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In viaggio verso un posto chiamato Casa

In viaggio verso un posto chiamato Casa

Dar Es Salam Airport
Dar Es Salaam Airport

“Tafadali one Cheeseburger and one safari beer. And  Sir, please, take care of my luggage while I’m in wash room. ‘saante…”

Tradotto dall’Inglese/Swahili suona più o meno come “per piacere un panino, una birra safari e, per favore, dia un occhio alla mia roba mentre sono al bagno. Grazie”.

Pisciare in fretta sperando di ritrovare il proprio equipaggiamento uscendo dal bagno del lodge dell’aeroporto: questo è il primo dei piccoli inconvenienti del viaggiare in solitaria.

Già, perché questa volta rientro alla base da solo e, dopo tanto tempo, mi ritrovo a “pascolare” per un aeroporto senza il mio buon vecchio socio.

Enzo “Santos” Santambrogio si è infatti fermato a Zanzibar ben oltre la data di rientro, probabilmente  fino alla fine del mese.

L’ultima sera che abbiamo trascorso insieme era ubriaco di vino bianco, una specie di miraggio per i 40 giorni precedenti, e si era tuffato nudo nella piscina di uno dei più ricchi investitori dell’isola che ci aveva gentilmente invitato nella sua lussuosa villa per festeggiare un compleanno.

La cosa divertente è che quando mi sono avvicinato (più che altro per sincerarmi che non cominciasse a galleggiare a pancia sotto) era persino  riuscito a convincere la donna di un altro italiano, uno dall’aspetto vagamente furioso, a tuffarsi così come mamma l’aveva fatta nella piscina con lui.

Enzo ha ancora le foto di quando mi riportò in camera, trascinandomi per un piede in condizioni penose, alla fine di una festa alla Fenice di Venezia: direi che ora siamo pari…

Ma in fondo va bene: si è dato un gran da fare in queste settimane ed ora si trova tra persone amiche che hanno la mia piena fiducia e che si prenderanno cura di lui ( …non che non se la sappia cavare ma mi piace pensare di non averlo lasciato solo). Dopo tre anni di guai è giusto che si goda un po’ di quiete!

Enzo si ferma sulle sponde dell’oceano per svolgere altri piccoli lavori in ferro e per gettare, forse, le basi per una collaborazione che lo avvicinerà sempre di più all’Africa: non ha bisogno di me e così sono andato a farmi un “giroingiro” come ai vecchi tempi.

Davide “Birillo” Valsecchi

Alba Tropicale

Alba Tropicale

Alba Africana sull'oceano
Alba Africana sull'oceano

Ieri sera sono sprofondato nel mio letto subito dopo cena. Cotto dal caldo e dalla fatica, avevo la schiena a pezzi e mi sono addormentato dopo aver appoggiato la testa e chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti erano le tre di notte e tutto era ancora buio: visto che ero sveglio ho puntato la sveglia.

Quando il mio cellulare ha cominciato a vibrare erano le sei del mattino e dalle finestre cominciava a filtrare la prima luce. Ho infilato i calzoni e sono uscito.

Tutto è quieto all’alba, tutto sembra immobile ma in realtà tutto comincia a muoversi sempre più velocemente. Ogni volta che vedo il sole sorgere in Africa rimango sorpreso da come le nuovole comincino a muoversi in fretta, quasi scappano, all’arrivo dei primi raggi di luce. “E’ per via dell’effetto termico” mormora la mia irritante e saccente vocina interiore mentre, distratto, ascolto gli uccelli che si chiamano tra loro in mezzo ai cespugli del giardino.

Cammino lungo le tavole di legno del pontile di Babu Albert e sono di nuovo in mezzo al mare. Le imbarcazioni dei pescatori sono già in viaggio, spinti dal vento del mattino stanno superando la bariera per pescare nell’oceano.

Mi siedo ed aspetto. Sono le sei e ventitrè quando il primo incandescente filamento di luce rossa appare all’orizzonte. Provo a fargli una fotografia con la mia piccola ed ammaccata fotocamera digitale ma, sebbene sia stata con me a seimilametri in Ladakh, non ce la fa a sostenere lo sguardo del nascente sole africano. Tutte le foto si riempiono di luce abbagliante: fogli bianchi pronti a raccogliere la storia di un giorno ancora tutto da scrivere.

Prima o poi avrò una macchina migliore, intanto lascio che siano i miei occhi a godersi lo spettacolo. Poi il cielo forse si accorge di come mi fossi alzato apposta per immortalarlo e, quasi per aiutarmi, spinge un po’ di nuvole là davanti, a coprire un po’ l’irruenza del sole. Tolgo gli occhiali e con le lenti copro il piccolo obbiettivo Zeiss cercando di aiutarlo a reggere la sfida quanto basta.

