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2018 Discorso alla Nazione

2018 Discorso alla Nazione

Il 2018 è stato un’anno decisamente “peculiare”. Innanzitutto è nata la piccola Andrea, che ha rivoluzionato ogni cosa, ed in secondo luogo, mai come quest’anno, mi sono sentito “debole”. Tuttavia, tirando le somme, pare invece sia stato adeguatamente “forte” da raggiungere, nonostante le difficoltà, ogni obbiettivo prefisso. Un piccolo paradosso: troppo debole per vincere, troppo forte per perdere. Più o meno da Giugno sono stato particolarmente malato: mi hanno fatto prelievi del sangue, ecografie ed analisi per comprendere come mai la mia carcassa, ed in particolare il mio fegato, non volesse più funzionare come si deve. Ritrovarsi con il fiatone e le vertigini semplicemente risalendo una scala era piuttosto inquietante per uno come me, specie con tutta la nuova serie di responsabilità da sostenere.

Le cose ora si stanno risolvendo, anzi, sto tornando in forma con una consapevolezza nuova. Tuttavia ritrovarsi “fragili” ha favorito lo sviluppo di nuove “solidità”. Come disse qualcuno: “non c’è limite all’efficienza di una volontà determinata”. Non importa se conquisti la collina strisciando, l’importante è conquistare la collina.

In tutto questo marasma sono stato decisamente assente nel mio ruolo di Nostromo: i Tassi, al contrario, non solo hanno saputo gestirsi in autonomia ma hanno saputo essermi vicino senza essere invadenti. Il tasso, a quanto pare, gode davvero di un’innata indole sociale e di uno straordinario spirito di gruppo.

Finalmente, con la dovuta cautela, ho ripreso anche ad arrampicare: a stimolarmi è stato soprattutto l’arrivo di nuovi e promettenti membri nel nostro piccolo gruppo. Così, dopo qualche giro di “Elvis” sulla nostalgica paretina di Scarenna, è stato il momento di tornare finalmente sul Moregallo.

“Nessuno ha mai difeso qualcosa con successo: si può solo attaccare, attaccare ed attaccare ancora.” Questa celebre massima del Generale George William Patton, che ha saputo spronarmi nei momenti difficili, mi ha spinto a dedicargli un Pilastro nella valle Due Pile. Volevo però ricordare anche un amico caduto in Grigna a cui, senza rendermene conto, ho fatto una promessa importante. Una promessa che il destino mi ha risbattuto in faccia nel modo più inaspettato. Ecco perchè un monolito del Moregallo, gendarme di una valle di guglie e pinnacoli, porta ora il nome di Pilastro Charlie Patton.

Bisognava però apporvi un sigillo, tracciarvi una via, una linea elegante, classica e senza trapano. Per riuscirci ho dovuto fare appello alla maestria di Josef che, rientrando dalla Germania, si è lanciato sulla roccia affidandosi solo alle mille fotografie che gli avevo inviato in questi mesi.

“Probabilmente la linea più tecnica che abbiamo fino ad ora aperto al Moregallo. Il passaggio sotto lo strapiombo assomiglia a quello della Taveggia …solo che qui è ancora a friend e chiodi”. Josef è stato allievo di Nardella e questo piccolo paragone è stato per me il coronamento di una via su un pilastro forse piccolo ma carico di significati, non solo alpinistici: Via “Il Carattere del Generale” – Josef Prina, Ruggero Riva – VII+ obbligato, 25 metri – quattro chiodi in parete.

Dopo aver tracciato una nuova via, il giorno seguente, abbiamo potuto dedicarci alle cose più leggere e la nostra ciurmaglia, alpinisticamente imbarazzante in certe manifestazioni, si è la lanciata sulla Crestina G.G. OSA in una giornata di vento invernale. C’erano Tassi sparsi un po’ ovunque, sulla cresta, nei canali. Qualcuno in libera, qualcuno ingarbugliato nelle corde o appeso alle piante. Il nostromo, con una ritrovata esuberanza, si è lanciato sul paglione al grido di “Variante Verde” trascinandosi dietro il povero Luca tra sassi e sfasciumi. Alla fine, tutti in cima, abbiamo potuto finalmente brindare al cospetto delle nostre montagne.

I Tassi del Moregallo sono troppo deboli per vincere, troppo forti per perdere.
Mi piace la ciurmaglia di cui faccio parte! Buon anno!!

Davide “Birillo” Valsecchi

(Allarga video)

Corni: Antivigilia 2018

Corni: Antivigilia 2018

Bruna, ora che è mamma, ha venduto la “Hornet600” e questo ha privato la nostra sconclusionata compagine della batteria da moto con cui alimentare i nostri tamarrissimi led per la tradizionale fiaccolata dell’antivigilia alla Croce del Corno Occidentale dei Corni di Canzo. Invero avevamo anche trovato una batteria sostitutiva ma, ahimè, qualcuno dei Tassi l’ha dimenticata in ufficio. Quindi nulla, quest’anno la si è combinata al buio con le frontali da 4 eruo comprate all’OBI.

In realtà la faccenda non si dimostra un gran problema per due motivi. Il primo è che, essendo l’antivigilia di domenica, il rifugio SEV è eccezionalmente aperto per la serata. Una fiaccolata di volontari è partita da Oneda e sulla terrazza del rifugio si è festeggiato con vin brulè e panettone. La seconda ragione è che, come sempre accade, “l’uso e l’abuso del buso porta al disuso del buso stesso”. Illuminare le cime la notte dell’antivigilia era inizialmente una tradizione discreta, un piccolo gesto simbolico. Oggi è diventato un “happening” e, come sempre accade, è scattata sulle montagne una competizione a chi ha le luminarie più grosse e a chi tira più gente. Quindi, visto che noi non abbiamo manco la batteria per quei quattro led tamarri comprati sempre all’OBI, abbiamo festeggiato piacevolmente al buio. “esserci più che apparire, invisibili ma radicalmente presenti”, ecco la riflessione e la missione per il prossimo anno.

Il rifugio era gremito di gente e la tentazione di non salire sulla cima mi ha sfiorato: questa volta sono stati i Tassi, e non il Nostromo, ad impegnarsi per proteggere la tradizione. Mav e Ruggero hanno risalito la ferrata del Venticinquennale mentre il resto della piccola compagine ha raggiunto la cima lungo il Caminetto. Strette di mano, abbracci e foto di rito. Poi tutti di nuovo al rifugio.

“Il mio galletto. Sì l’ha un bel becco. Tutte le donne lo voglion nel letto. Galletto qui, galletto là. E il mio galletto l’è mai a ca’. E muoio, muoio, muoio per te mio galletto. Evviva l’amor, evviva l’amor e chi lo sa fare.” Nella sala grande della SEV è un tripudio di scodelle di trippa, caraffe di rosso e canzoni sberciate battendo il ritmo sul tavolo. Magnifico!

Davide “Birillo” Valsecchi

Corni: Antivigilia 2017

Feliz Navidad

Anche i Corni brillano!

