta che ci incontravamo.

Il lunedì passò ed il tempo si fece ancora più inclemente. Martedì mattina non c’erano più elicotteri a cercare Gigio:”Sarà scappato, era un poco di buono” dicevano pur di non uscire più al freddo a cercarlo.

Io ero seduto “dalle Zie” con Enzo. Non ci conoscevamo ancora, si scambiava per lo più qualche chiacchiera a pranzo:”Max mi ha chiesto se gli diamo una mano, se andiamo con lui ed i cugini di Fabrizio a cercarlo lungo il fiume”. Ho un quadretto che dice “cittadino benemerito per attività alpinistiche”, sarei stato un codardo ed un ipocrita se non avessi infilato gli scarponi per cercarlo nella valle.

Uscimmo nel bosco a cercarlo quasi tutti i giorni. Io ed Enzo andavamo insieme e per la prima volta, tra la neve ed il freddo, lo vidi non più come il cinico artista chiacchierone così come l’avevo conosciuto ma bensì come la persona di gran cuore che spesso Enzo si rifiuta di mostrare. E’ in quei giorni, in Valle Bassa, che Enzo si conquistò la mia fiducia, la stessa fiducia che ci ha portato a compiere tanti viaggi insieme.

Ma dove era finito Gigio? “Cima” si mise a lanciare appelli ma mentre si moltiplicavano le maldicenze erano sempre meno quelli che lo cercavano. Dissero che era a Milano, che era andato via in treno, che aveva debiti, che era impazzito.

Mentre un giovedì rientravo a piedi dalla valle dei mulini si fermò Fausto, il  futuro marito della mia amica Francesca: mi disse di averlo visto seduto sul muretto davanti alla pizzeria di Pagnano la domenica pomeriggio in cui era scomparso. Fabrizio abitava poco più avanti, forse si era solo fermato a riposare mentre tornava a casa a piedi.

Dissi ad Enzo di aspettarmi sulla strada e a Max di fare il giro e controllare il fiume. Io, sperando di non finire a mia volta in acqua, avrei controllato la scarpata sottostante. Era un giovedì, aveva ripreso a nevicare mentre mi arrampicavo sulla scogliera coperta di neve attaccandomi alle piante e facendo attenzione ai cocci di bottiglia disseminati tra le sterpaglie.

E’ incredibile quanto “vicini” fossimo a Fabrizio. La neve copriva ogni cosa ma sono sempre più convinto che fu il destino a non lasciarmelo trovare quel giorno: ancora molto doveva accadere.

Al consiglio di Natale consegnai il premio alla Bontà al Maresciallo Melchiorre e quella sera stessa, insieme a Giordano Pina, si decise di organizzare una grande ricerca insieme alla Croce Rossa, alla Protezione Civile, ai Cacciatori, al Soccorso Alpino e ai Volontari di Asso.

Era un sabato mattina di una giornata di sole invernale. Il piazzale della caserma dei Carabinieri, dopo due settimane, era finalmente pieno di gente e fremevano i preparativi per la ricerca. Io, Enzo e la mia piccola squadra di volontari non appartenevamo a nessuna associazione e non avevamo una radio. Eravamo tutti giovani con esperienza di montagna ma per evitare guai decidemmo, in accordo con “Ciano” e Fumagalli del Soccorso Alpino, di ripercorrere la valle dei mulini affrontando la parte meno pericolosa del fiume.

Chiesi a Simone, marito di mia sorella ed istruttore di roccia, di tenere d’occhio la nostra piccola squadra mentre ancora una volta provavo a controllare la scarpata. Non avevamo corde o attrezzatura e così Enzo si mise sulla strada e Luca sul fondo del fiume in modo che se fossi caduto mi avrebbero quantomeno soccorso.

Cosa accadde? Non posseggo arte sufficiente per raccontarvi quello che successe davvero sulla quella scarpata. Fabrizio e la verità sulla sua storia erano lì, entrambi aspettavano che arrivassi per svelarli a tutti: Fabrizio tornava a casa sua quando fu investito da un auto che lo scagliò nel fitto della boscaglia che cresce sulla scarpata, ferito ed intrappolato tra i rami rimase lì finché il freddo non lo portò via.