Qualche scatto buono ci riesce: ti maltratto da tre anni, sei piena di graffi ed ammaccatture ma sei stata brava ancora una volta, mia piccola compagna di avventure.

Tutto avviene in meno di due minuti. Il sole, quando si sveglia, fa sempre in fretta a mostrarsi ed ora è là, già alto sull’orizzonte mentre si lascia guardare da un mondo accecato. Rinfilo gli occhiali, ripercorro il pontile e comincio a salutare le guardie che, stravolte, si risvegliano del turno di notte stiracchiandosi nel loro improvvisato giacilio.

Mi infilo in mensa, mentre Chefu è già all’opera e mi urla: “Karibu!! Madawa, fundi chuma?!” Che significa più o meno “Benvenuto!! Medicina per l’artigiano del ferro?”. Gli faccio segno con la testa mentre il collo mi fa ancora male: “Ndiyo Chefu, Kahawa!!”. Sì Chefu, caffè!!

Davide “Birillo” Valsecchi

Tropical Dawn
Tropical Dawn
Il mistero svelato

Il mistero svelato

Quando il “Napoletano” mi ha mostrato questa foto ho capito che non avrei potuto astenermi dal pubblicarla e dallo svelare il suo nome.

Come sapete qui in Africa abbiamo fatto amicizia con un “soggetto” misterioso di cui abbiamo celato l’identità nonostante sia stato protagonista di molti dei nostri racconti. Lo abbiamo chiamato “Il Napoletano” in onore alla sua città natale sebbene da anni viva a Roma.

La donna nella foto è inconfondibile: èuna delle attrici italiane più famose nel mondo ed icona di un cinema che all’epoca faceva scuola a livello internazionale. Lei è di fatto la più grande diva vivente del nostro paese: Lei è Sophia Loren.

Lui invece è il “soggetto” con cui io ed Enzo andiamo a pescare tutti i giorni sul lungo pontile di legno sull’Oceano Indiano e con cui condividiamo buona parte dei quest’avventura africana. Vi avevo anticipato come avesse alle spalle un carriera nel cinema e nella televisione molto importante. Sapevo avesse lavorato con Fiorello in teatro ma non avrei mai pensato di vederlo in una foto simile: questo scatto è del 1989 sul set di Dino Risi dove ha recitato come attore nel remake televisivo de La Ciociara proprio con Sophia Loren: Lui è Fabrizio Rodano.

Sophia Loren difficilmente si concede a simili scatti ma quella volta fece un’eccezione complice, forse, il vino di scena:“Dov’è il ragazzo napoletano che recita nel cast, chiamatelo che voglio salutarlo”. Questo pare sia stata la molla che ha portato l’attenzione di Sophia sul nostro Fabrizio.

Comei ragazzi del corso di giornalismo della scuola media di Asso, che tanto si erano preoccupati per Fabrizio (aka “Il Napoletano”) quando si era arpionato un dito,  voglio fare anche io un’intervista di una sola domanda: com’era?

“Era una donna incredibile, alta e riservata. Avvolta nella sua pelliccia era quasi inavvicinabile e nessuno si azzardava a disturbarla. Aveva un’intera villa a disposizione dove si ritirava appena finile le riprese in cui era coinvolta. Quel giorno nella scena vi era un brindisi con del vino rosso e, ciack dopo ciack, le bottiglie hanno cominciato a svuotarsi. Allegra e sorridente quel giorno era di buon umore ed inaspettatamente mi fece chiamare. Io non mi lascia scappare l’occasione e cominciammo a parlare cordialmente: una donna realmente raffinata ed elegante. Sul set era presente anche  Angelo Frontoni (il fotografo della star più famoso dell’epoca ndr.), e fu Lei a chiedere  di scattare questa foto.”

Ora il segreto è svelato. Benvenuto in squadra Fabrizio!!

Davide “Birillo” Valsecchi

Big Waves at Nungwi

Big Waves at Nungwi


Quando soffia il Kaskazi, il vento del nord, il mare comincia a scuotersi ed agitarsi. Il tonfo secco e violento delle onde che si rifrnagono sulla scogliera di corallo si sente anche laddove non si può scorgere il mare, testimonianza distratta ma viva della forza dell’oceano quando è solo annoiato.

Booom, Booom. Un suono che senti vibrare nel terreno mentre ti avvicini al pontile di Zalu. Booom, Booom. Mentre cammini sull’ardita costruzione in legno di “Babu Albert” ti domandi come possano i pali di legno scivolare tra la forza delle onde, come possano resistere indomiti ad un urto tanto violento che si schianta sulla roccia cento metri più avanti.

Eppure sei lì, sul pontile, in mezzo al mare che si scuote mentre guardi le onde da un punto di vista impossibile: quello dell’oceano.