Una luce anche ai Corni

GeoTecnica Non Inclusa

GeoTecnica Non Inclusa

Per me, che sono del Versante Nord, il Corno Orientale è sempre stato il corno piccolo: questo perchè, arrivando da Pianezzo, appare più basso degli altri due. In realtà, sul versante che scende verso Valmadrera, il Corno Orientale custodisce, quasi nascosta, la parete di roccia più imponente di tutto il gruppo, persino della maestosa Parete Fasana. Trovarsi ai piedi del Corno Orientale all’alba di una mattina d’estate è un emozione trascinante. Il sole, che sorge lento affacciandosi tra il Due Mani ed il Resegone, illumina la “grande onda” di una luce ambrata, viva, che risplendere su quella roccia grigia. Poi il sole inizia la sua corsa inseguendo il giorno ed in un istante, quel trionfo di luce, sprofonda nell’ombra fino al mattino successivo. Ritrovarsi sulla parete nord del Corno Orientale è come cadere in acqua in mezzo ad un oceano grigio. Le prospettive, in quelle onde di roccia, si confondono ed il mondo verticale diventa misteriosamente orizzontale: smetti di arrampicare ed inizi a nuotare, ti aggrappi ai fluttui mentre la gravità diventa semplicemente una corrente che ti respinge giù,  verso la riva, che ti allontana da quella immensa onda che sovrasta tutto e che nasconde alle sue spalle un ignoto ancora più grande. Mi ero spinto lassù per ripetere la via dedicata a mio Nonno, per un omaggio a mia madre scomparsa, ma mi ero ritrovato in un mondo sconosciuto: ricordo la paura, a tratti il terrore, il freddo, ma anche il curioso canto di un uccellino e quell’incredibile gioco di riflessi che nella luce del tramonto, senza alcuna logica per una parete ad est, creava una macchia di luce ad indicare l’uscita dell’ultimo tiro. Il Corno Orientale è un luogo strano, uno di quei luoghi in cui ti addentri pronto ad abbandonare tutto e torni al mondo come una persona diversa. Per me, ma non solo per me, è stato così.

Mi hanno chiesto cosa penso della nuova via al Corno Orientale. Onestamente la domanda è semplice, ma la risposta è complicata. Il nome non mi piace, ma questo è soggettivo, è una via “prevalentemente tradizionale” ma “moderna”, nel senso che si spazzolano le prese appesi con le fisse, nel senso che il trapano è stato usato solo per piantare otto fix, di cui quattro per due soste. Ora non saprei dirvi se su duecento metri di via sia tanto o poco: qui non siamo in Wenden ed io capisco poco la modernità, resto aggrappato – spesso anche appeso – alla “moda vecchia”. Curiosamente sotto il naso mi è capitato uno strano passo dal Vangelo di Luca: “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto (Lc 16,9-13)”. Ma se comprendere “tanto o poco” è un guaio, tentare la sorte con “fedele o disonesto” è quasi dissennato. Una cosa però la so per certo: “La legge che guida le stelle è la stessa che guida le formiche, impara dalle formiche e conoscerai le stelle”. Il problema è che alla fine del viaggio, quando conosci le stelle, scopri con stupore che spesso sono molto meno interessanti e meno divertenti delle formiche.

Quindi non vi dirò la mia su GeoTecnica, ma vi racconterò quello che in cinque lunghi anni ho imparato su tutte le altre vie del Corno Orientale. Magari riflettendo soprattutto sulla Don Arturo Pozzi con cui GeoTecnica sembra purtroppo intersecarsi spesso:

Sulla Parete Nord Est del Corno Orientale esistono solo cinque vie immortali ed indipendenti nelle loro linee: il “Diedro Dell’Oro” (1939), la “Pino Dell’Oro” (1976), la “Don Arturo Pozzi” (1964), la “Luigi Paredi” (1969), “Stella Alpina” (1963). Una menzione particolare va alla “Giuseppe Verderio” (1969). Il Diedro Dell’Oro è la più antica, aperta da Darvini e Pierino dell’Oro, capostipiti della tradizione del ValleMadre. La Don Arturo Pozzi è la prima ad affrontare la grande parete per tutta la sua lunghezza, nella sua parte centrale. Ma la storia della Don Arturo ha probabilmente inizio sul Corno Centrale, sulla Torre Desio. Qui Eugenio Fasana, nel 1931, ha risalito il difficile camino, ma è stato un ragazzo di 16 anni, la leggenda vuole scalzo, che nel 1946 traccia un’incredibile linea sullo spigolo del torrione: Carlo Rusconi e lo Spigolo Palferi. Il talento del giovane continua a crescere. Nel 1954, con Alfredo Villa, apre una nuova via sul Pilastro Maggiore, una via che è considerata un esempio di “itinerario sportivo” dei Corni: ovviamente a vecchi chiodi e clessidre. Solo successivamente alcuni ripetitori hanno messo dei chiodi a pressione nel passaggio di VII+ sul secondo tiro, passaggio che prima di allora era superato probabilmente con una piramide umana. Sempre nel 1954 Carlo Rusconi riuscì nella prima ripetizione della temutissima via di Ercole “Ruchin” Esposito allo Spedone. Una via del 1942 ripetuta per la prima volta nel 54 e che, nel 2018, conta solo altre 6 ripetizioni. Una piccola impresa che ancora oggi lega in un vincolo di amicizia e rispetto la tradizione di Calolzicorte a quella di Valmadrera e dell’Isola. Purtroppo nel 1955 il talento di Carlo Rusconi si spense sulla Grignetta: “Claudio Corti arrampica con Carlo Mauri e Carlo Rusconi sulla via Ruchin ai Torrioni Magnaghi, e Carlo Rusconi è capocordata, seguito da Carlo Mauri. Claudio Corti è in basso, fermo, in attesa che i compagni vadano in sosta. Carlo Rusconi manca un appiglio e precipita.” Carlo era il più anziano di otto fratelli. Pochi anni dopo, nel 1958, un’altro campione dell’Isola, Elvezio dell’Oro, perde la vita sulla lontana Torre Trieste: “L’epilogo delle avventure di Elvezio è tristemente noto: la sua morte, a poca distanza da quella di Carlo Rusconi, segnò gli ultimi anni cinquanta. La scomparsa di due figure diventate carismatiche nell’universo alpinistico locale lasciò un segno così profondo da provocare un periodo di stasi e di ripensamento.” Tutto si ferma, l’Isola trattiene il respiro e forse le lacrime, poi riparte. Nel 1963 Giuseppe Crippa e Giuseppe Arosio tracciano Stella Alpina, ma gli indigeni sono ancora immobili. Il primo successo della emergente generazione avviene nel 1964: Giorgio Tessari e Antonio Rusconi, non ancora ventenne e fratello di Carlo, tracciarono sulla parete Nord Est del Corno Orientale la via Don Arturo Pozzi, allora Parroco di Valmadrera. Ora dovrebbe essere più facile comprendere il valore tecnico, ma anche simbolico, di questa via. L’anno successivo, nel 1965, è la volta della “Via O.S.A.”, sulla selvaggia parete Nord del Moregallo, aperta in due giorni di arrampicata e con un bivacco in parete, sempre da Antonio insieme a Giorgio Tessari, Castino Canali e Pietro Paredi. L’Isola è di nuovo in movimento ed i suoi alpinisti si spingeranno ben oltre i suoi confini. Nel 1969 Pietro Paredi traccia la sua via in ricordo di mio nonno Luigi Paredi. Nello stesso anno Giancarlo Mauri traccia una nuova via, un’artificiale estrema che si conclude in solitaria, per ricordare l’amico Giuseppe Verderio, caduto dal Medale all’uscita della Cassin. Nel 1976 Romano Corti e Gian Maria Mandelli tracciano la Pino Dell’Oro: una delle espressioni migliori e più complete dell’arrampicata libera sull’Isola. 190 metri di via, solo 25 chiodi tradizionali, niente incastri, nessuna perforazione: una via che ha la mia età e che nel 2018 vanta ancora meno di 10 ripetizioni. Poi, nel 1997, compare il trapano tentando di dire la sua tra le onde del Corno Orientale: Nido di comete, Aresen Lupen. Oggi quelle piastrine tra le onde sembrano sirene che, cariche di lussuriose lusinghe, cercano di trarre in inganno i marinai nel periglio delle antiche rotte degli uomini. L’esperienza mostra che sull’Isola le vie a spit,  quando sormontano o competono da vicino con le classiche, sono destinate all’oblio ed al rimorso: non c’è grado che superi il rispetto per la tradizione. Nel 2012 Fabio Valseschini ripete tutte le classiche del Corno Orientale, in solitaria, in inverno. Francamente credo che Fabio sia un talentuoso stramboide: è impossibile non sia piaciuto agli spiriti dei Corni, che i fantasmi tra le onde del Corno Orientale non si siano rallegrati della sua compagnia nelle brevi giornate d’inverno. Nel 2015 Mattia ed io abbiamo aperto “Stellina”, una via di 30 metri, dicono di VI+, sul piccolo monolite alla base della parete. Eravamo due quarantenni infreddoliti, prostrati alla grandezza della parete e grati a coloro che ci avevano preceduto. Niente di eccezionale probabilmente, ma l’abbiamo aperta con mezzi leali: otto chiodi che abbiamo rimosso con attenzione, perchè del nostro passaggio restasse il ricordo ma non il segno. Il 2018 è l’anno di “Geotecnica”: credo per il Corno Orientale sia la prima volta in cui un fotografo precede da vicino il primo di cordata…