L’avevo tirato fuori da un frigor per gelati e lo ritrovavo ora ucciso dal freddo e da tutti coloro che lo avevano abbandonato tra quei rami. Il maresciallo Melchiorre, grazie ad un pezzo di specchietto che giaceva vicino a Fabrizio, trovò chi l’aveva investito: “Non me ne ero accorto” disse l’uomo quando fu preso dai Carabinieri…

Non c’è niente di speciale, niente di eroico in quello che vi ho raccontato, niente che cinquant’anni fa non avrebbe fatto ogni buon paesano nell’ignoranza dotta della sua terza media la sera stessa che una madre si fosse disperata per un figlio che non è più rientrato a casa. Oggi, ancora oggi, mi chiedo: “Se fossi stato io al suo posto avrei dovuto attendere due settimane perché mi trovassero, perché il mio paese riscoprisse l’orgoglio di prendersi cura della sua gente?”

Davide “Birillo” Valsecchi

Mi spiace per il dolore che rivivere questa storia può provocare ma vi è una lezione, pagata a caro prezzo, che non va dimenticata. [La storia di Fabrizio]

« Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli. »   (Matteo 18,12-14)

Amori e sassate nella vecchia Valassina

Amori e sassate nella vecchia Valassina

Inaugurazione della Stazione di AssoIl quotidiano “La Provincia di Como” è lo storico giornale della nostra zona, fondato nel 1892 gode di una storia che supera di oltre tre lustri i 100 anni.

Memoria storica del nostro territorio pubblica recentemente una bellissima collana di articoli dedicati alla storia dei nostri paesi arrichita da racconti del passato e fotografie in bianco e nero.

In questi giorni la redazione del giornale mi ha contattato per informarmi dell’uscita di un nuovo articolo dedicato alla Valassina che traeva spunto proprio da un post di Cima-Asso.it dedicato alle Zuffe della Valassina.  Potete immaginare il mio stupore e la mia soddisfazione per quella telefonata.

Un intera pagina è stata dedicata da “La Provincia” alle storie di Asso, Canzo, Caglio e Sormano.  Un bell’articolo scritto da Giovanni Cristiani ed arricchito da vecchie foto. Nell’articolo fa bella mostra di sè il riferimento al sito Cima-Asso.it ed al suo autore.

Non posso che ringraziare “La Provincia” e la sua Redazione per aver dedicato una pagina del giornale alle storie del mio Paese.  Ecco un estratto dell’articolo pubblicato su LaProvinciaOnLine il 2 Novembre 2008:

Asso, Canzo, Caglio e Sormano in guerra da secoli. Per le donne
Guai a sposare uno del paese «rivale». Già duecento anni fa botte da orbi

«Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani né mai. Ma, signori miei – replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente – Ma, signori miei, si degnino di mettersi nei miei panni. Se la cosa dipendesse da me… vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca».
Era il 7 novembre 1628 quando i Bravi, nel capolavoro del Manzoni “I Promessi Sposi”, fermavano il povero curato impartendogli l’ordine perentorio di non unire in matrimonio Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Ordini simili erano normali anche tra le viuzze, allora spoglie di case e alberi, che salivano da Canzo fino ai paesi dell’alta valle. Guai a veder maritare un cagliese e una sormanese, o un assese e una canzese; ci sono poi anche storici, anche se meno conosciuti, veti «incrociati»: per esempio Caglio e Valbrona, o Caglio e Asso. Sottolineati non solo all’altare, ma anche da fatti di sangue che lordarono le polverose strade della Valassina.
Ancora sessant’anni or sono quanti problemi per le nozze, come conferma Ermanno Carboni, ex primo cittadino di Sormano: «Mio padre è di Sormano, e lavorava nell’allora comune unico di Santa Valeria a Caglio; il periodo era quello fascista, mia madre era di Caglio. Mi raccontava di tantissime sassaiole che i cagliesi gli riservavano quando voleva incontrare la sua Giannina».
I due hanno superato brillantemente tutto, e ancora oggi sono uniti, dopo sessantatrè anni; Giuseppe Carboni ha 86 anni, Giannina Torchiana 85 (insieme, nella foto tonda).
Per Caglio e Sormano la fine delle ostilità è arrivata grazie alle scuole: «Negli ultimi anni con materna ed elementari unite i due paesi si sono avvicinati – spiega il sindaco di Caglio Raffaele Costanza -. Ma ancora oggi quando ci sono i tornei estivi sembra sempre di vivere un derby». Anche tra Canzo e Asso sposarsi era un’impresa da compiere superando il ponte della Vallategna: «Volavano cazzotti e schiaffi, le famiglie non vedevano di buon occhio il matrimonio tra canzesi e assesi – spiega l’ex primo cittadino di Asso, Flaminio Pagani -. Il ponte era il confine è qui spesso si vedevano episodi di botte; questo anche fino agli anni ’20. In realtà la rivalità e durata ancora ben oltre; negli anni ’80 Canzo voleva a tutti i costi strappare la caserma dei carabinieri ad Asso. Canzo è cresciuta d’importanza, per così dire, sotto il dominio spagnolo; prima non era al nostro livello».
«Quand la legura la farà un tass, la ruerà la feruvia ad Ass, dicevano i canzesi nel 1922, all’inaugurazione della stazione Canzo Asso; e volarono botte. La lepre non ha ancora fatto nascere un tasso, e la ferrovia ad Asso territorialmente ancora non c’è; ma (forse) proprio per non dirlo sul nome del capolinea canzese c’è anche Asso.
Sul sito www.Cima-Asso.it, curato dall’alpinista Davide Valsecchi, si citano brani da «Memorie storiche della Valassina», di Carlo Mazza: «Nel 1804, nel giorno dell’Epifania, si attaccò una fiera zuffa fra la gioventù di Asso e di Canzo, nel dosso sopra la valletta, che durò dai vespri fino a notte. I combattenti armati di sassi, erano in gran numero; i feriti furono cinque, tutti di Canzo trovansi in sito svantaggioso. Le stesse donne, nelle filande della seta (insieme a lavorare) sono sempre in contese fra loro sui pregi e difetti dei rispettivi paesi, con tanta animosità che è necessaria tutta l’autorità dei padroni per impedire che non vengano alle mani».