Davide “Birillo” Valsecchi

I love U: follia, maledizioni e serpenti

I love U: follia, maledizioni e serpenti

Io ti amo
Io ti amo

Erano le sette e mezza che, per l’ora zanzibarina, corrispondono alla seconda ora e mezza del mattino. Dormivo beato quando alla porta bussò uno dei pittori, un ragazzo napoletano arrivato da poco e con una gran passione per la pesca.“Ma dormite con la porta aperta?” domandò infilandosi nel piccolo bungalow. “Chi vuoi che cerchi guai entrando qui dentro?” pensai tra me e me mentre anche Enzo sembrava resuscitare nell’altra branda.

“Devo andare all’ospedale” disse il napoletano “Mi sono piantato un’amo in un dito”. La cosa li per lì mi sembrò buffa ma quando in contro luce vidi il dito con un piercing a forma d’amo da pesca gli chiesi di avvicianarsi. Mi infilai gli occhiali e guardai da vicino. Il napoletano si era alzato alle cinque per pisciare ed era inciampato travolgendo il tavolino della sua stanza su cui aveva riposto l’attrazzatura da pesca la sera prima. Il risultato era che un rapala, un piccolo pesce finto munito di ancorette, gli si era piantato nel dito sotto il peso di tutto il suo corpo.

Aveva già tagliato con il tronchesino il pesce finto ma era nei guai perchè un amo è come una freccia:l’unica soluzione era spingere l’amo ancora più in profondità fino a farne uscire la punta, tagliare l’ardiglione e sfilare poi l’amo di nuovo dalla parte opposta. L’alternativa era incidere ma poi sarebbero serviti un paio di punti di sutura. L’incognita erano nervi e tendini ma si sà, non tutte le ciambelle escono con il buco.

Erano ormai tre ore che aveva quell’arnese nel dito e fortunatamente si era già messo d’accordo con il driver per andare in città da un dottore: questo mi sollevava dalla responsabilità di “operare” prima ancora di aver bevuto il caffè. Se fosse successo ad Enzo probabilmente lui si sarebbe scarnificato il dito da solo prima di venirmi a dire che si era fatto male: lui è fatto così.

Così come era entrato il napoletano se ne uscì e fino a sera non se ne seppe più nulla nè dell’amo nè del dito. Scesi dalla branda, mi infilai i sudici pantoloncini cachi e mi avviai per il cantiere in cerca del toscano. Il toscano era il magazziniere ed in parte il giardiniere della struttura, parlava a perfezione il swahili e vivieva qui da qualche anno dopo essersi trasferito dal Messico: un tipo stavagante dall’accento inconfondibile.

La sera prima era entrato in mensa terribilmente agitato con una storia incredibile. Nel pomeriggio era arrivato un container di porte in legno che aveva fatto accatastare in diversi bungalow vuoti. Prima di sera però gli ascari, le guardie, gli si erano presentati dicendo che le porte erano 205 quando al toscano risultavano fossero 325. Chi avesse aperto i lucchetti agli ascari permettendo di contare le porte non fu mai scoperto così come non si capì mai perchè diavolo si erano messi a contarle. Sta di fatto che le porte furono di nuovo contate per ben tre volte ed ogni volta l’esito del conteggio era imprevedibile così come era incomprensibile il curioso giro di lucchetti che improvvisamente non funzionavano più o di cui si erano perse le chiavi o che erano stati inspiegabilemente sostituiti.

La paura del toscano era che durante la notte volessero far sparire le porte oltre la recinzione: una porta è facile da smerciare da queste parti. Appena fuori dal cantiere un ex-manovale aveva tirato in piedi una piccola baracca dove vendeva birra e cognach in bustine di plastica agli operai. Le male lingue dicevano che aveva recuperato i soldi per aprir bottega dopo che una pompa idraulica era misteriosamente sparita dal cantiere il giorno prima che si licenziasse. Il toscano sapeva che se le porte uscivano dal nostro perimetro e finivano nella baracca sarebbe stato difficile recuperarle ed avrebbero potuto farle sparire con tutta calma.

Così quella notte io, Enzo e “Blu Matisse” avevamo fatto un po’ di giri di ronda ed ora ero in cerca del toscano per sapere se la notte era passata senza portare sorprese al mattino (escludendo l’amo nel dito del napoletano…). Mentre vagavo trovai il toscano che discuteva animatamente con un capannello di operai attorno ad un baobab.

La prima volta che sentii parlare di un baobab ero alle medie. La maestra di francese ci aveva fatto tradurre un brano de Il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry ed io non avevo assolutamente capito che diamine fosse questo stramaledetto baobab che sul vocabolario si traduceva solo come “baobab” senza spiegare che diavolo fosse.Per me divenne una qualche strana forma di vita spaziale che minacciava il pianeta del Piccolo Principe: uno stramaledetto alieno sgretola-mondi verso cui il principe non aveva nessuna pietà!!