Ora io non so bene cosa dire su questa GeoTecnica: troppi numeri e troppa poca storia per i miei gusti. Non so nemmeno se è chiaro ciò che ho cercato di spiegare in questo mio lungo raccontare. Quello che mi pare chiaro – a prescindere dallo specifico di questa nuova via – è  che i ragazzi di oggi, con il trapano all’imbrago, ci fanno davvero una magra figura rispetto ai coscritti di 60 anni fa, ragazzi come loro ma che davvero non avevano nulla salvo ragguardevoli “attributi” (ed un intuito incredibile). Nel 2018, sopratutto a certi livelli ed in certi ambienti, si dovrebbe almeno avere il buon senso di non bucare la roccia per passare a tutti i costi, per inseguire una “libera assistita”. Non fosse altro che per dare il buon esempio.

“…tuttavia, se vi troverete su quelle pareti appesi nel vuoto, a tenervi conforto ci sarà quella strana sensazione di essere parte di “qualcosa”, vi sentirete vicino quei pochi che prima di voi si sono avventurati nella vostra stessa ardimentosa ricerca attraverso quelle onde di roccia.” Io spero – ed in questo sono brutalmente onesto – che gli apritori di GeoTecnica comprendano questo “qualcosa” e che, ovviamente a modo loro, trovino la giusta via per farne parte. Detto questo credo di non aver altro da aggiungere sulla faccenda. Forse solo una frase di Carlo Mauri, compagno di cordata di Carlo “Palferi” Rusconi nel suo momento più terribile, ascoltata qualche giorno fa: “Noi di Lecco apriamo le vie che possiamo, non quelle che vogliamo”. Altri tempi, altri uomini, altra epoca. Forse anche io come il Bigio smetterò di arrampicare e me ne andrò in Africa, a trovare il vecchio Santos, a rivedere con lui il Tanganika in cerca di nuove e strambe avventure. O forse no… forse c’è ancora da fare qui, anche e sopratutto senza trapano.

Davide Birillo Valsecchi

Corno Orientale – La scelta è in effetti difficile – Africa

Senza Olio di Palma

Senza Olio di Palma

Storicamente, sull’Isola Senza Nome, le falesie di arrampicata sportiva hanno sempre avuto un ciclo vitale estremamente breve sebbene il loro impatto ambientale sia pressochè permanente. Al momento la Falesia del Pozzo, l’intramontabile Falesia Corna Rossa, la recente Falesia del Gavatoio e – forse – la Falesia di San Tomaso godono di una significativa frequentazione. Le altre dopo un iniziale periodo di notorietà – a volte anche lungo – stanno gradualmente sprofondando in un completo abbandono. Pensiamo alla Torre Marina o al Prasanto, ma anche alla Pala dell’Eretico, la Falesia dei Laghetti, il gruppo dei Pilastri e persino – incredibilmente – al Corno Rat. Stessa cosa sul versante nord dove a bordo strada, per la facilità d’accesso ed un controllo meno attento, le falesie fioriscono e sfioriscono divorate dal bosco a tempo di record. Oggi quelli che frequentano le “palestre outdoor” si definiscono “climber” e sono coloro che praticano l’arrampicata principalmente come passatempo ricreativo, spesso in alternativa alle “palestre indoor”: difficilmente sono interessati ad affrontare ciò che ritengono essere lunghi avvicinamenti, una rigogliosa vegetazione, un clima spesso sfavorevole (torrido d’estate, gelido d’inverno), una particolare tipologia di roccia e non ultima una significativa difficoltà. Per questo il destino delle falesie sportive sull’Isola appare decisamente chiaro.

Con il senno di poi, a distanza di qualche decennio e senza voler offendere nessuno, queste falesie appaiono come gesti invasivi, certamente figli della propria epoca, ma oggi senza risultato o scopo. Una realtà su cui siamo chiamati a riflettere per una futura e corretta gestione degli spazi. Differentemente le vie classiche, che non sono mai state riattrezzate ma solo costantemente e pazientemente restaurate, attirano sempre più spesso chi – con adeguata preparazione – vuole confrontarsi con difficoltà autentiche ed impegnative salite storiche (alcune ormai ultracentenarie). Anche il Boulder è silenziosamente molto attivo sui pendii dell’Isola, sul Moregallo è invece in atto un’intensa attività esplorativa con l’apertura di nuovi monotiri rigorosamente “Trad” e “Clean”. Molti giovani, riflettendo e confrontandosi con i Decani, stanno autonomamente adottano un codice di autoregolamentazione che sposa sia il Bidecalogo del Cai, sia il “By Fair Means” Inglese, sia il codice etico dello Yosemite Park. Una piccola comunità alpinistica in pieno fermento ed in costante evoluzione.