Divisi su tutto!!
Una foto dell’inaugurazione della stazione di Canzo – Asso. Secondo le cronache del tempo, i ragazzi dei due paesi ne approfittarono per prendersi a botte.  Già duecento anni fa – scriveva lo storico Carlo Mazza – le ragazze, «nelle filande della seta, sono sempre in contese con animosità su pregi e difetti dei rispettivi paesi»

Ma l’amore sbocciò lo stesso
Dalla Fidanzata sotto una sassaiola
Giuseppe si è innamorato della sua Giannina scrutandola di soppiatto durante un sabato fascista. Vestita della festa, ordinata in fila tra le vie del paese, in un attimo ha visto in quegli occhi i successivi sessant’anni di vita insieme. Il suo cuore ha iniziato a pulsare velocemente dentro l’abito da giovane italiano; i tempi erano duri di per sé, figurasi per un sormanese che va a innamorarsi di una cagliese. «Mio padre lavorava nel Comune di Santa Valeria, allora Caglio e Sormano erano uniti; ma ciò non bastava a sciogliere la rivalità  – spiega Ermanno Carboni, il figlio -. Per lui l’uscita serale con l’amata alcune volte veniva preceduta da una sassaiola che gli riservavano i cagliesi. Nonostante ciò l’amore sbocciò solido, se dopo sessantatré anni vanno ancora d’accordo». Alla faccia di chi negli anni ’40 lanciava sassi.

Che stilettate, proverbi come pietre
“Asso è il primo paese della Valassina, c’è da lavorare e c’è l’aria sopraffina”. Con queste parole inizia una filastrocca tutta assese degli inizi del secolo scorso composta da Carlo Ostini, che parla della storica rivalità tra Asso e Canzo. Esempio di come sotto le diverse bandiere ognuno abbia cercato di esaltare le qualità del suo paese, e togliere validità all’altro. I canzesi, detti anche “goss”, sono sempre andati fieri del loro terreno capace di ospitare ben due stazioni ferroviarie.
Gli “spazapulè” di Asso rispondendo con uguale fierezza ricordano però ai vicini che “Se volete sbarcare il lunario dovete venire sul territorio di Asso”; questo perché la ditta Oltolina, anni addietro soprattutto, offriva lavoro anche a buona parte ai residenti dei paesi limitrofi.

Ancora mille grazie a “La Provincia”!!

.Davide

PS: Come nel precedente articolo per prevenire le malsane idee di qualche testa calda faccio notare che sono passati oltre duecento anni da quei fatti e che su un libro spesso, chiamato Codice Penale, si legge:

La rissa, in diritto penale, è il delitto previsto dall’art. 588 del Codice Penale secondo cui «Chiunque partecipa a una rissa è punito con la multa fino a 309 euro. Se nella rissa taluno rimane ucciso, o riporta lesione personale, la pena, per il solo fatto della partecipazione alla rissa, è della reclusione da tre mesi a cinque anni. La stessa pena si applica se l’uccisione, o la lesione personale, avviene immediatamente dopo la rissa e in conseguenza di essa.» Occhio a non fare la fine dei fessi.

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