In questo scenario, più o meno un anno fa, fece il suo ingresso un famoso arrampicatore del Lecchese, celebre soprattutto per le proprie importanti imprese al Nibbio: Fabio Palma. In quei giorni di Novembre Palma si spese in conferenze stampa ed articoli di giornale per presentare una “nuova” falesia di arrampicata sportiva realizzata sulla sommità del Corno Occidentale, un omaggio ad uno sponsor per celebrarne un anniversario aziendale: “Senza soldi pubblici permettiamo a tutti di arrampicare”. Cinque tiri già realizzati, altri dieci pronti a breve per una falesia che, in modo sorprendente, avrebbe ricevuto come nome proprio quello dello sponsor. Nei fatti si trattò di due giorni di carpenteria con il trapano calandosi dal sentiero delle capre per dare vita a qualcosa che a tutti è subito apparso come assolutamente pretestuoso e privo di logica. Due giorni in cui la roccia di una singola parete fu insensatamente forata come mai l’intero gruppo montuoso nei precedenti 50 anni.

Al clamore mediatico fece però rapidamente seguito un assordante silenzio. Dopo i proclami e le pubblicità autocelebrative, seguirono infatti numerose lettere ufficiali di protesta inviate dalle associazioni alpinistiche locali, il parere negativo espresso dal Collegio delle Guide Alpine di Lombardia, le osservazioni sfavorevoli espresse dalla Commissione Centrale Tutela Ambiente Montano (TAM) del CAI. Non ultimo l’intervento dell’ERSAF, l’ente regionale che salvaguarda la Zona Protezione Speciale (ZPS) della Foresta dei Corni di Canzo. Sempre in quei giorni di Novembre ebbi modo di scoprire come Palma abbia anche la manzoniana abitudine di fare la voce grossa nascondendosi tra le sottane degli azzeccagarbugli: fui infatti “diffidato” dal diffamare o vandalizzare il suo operato ai Corni. Curiosamente io ero stato uno dei pochissimi ad esporsi per intavolare sulla questione una discussione ferma ma aperta ed alla luce del sole. Tuttavia il karma possiede un’ironia straordinaria: il suo progetto, sbandierato ai quattro venti ma privo di qualsiasi autorizzazione, oltre all’etica, alla tradizione ed alla mia fiducia, violava infatti i dettami di una ben precisa e rigorosa Norma Europea in vigore ai Corni di Canzo a tutela dell’ambiente, Rete Natura 2000. L’autorizzazione, per un progetto che era incompatibile ed alieno tanto alla storia quanto all’ecosistema naturale, è stata inequivocabilmente negata. Anzi, gli enti preposti hanno espresso una chiara ed esplicita richiesta di ripristino e pulizia della parete. Lo stesso consiglio dei Maglioni Rossi ha recentemente disconosciuto il progetto come “iniziativa personale dell’Ex-Presidente”.

Solo la buona volontà di un giovane Ragno, ravvedutosi dell’errore, ha ora finalmente permesso di iniziare i lavori di pulizia. Un gesto per cui esprimo la mia sincera gratitudine e verso cui, anche a nome di altri alpinisti dell’Isola Senza Nome, offro la massima collaborazione: “Hai fatto la scelta giusta. Ma intascarsi le piastrine non basta: il lavoro va finito e finito bene. Se ti serve aiuto non esitare: ti diamo una mano, facciamo pulizia, chiudiamo la questione ed andiamo a bere tutti insieme alla SEV. Questo è stato solo un incidente, un errore, ma bisogna risolverlo al meglio perchè sia lasciato alle spalle.”

Cos’altro aggiungere per concludere? Fabio Palma è un personaggio pubblico, considerato uno tra i “grandi arrampicatori contemporanei” al mondo, uno che scrive cose intelligenti per pubblicazioni prestigiose ed internazionali, uno che favorisce il progresso e l’evoluzione dell’arrampicata. Purtroppo, ai Corni di Canzo, pare sia stato “pesato e trovato manchevole”: succede, alle volte sono montagne terribili, non guardano in faccia a nessuno e non prestano attenzione alle chiacchiere. Tuttavia è interessante come, contro ogni statistica, sia riuscito a sbagliarle davvero tutte dando vita ad un glorioso esempio di tutto ciò che NON dovrebbe far parte né dell’alpinismo né dell’arrampicata. Chapeau: una vera conquista dell’Impossibile…

“Mi dispiace Fabio, l’ultima volta che si siamo incontrati ti ho stretto la mano con amicizia. Poi chissà cosa ti è successo. Ci hai provato con il trapano, e non ha funzionato. Ci hai provato con l’avvocato, e non ha funzionato. Io da indigeno, nonostante tutto, ho anche cercato di avvisarti su cosa sarebbe accaduto, ma tu niente. Vabbè, ormai è andata come doveva andare. Ora, se vuoi, posso prestarti la carta dei sentieri e magari, cominciando con un po’ di trekking leggero, finalmente capirai che aria tira qui sull’Isola Senza Nome…”

Davide Birillo Valsecchi
Il più scarso alpinista nei primi 100 anni di storia dell’Isola Senza Nome.


“Salviamo dunque il drago; e, in avvenire, proseguiamo sulla via indicataci dagli uomini del passato: io sono convinto che sia ancora quella giusta! Calza gli scarponi e parti. Se hai un compagno, porta con te la corda e un paio di chiodi per i punti di sosta, ma nulla di più. Io sono già in cammino, preparato a tutto: anche a tornare indietro, nel caso che io m’incontri con l’impossibile. Non ucciderò il drago; ma se qualcuno vorrà venire con me, proseguiremo assieme verso la vetta, sulle vie che ci sarà dato di percorrere senza macchiarci d’assassinio.”
Reinhold Messner – L’Assassinio dell’Impossibile 1968

“Sono arrivato come in tanti altri posti, per una serata. Ma solo qua – dice, e nel raccontare sorride – non m’è più riuscito di ripartire: ho conosciuto gente speciale, un ambiente speciale. Grande amore per la montagna, ma anche grande disponibilità e apertura. E poi valori precisi ed in qualche modo omogenei in tutto l’ambiente di là dalle identità e dalle personalità individuali: coerenza, rifiuto di certi compromessi purtroppo molto di moda per quanto sviliscano il senso vero dell’alpinismo. Io ho scoperto tutte queste cose qui ed è per questo che scappo a Valmadrera, quando e appena riesco: per stare con gli amici, per andare con loro in montagna, per chiacchierare di cose qualunque.”
Walter Bonatti – intervista per Vertice 1988

“Well,Yippie-Ki-Yay MotherFucker!”
John Mcclane – Nakatomi Tower – Festa di Natale 1988

Alpinisti del Futuro

Alpinisti del Futuro

Bruna stava trafficando con il cane mentre io, con in braccio la narettola, ero seduto nel prato ad aspettarla. Appoggiato alla staccionata di legno osservavo sospirando il versante Est del Monte Sierra: ho avuto quella montagna davanti al naso per anni ma non ho ancora trovato l’occasione di salirvi fino alla cima. Cercando di acquietare il dolore alle gambe fantasticavo sulle possibili linee di salita seguendo con lo sguardo creste e cengie. Poi vibra il cellulare: mi ero ripromesso di non dare spazio alle diavolerie informatiche, di darmi pace per qualche giorno, ma la curiosità mi vince e, per una volta, mi premia. E’ un messaggio di Leonardo, un ragazzo del vicentino, che mi gira un suo articolo su una nuova via realizzata:

Alpinisti dal Futuro è un nome un po’ bizzarro e forse presuntuoso da dare ad una via. Eppure per noi questa è la concretizzazione di tutte le chiacchiere sul cosa è giusto e meno giusto fare per salire. E’ quello che speriamo sia lo stile utilizzato da chi cercherà nuove linee in futuro.

Abbiamo pensato di aprire una via assieme, abbiamo visto la parete e prima ancora di decidere la linea ci siamo imposti poche e chiare regole che tanto nuove non sono: salire rigorosamente in arrampicata libera, cliff solo per piantare i chiodi, protezioni veloci lungo i tiri e soste sicure, eventualmente a spit. O passiamo a queste condizioni, o si scende e si torna a casa con la coda tra le gambe.

Questi, secondo noi, sono alcuni degli ingredienti fondamentali per garantire qualcosa da fare anche alle future generazioni di rocciatori. Oltre ovviamente al buonsenso di non farsi prendere la mano dalla voglia di aprire linee nuove saturando intere pareti che sono già piene di vie.

Con questa breve linea abbiamo voluto buttare lì qualcosa, sperando venga colto il nostro messaggio. Ci piace immaginare che un giorno, che può essere dopodomani come tra 30 anni, un giovane che vuole creare qualcosa riesca a trovare lo spazio per mettersi in gioco.

Sicuramente ringrazierà chi prima di lui ha saputo abbandonare, piuttosto di ricorrere a stratagemmi tecnici pur di salire come un carpentiere. Infatti, l’unica direzione da prendere per garantire delle possibilità anche al prossimo è quella di rifiutare l’artificiale per aprire nuove linee, altrimenti chiunque può salire ovunque e magari, nella peggiore delle ipotesi, con un trapano a batteria vincere qualsiasi tipo di difficoltà bucando a lunghezza braccio.

Aprire in libera richiede più impegno in generale e secondo noi è questo lo stile che deve essere “regola” sia per vie a chiodi normali sia per vie sportive. Tuttavia non vogliamo essere troppo categorici , ovviamente se si trova roccia blindata, bagnata o marcia (…o per evitare voli catastrofici), ben venga la chiodatura ravvicinata. L’importante è non partire da casa certi di vincere!

Le parole di Raffaele Carlesso pronunciate a fine degli anni ’70 sono da prendere in considerazione: “La mia passione per la montagna era sostenuta dallo spirito che mi permetteva superare degli itinerari e raggiungere delle cime con il principio di non profanare la natura. Intendo per profanare, adoperare mezzi artificiali, staffe, chiodi ad espansione, pertiche, compressori, ecc. Ammettevo solo la disciplina atletica che mi permetteva affrontare nelle migliori condizioni fisiche, la montagna, con l’uso di un limitatissimo numero di chiodi per sicurezza. Da quanto sopra si comprenderà il mio pensiero, nel considerare l’alpinismo e per salvarlo“.

L’articolo completo è pubblicato su PlanetMountain ed è corredato dalla relazione tecnica della salita. Il mio pensiero, leggendolo, è andato a due amici. Il primo è un agguerrito alpinista sentantenne della bergamasca. Tempo fa, con il suo trascinante ghigno alla Clint Eastwood, mi disse “Non c’è speranza contro il trapano. Birillo, ormai è troppo tardi, non li puoi più fermare”. Ma mentre lo diceva era chiaro che nè io nè lui, per quanto arduo il compito, avremmo desistito. Il secondo amico, un altro eccezionale alpinista, è invece perito in montagna lo scorso inverno. “Birillo, non ci sono più gli alpinisti di una volta purtroppo…” Mi aveva scritto. “Non preoccuparti: ne costruiremo di nuovi!” Gli avevo risposto, inconsapevole che, sebbene scherzando, quella era la mia curiosa ultima promessa ad un amico.

Pensando a questi ragazzi, agli Alpinisti del Futuro, ho però capito che ci sbagliavamo entrambi: non c’è bisogno di costruirli, di formarli. Forse sono una minoranza – gli alpinisti in fondo lo sono sempre stati – ma agguerrita e determinata. Sono più che in grado di trovare la via da soli, nonostante le difficoltà, nonostante i pericoli. Non solo, non hanno bisogno di noi vecchi brontoloni ed ammaccati nemmeno per azzittire i vari “Tromboni Genialoidi”, per evitare che questi, per ego e convenienza, asfaltino a cotimo la foresta in cui hanno bisogno di crescere prima di puntare alle grandi vette. Bene così! 

Davide “Birillo” Valsecchi

“Questo atto, questa decisione di strapparmi dell’automatismo imperante non è stato imposto, ma è frutto di ben precisa scelta e posso con esso ritrovare il bene più prezioso che è nato in me e di cui l’esistenza quotidiana mi sta lentamente, inesorabilmente privando: la libertà. In questo senso la montagna, la parete rappresentano per me l’ultimo spazio di questa nostra terra in cui l’uomo può ritrovare se stesso” Spiro Dalla Porta Xidias – tratto da “Alpinismo Perchè” di Marino Stenico (traduzioni Giovanni Rossi)  Pubblicato nel1981

In ricordo di Luigi Paredi

In ricordo di Luigi Paredi

Nel parlar di Lui, sempre mi viene in mente quel lontano giorno del 1947 – una domenica mattina – in cui incontrai Luigi; era con Sandro, Gianpietro e Felicetto. Io ed altri giovanetti eravamo seduti fiaccamente sul sagrato della Chiesa ad oziare ed i tre si fermarono con noi per dirci del loro progetto di costituire a Canzo una Sezione del C.A.I.

Accettammo con entusiasmo la proposta di unirci a loro; con un entusiasmo forse più maturo del consueto entusiasmo giovanile e così da quel giorno ebbe inizio la mia amicizia con Luigi. Un’amicizia che mi ha insegnato a conoscere, ma soprattutto ad amare la montagna, proprio come Lui la amava.

Quando noi giovani acquistammo col tempo una buona esperienza in montagna, era Lui che riusciva a frenare le nostre irruenze, dettate da una esuberanza giovanile. Luigi anche in questi casi ci dava sempre un insegnamento: come amare veramente la montagna anche nei suoi aspetti più semplici, come saperla conoscere, affrontare ed intendere in ogni sua manifestazione.

Lui, l’amava in modo vero! In un modo che pochi hanno compreso veramente e chi, come Lui, considerava una conquista anche l’arrivare în vetta ai Corni, capiva veramente che cosa fosse la montagna, che cosa significava amarla anche nelle sue manifestazioni che potevano apparire meno grandiose agli occhi superficiali di molti. Lui, aveva capito che non è la grande vetta che fa l’alpinista, ma è l’amore che si nutre per la montagna, che diventa allora la nostra « maestra di vita » nel superamento delle nostre prove.

Chi di noi non ricorda — dopo un lungo periodo di inattività — l’entusiasmo di Luigi nella sua ultima ascensione invernale al Canalone Comera? Giunti in vetta Egli gioiva come un bambino che ha ritrovato la vera gioia; quella stessa gioia che irradiava dal Suo volto il giorno in cui la montagna lo richiamò a sé, silenziosamente morendo tra i Suoi monti che tanto aveva amato.

Lascia un immenso vuoto in tutti coloro che lo hanno amato e stimato, perché al di là di ogni ragionamento, sentiamo che in quell’attimo Egli scalava la Vetta più altà, che Lo apriva alla visione del grande Mistero.

Testo di Franco Redaelli – Pubblicato sull’Annuario celebrativo del CAI Canzo, all’epoca Sottosezion del CAI Lecco, in occasione del venticinquennale della Sottosezione (!947-1972).

Io non ho mai conosciuto il mio nonno materno, Luigi Paredi. Morì in montagna quando mia madre era ancora adolescente. Non sapevo nulla della sua passione per i Corni di Canzo, e l’ho scoperta solo dopo aver approfondito la mia per la sua stessa montagna. Senza possibilità di imitazione siamo diventati, inconsapevolmente, molto simili. Qualcosa di assolutamente curioso e che rende il mio legame con l’Isola ancora più indecifrabile: avevo tutto il mondo a disposizione e mi sono fermato tra queste quattro “piccole” montagne, all’epoca per me quasi ignote, ora radicate nella mia conoscenza. Siamo il nostro passato, siamo i testimoni per il futuro.

  

Soldà  al Baffelàn

Soldà al Baffelàn

E’ venerdì sera ed ormai sono le dieci passate. Sul tavolo un caraffa di “CoppaAurora”, sulle ginocchia la nana che sorride, alle mie spalle, oltre le finestre della sala da Pranzo del Rifugio SEV, la Parete Fasana e poco distante la grande Onda del Corno Orientale e la via che porta il nome di mio nonno. Davanti a me, attraverso il buio ed una piccola folla, scorrono le immagini e le parole luminose di Ettore Castiglioni che, con il Gruppo del Berio, aiuta Einaudi e gli altri profughi a fuggire attraverso le Alpi verso la Svizzera. Ettore Castiglioni, compagno di cordata con Detassis sul Brenta, di Bonacossa in Patagonia, dello “Zio Vitale” sulla nord Badile. Per un istante mi perdo: forse sono le parole di Ettore, forse il sorriso della nanerottola che con due mani succhia felice un pezzo di pane, forse il travolgente intruglio alcolico rosastro dei Corni… per un istante l’alpinismo, qualsiasi cosa sia, mi sembra qualcosa di più importante, qualcosa che si spinge oltre il grado o le cime o le pareti delle montagne. Qualcosa la cui forza autentica trasforma gli uomini: una catarsi che li rende al mondo con uno sguardo ed una volontà capace di cambiare anche la storia. Prendere posizione nonostante la gravità, nonostante le avversità, tenere la posizione senza perdere equilibrio ed umanità. Reggere ed avanzare. Questo forse è un alpinista.

Leonardo è un ragazzo di Montecchio Maggiore, nel vicentino: è uno che arrampica forte e parla chiaro, decisamente chiaro. Per qualche strano motivo ci siamo scritti qualche rapido messaggio in passato e da allora mi capita di curiosare tra le fotografie delle sue salite tra le montagne ad oriente. Recentemente ha pubblicato una fotografia accompagnata da una severa critica nei riguardi di nuove vie sportive che, “col mitragliatore a spit”, tagliano vecchie linee perdute di Gino Soldà, a cui si rivolge con evidente affetto. “Esporsi senza protezioni”, tanto sulla roccia quanto nella vita, sembra una curiosa caratteristica naturale degli appartenenti alle tribù “NoSpit”. Da fuori non ce ne si rende conto, ma osteggiare l’avanzata del trapano significa spesso circondarsi di inamicizie e pericoli, isolarsi. Forse è anche questo che spinge a cercare conforto nelle parole dei fantasmi del passato, coloro che spesso ci accompagnano nel silenzio dell’incertezza.    

Le parole di Leonardo mi hanno spinto a cercare in un vecchio libro. Un libro che, attraverso Ivan Guerini,  mi è stato regalato da Giovanni Rossi. Un libro del 1981, all’epoca venduto al nostalgico prezzo di 12.000 Lire: “Alpinismo perchè – Confidenze e opinioni di alpinisti a Marino Stenico”. Un libro davvero particolare: oltre 80 alpinisti hanno risposto a questa domanda, di ognuno di loro è riportata la risposta, una foto ed un autografo.

Credo che a Leonardo, se già non possiede questo libro, faranno certamente piacere le parole di Gino Soldà:

Ciò che ricordo, già dai primi contatti con la montagna, è la gioia. Questa sensazione è sempre stata la protagonista indiscussa nei miei contatti con la montagna. Naturalmente questo stato d’animo ha avuto forme e tensioni diverse. Ricordo che la prima volta che ho avuto occasione di vedere la roccia da vicino (le Piccole Dolomiti) è stato nella primavera del 1919, quando avevo 12 anni, prima non si poteva andare in montagna, perché era zona militare in periodo di guerra. Sono andato con i miei compagni di scuola. Avvicinarmi alle montagne e alle rocce, mi sembrava di assistere alla rappresentazione di uno spettacolo molto piacevole, che mi dava una grande gioia. Non riuscivo assolutamente a capire le distanze che mi dividevano alle cime delle montagne e dalle varie pareti. Sfuggendo all’attenzione del maestro e sopravanzando i miei compagni, io correvo a tutto fiato verso i costoni che mi separavano dalla cima più alta della montagna, credendo di poterla raggiungere in brevissimo tempo, invece raggiunto il crinale del costone, vedevo che dalla cima mi separava prima un profondo vallone, poi altri costoni e altri valloni, ciò mi eccitava, avrei voluto superarli tutti di corsa per arrivare proprio a contatto con la Cima, senza paraventi davanti, come se la Cima fosse una misteriosa Dea; ma non potevo allontanarmi troppo, non ero libero di sognare, dovevo fare ritorno tra i miei compagni di scuola. La mia passione per la montagna che era nata piuttosto focosa ed esigente, non mi permetteva di rimanere in quel gruppo a contemplarla da lontano. Vicino al Passo c’erano le pareti, sulle quali durante la guerra da pochi mesi terminata, avevano issato gli alpini scalette in legno, scalette con corde di ferro, corde passamano per le cenge, utili a raggiungere postazioni di mitragliatrici sulle pareti. Tutto ciò destava in noi scolari molta curiosità e alcuni, sempre di nascosto, ci siamo buttati verso questa insolita avventura, perché la consideravamo un gioco attraente. Io mi lanciavo su per le scalette sempre di corsa anche se erano malandate dal tempo. I miei compagni mi seguivano per un po’; ma poi mi lasciavano andare, perché pensavano che fosse troppo pericoloso, invece io continuavo, salivo sempre più in alto, questo gioco mi piaceva molto, il vuoto mi eccitava e mi dava tanta gioia, probabilmente rispetto ai miei compagni io non avevo più coraggio, ma più incoscienza. Anche i miei primi approcci con vere pareti, a 16 anni, ma non può essere una ragione sufficiente, per affrontare tutto ciò che la montagna riserva a chi vuole misurarsi con lei fino ai limiti estremi. Io penso che questo desiderio di lottare con la montagna affondi le radici nei tempi, quando l’uomo viveva con la natura, aveva bisogno della natura e aveva necessità di dominarla per poter sopravvivere. Nell’uomo non si è mai spento l’amore per la lotta, per il rischio. Difatti un rocciatore sale volentieri sulla vetta della montagna per la via facile, ma preferisce salire per la via difficile per provare l’emozione del rischio e per l’aspirazione innata di salire sempre più in alto e sempre sul più difficile. La meccanizzazione per salire la roccia, io l’ho seguita da quando andavo in parete prima con le scarpe chiodate, poi con le pantofole dalle suole di sacco e con la corda della “liscia” (del bucato) senza chiodi, poi con i chiodi per sicurezza, (mai per appoggio. Ci si slegava e si passava dentro la corda). Più tardi io mi son fatto dei pezzi di ferro a forma di coda di porco, che dovevano servire da moschettoni, ma salendo certe volte la corda restava dentro, e certe volte veniva fuori, la sicurezza era quindi sempre incerta. Seguirono scarpette di manchon (pedule) veri moschettoni, ammesso l’appoggio sui chiodi, in qualche raro caso quando le difficoltà erano forti e in seguito, per superare difficoltà maggiori, si è cominciato ad usare le due corde. L’uso delle due corde è stato forse il passo più decisivo verso la meccanizzazione delle attrezzature per arrampicare. Avere una sola corda per salire uno strapiombo, e averne due, la differenza è enorme, perché con due corde, su una si resta appesi trattenuti dal compagno e l’altra libera si inserisce comodamente nel chiodo superiore, mentre con una sola corda durante l’azione di mettere la corda sul chiodo superiore, il peso del corpo bisogna sostenerlo sullo strapiombo con una sola mano, il che normalmente è piuttosto difficile. In seguito per gli strapiombi sono nate le staffe; le corde di canapa da 11 mm. sono state sostituite da quelle di nylon o perlon, perché le corde di canapa quando erano bagnate, passavano con molta difficoltà e richiedevano sforzi per passare attraverso i moschettoni in salita e rendevano la discesa problematica, perché non era possibile farle scorrere attraverso l’anello, quando si era fatta una corda doppia, mentre le corde di fibre artificiali scorrono in qualsiasi condizione di tempo e assicurano il ritorno a casa, e ciò è molto confortante. Anche le amache danno tranquillità nell’affrontare delle salite per le quali si prevedono dei bivacchi, perché non è necessario trovare un sia pur piccolo ripiano per evitare di passare la notte in piedi o su lacci di corda, dato che anche in pieno strapiombo è sufficiente trovare da piantare un paio di chiodi per l’amaca, però che tengano, mettersi dentro e se non fa troppo freddo, addormentarsi e riposare quasi come in un letto. Io dalla arrampicata libera, solitaria, senza corda (che sarebbe stata utile per un eventuale ritorno), seguendo la corrente, sono arrivato alla salita in artificiale, con mezzi tecnici sufficienti per superare pareti molto difficili, l’uso delle due corde, chiodi un po’ variati, due staffe fatte di tre ‘‘asole’’ fatte con cordini annodati, pedule con la suola di manchon, fino al 1937, poi dopo la guerra, la tecnica si è ancora evoluta: corde di nylon, chiodi di svariate misure, cunei, staffe con gradini rigidi e lunghe talvolta alcuni metri, scarpe con chiodi di gomma, e per i bivacchi amache, duvet con piumino d’oca, cordino per issare dalla base viveri e indumenti. Anch’io ho voluto provare questi ultimi ritrovati e assieme a Lothar Brandler e Wulf Schàfler di Monaco sono andato a ripetere la via degli Scoiattoli, sulla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, la via dei tetti. E una grande salita, occorre forza, abilità, abitudine al vuoto, resistenza. Avevo 53 anni. All’uscita del grande tetto, ero un po’ stanco e, nel punto più faticoso, per superarlo, ho approfittato di ciò che offrivano i mezzi moderni, un seggiolino. Al momento di lasciare il Rifugio Locatelli per andare all’attacco Pepi, il gestore del Rifugio osservando i miei capelli che biancheggiavano, pensò di venirmi in aiuto e mi disse: «Cino (come pronunciano loro) prendi questa tavoletta, ti servirà, l’ha adoperata René Desmaison quando ha fatto la sua via sulla Ovest». Io senza molta convinzione la presi e poi mi accorsi che Pepi aveva veramente ragione, mi è servita per rimanere fermo seduto all’attacco dello strapiombo anche ore, finche il capocordata Schàfler superava il suo tratto di corda e si metteva in sicurezza, e poi per timore di sprecare troppe energie all’uscita del tetto che è il tratto più faticoso, approfittando della tavoletta, aggeggio semplice ma molto efficace, ho superato questa grossa difficoltà, seduto sul seggiolino. Ora io sono dell’avviso che quando i mezzi ci sono, vengono usati, prima per estrema necessità e poi per abitudine. Pensando che dal semplice chiodo per sicurezza e non per appoggio, si è arrivati gradatamente ad un così alto grado di artificialità, da passare su pareti strapiombanti e molto lunghe, con un certo conforto e un certo limite di sicurezza, penso che non si dovrebbe oltrepassare questo limite, già troppo avanzato e non abbandonarsi alla tentazione di fare dei fori artificiali sulla roccia, pur di non tornare indietro o pur di procurarsi maggiore sicurezza. Le attrezzature per fare i buchi verrebbero sempre più perfezionate e a mio parere sarebbero la fine dell’alpinismo. Come ripeto, con i mezzi artificiali siamo già troppo avanti; ma c’è ancora possibilità di misurarsi con la montagna, soprattutto quando si parte da una base sicura; ma per superare le difficoltà ci si innalza su chiodi malsicuri, si prova pian piano ad appoggiare il peso sul chiodo per vedere se resiste, poi si carica tutto il peso sperando che il chiodo non si levi, altri chiodi malsicuri, finché con un sospiro di sollievo non si arrivi a piantare un buon chiodo sicuro. Altre volte invece il chiodo si leva di scatto, un voletto più o meno lungo, e se tutto va bene, un brusco arresto a penzoloni nel vuoto, oppure una botta sulle rocce sottostanti. Quando tutto è andato bene, si ritenta di nuovo e se non si può proprio passare, allora si rinuncia. A questo punto, se invece di rischiare o ritornare, ci mettiamo a fare dei buchi artificiali, nei primi tempi saranno guadagnati e sudati e forse anche malsicuri, come talvolta è già successo, ma in seguito col perfezionarsi di questa tecnica, sarebbe come portarsi dietro un ascensore. Io trovo che il maggior fascino è dato dall’arrampicata libera, effettuata su tratti verticali o leggermente strapiombanti, esposti, con piccoli appigli, che per superarli occorra buona forma, abilità, equilibrio, coraggio. Questo modo di salire più d’ogni altro dà l’emozione, la sensazione, la gioia di arrampicare. Ricordo che dopo due bivacchi in parete sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, il terzo giorno, nella parte alta della salita, abbiamo trovato una bella parete verticale con buoni appigli e mi è uscita spontanea un’esclamazione: finalmente si arrampica! Questo sfogo uscito genuino dall’intimo dell’animo, dà la misura della differenza tra l’arrampicata artificiale e l’arrampicata libera.

Mezzo Corno di Fuoco

Mezzo Corno di Fuoco

«La prima arte che devono imparare quelli che aspirano al potere è di essere capaci di sopportare l’odio» (Seneca). Domani sarà il mio 42° compleanno, il 19° anniversario della prima salita di Cima-Asso in Pakistan, il 10° da quando ho aperto questo blog, il 13° da quanto è morta mia madre, il 2° con mia moglie, il primo con la piccola Andrea. «Io vengo in pace, ma sono sempre pronto alla guerra» Questo è Birillo, il nostromo dei Tassi del Moregallo. Ma in questi lunghi anni ho forse compreso cosa sia il potere? L’odio, la pace o la guerra? Quanta strada per imparare così poco… Ho osservato il potere in molte forme, ma niente possiede la possanza della natura: una forza così assoluta da travalicare il tempo e lo spazio in modi per noi mortali inimmaginabili. La Natura non conosce pace o guerra, vittoria o sconfitta, la natura conosce solo l’equilibrio, essa stessa è Equilibrio. Un’equilibrio che scorre identico tanto nel mondo delle formiche quanto nel reame dei giganti di granito. La Natura non conosce né amore né odio: sono stati gli uomini, nella loro mancanza di potere, nella loro mancanza di equilibrio, ad aver creato amore ed odio. «Io vengo in pace, ma sono sempre pronto alla guerra» Dopo tanti anni è ancora vero? Possiedi ancora la distaccata serenità della pace? Sei pronto ad abbandonarti alla furia irresponsabile della Guerra? Le mie gambe non funzionano più: la caviglia è rigida, i polpacci tormentati dai crampi. Zoppico, arranco, spesso ho persino le vertigini. “La mente è il motore, il resto è un optional”. Forse, ma mi sento come uno rottame vagante, un vecchio camion sfuggito alla demolizione. “La guerra più difficile per l’essere umano è la guerra contro se stesso. La storia è piena di uomini e di donne che hanno vinto il mondo ma che sono crollati di fronte a loro stessi e alle loro debolezze. La debolezza è ciò che porta l’ignoranza, la convenienza, il razzismo, l’omofobia, la disperazione, la crudeltà, la brutalità, tutte cose che non faranno altro che tenere una società incatenata al suolo e il piede inchiodato al pavimento.” In gioventù aspiravo all’invincibilità di Achille, ora spero di avvicinarmi alla dignità di Ettore. Mi hanno chiamato ignorante, maleducato, provocatore, invidioso. Quante volte è già successo? E lo hanno sempre fatto indignandosi davanti alla folla come vittime innocenti. Ciechi alle proprie colpe, si sono sempre nascosti dietro i giornali, dietro gli azzeccagarbugli, dietro ai codici che essi stessi avevano travisato. Quante volte è già successo? Perché l’equilibrio scorre attraverso un dedalo di possibilità fino a scovarti, perché ti insegue nonostante tu ti nasconda in isole sempre più piccole? Birillo, la risposta è nell’equilibrio stesso: tu non concederai mai a te stesso la possibilità di perdere, per questo sulla tua strada il destino pone solo chi ha l’arroganza di voler vincere sempre. Ora però, a quarantadue anni, cominci ad intravvedere quanto logorante sia questa tua natura patetica. Ma non ho cuore di essere troppo crudele con te perché, con onestà, ogni tuo “ultimatum”, per quanto ruvido, conteneva implicitamente ed esplicitamente un opportunità di pace, un cammino possibile al dialogo, alla mediazione. Non hai mai attaccato nessuno a tradimento, attraverso i letali sentieri delle ombre, senza lasciargli la possibilità di difendersi. Ma forse è questo che vuole l’equilibrio: non potrei considerare un nemico colui che, dritto davanti a me, pronto a tutto, mi spiegasse la forza delle proprie ragioni guardandomi negli occhi. Non potrei muovere guerra contro una persona tanto simile a me. “Io ho il consenso e faccio quello che voglio” ti ha risposto qualcuno tanto tempo fa. “Io ho gli avvocati gratis” più recentemente. Già, perché il modo più semplice con cui gli uomini possono ottenere un potere simile a quello della natura, valicare i limiti dell’individuo, è ingannando i propri simili. Gli esseri umani vivono di credenze. E le credenze possono essere manipolate. Il potere di manipolare le credenze diventa quindi l’unica cosa che conta. La magia della parola è anche questo, il suo terribile e spaventoso lato oscuro, capace di corrompere e travolgere. Ma anche in questa magia scorre l’equilibrio, perché la parola possiede il potere stesso della creazione. Ma un potere simile richiede sufficiente forza per essere usato con onestà di intenti. Io possiedo ancora forza sufficiente per inseguire la verità con la parola? Le cicatrici, la mia debolezza, le mie gambe rigide, faranno cadere la mia voce in quel brulicare di vermi che, rumoroso e convulso, corrompe la parola in brusio? Tre giri attorno alle mura delle mia città al traino della biga dell’eroe trionfante, un padre in lacrime a reclamare le spoglie per un triste funerale prima che la fortezza sia vinta. A modo suo anche Ettore ebbe la croce. Io, nemmeno inchiodato a testa in giù, smetterei di sbiascicare insulti ed agitarmi: no, non ho la stoffa del martire. “Non puoi vincere, non puoi perdere: Birillo, tu sai solo ciò che non puoi…”  Fottuta incolmabile ignoranza, morde più della fame. Beati coloro che sanno sempre tutto, che sono sempre nel giusto, che con altezzosa e sprezzante superbia ti guardano dall’alto. Forse è vero li invidio, ma non per le meschinità che mi attribuiscono. Li invidio perchè la loro ignoranza spesso li consola mentre la mia non smette mai di tormentarmi. 

Il sole è ormai alto. Mi sono attardato nei pensieri ma scrivere, lasciar scorrere l’equilibrio attraverso la parola, era ormai un esigenza fisica. A lungo mi sono trattenuto: era necessario lasciar cadere la spada, appoggiare la penna, ritrovarmi sulla via della mano vuota. Speriamo di avere ora sufficiente forza per seguire la giusta via tra caos ed ordine. Oggi pranzerò con mia moglie, giocherò con la piccola, poi aspetterò la frescura del pomeriggio per salire, zoppicando, ai Corni. Settimane fa un’anziano dell’Isola mi ha chiamato: “Birillo, non ci sono più gli spit!!”. La notizia mi ha colto impreparato. “Sei sicuro?” “Credo di sì, ma devi andare tu a controllare. Io non potevo salire a vedere quando li hanno messi. Io, dove mi hanno detto che erano, ho visto solo buchi vuoti…”. Questo accadeva due settimane fa, questo dovrebbe darvi l’idea di quanto deboli siano le mie gambe: in altri tempi sarebbero passate solo poche ore. Curiosamente, in modo specularmente opposto a quanto accaduto lo scorso inverno, salgo di nuovo ai Corni per controllare una voce.  “Io porto la guerra, ma sono sempre pronto alla pace”. Vedremo cosa accadrà…

Davide “Birillo” Valsecchi

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