In realtà i locali credono che il baobab sia stata una pianta tanto vanitosa da aver sfidato Dio che, nella sua ennesima dimostrazione di comprensione e pazienza, l’aveva sdracicata dal terreno e ripiantata a testa in giù in modo che quelli che oggi appaio come rami siano in realtà le antiche radici. Questa è in parte la ragione per cui il baobab dai locali è considerato un albero magico in grado di creare un contatto con il mondo sotteraneo degli spiriti.

Bhe, quella mattina stavano tutti a discutere guardando tra le radici della pianta tanto che mi avvicinai con cautela pensando che vi fosse qualche animale strano: “Che succede?”. Il toscano mi spiegò che c’erano dei capelli umani in mezzo alle radici, che era stato compiuto un rito sulla pianta e che per questo tutti si rifiutavano di lavorare vicino al baobab per paura della collera degli spiriti.

Il toscano conosceva a perfezione la lingua ma tutte queste storie non lo convincevano, anzi, lo irritavano parecchio. In passato una ragazza si era sentita male ed aveva avuto delle convulsione svenendo e cominciando a sbavare. Tutti i presenti credettero che la ragazza fosse posseduta da uno shetani, uno spirito maligno, e si rifiutarono di aiutarla fino a quando non la trovò, un buon quarto d’ora dopo, il toscano. Furioso chiamò uno sgangherato taxi e bastone alla mano minacciò di scorticare la schiena a legnate al primo che si fosse rifiutato di aiutarlo a caricare la ragazza in macchina. Il toscano pagò il taxi e l’ospedale, solo poi si scoprì che la ragazza aveva avuto un’attacco epilettico.

Io conoscevo la storia e potevo capire quanto stessero “cominciando a girargli” al toscano per quella storia dei capelli. Così, per tagliare la testa al toro, dissi ad alta voce:“Ci penso io!!”. Mi avvicinai ad una ragazza e con un’ampio sorriso mi feci prestare la sua scopa. Impugnandola come un’improvvisato bastone magico dissi al toscano: “Spiega loro che sono un grande mago e che purifcherò l’albero con la mia magia!!”. Il toscano, esterrefatto, tradusse mentre io con versi incomprensibili toccavo con la punta della scopa la corteccia del baobab.

Nell’99 in Pakistan mi ero spacciato per dottore “guarendo” un ginocchio con del dentifricio: con il tempo ero migliorato spingendomi parecchio oltre!!

Tenendo la scopa con la sinistra, in alto verso il cielo, mi chinai a raccogliere il ciuffetto di capelli con la destra: è curioso come i capelli dei neri formino una specie di riccioluto batuffolo irsuto. Dissi al toscano che avrei chiesto l’aiuto del mare ed avrei gettato il feticcio di capelli tra le sue onde disperdendone le magia. Mi incamminai tra gli sguardi stupefatti dei presenti verso la scogliera e con fare solenne, scongiurando improvvisi scherzi del vento, gettai i capelli in mare.

Agitando la mia scopa in segno di vittoria tornai al baobab dove ora tutti ridevano contenti inneggiando al “mgamga”, il grande mago bianco. Soddisfatto guardai tutti gli uomini tornarsene al lavoro sotto lo sguardo scocciato ed enigmatico del toscano che, in verità, sebrava chiedersi silenziosamente se fossero più stupidi loro, io o forse lui. Del gruppetto solo una ragazza si fermò immobile e, a bassa voce, disse qualcosa in swahili al toscano che, scuotendo la testa in modo flemmatico, tradusse anche per me: “Lei dice che ha capito che sei un grande mago ma ora vorrebbe sapere se le puoi tornare la sua scopa per andare a lavorare….”.

Questo era l’inizio di un’altra giornata africana e, prima che la follia si impadronisse di me, avrei dato la caccia alla mia tazza di caffè: vivo in mondo strano forte alle volte…

Davide “Birillo” Valsecchi

PS. a fine serata il napoletano tornò in cantiere. All’ospedale i dottori cubani gli avevano fatto una “lastra domestica” e dopo avergli riempito il dito di anestetico gli “strapparono” l’amo trattenendolo in due per gambe e braccia. Gli fecero la lastra ma non gli medicarono nemmeno la ferita e toccò a me mettergli un paio di cerotti.

La sera stessa, per festeggiare, andammo a bere fuori spingendoci fino alla zona turistica. Il napoletano si mise a parlare appoggiandosi con la mano ad un piccolo muretto. Vidi Enzo avvicinarsi e con decisione e delicatezza afferrare il braccio del napoletano staccandolo con lentezza dal muro. Il napoletano non sembrava capire e stava per protestare quando Enzo gli disse: “Da queste parti ci sono un sacco di cose brutte che strisciano e che trovano il caldo dei muretti interessante. Di solito poi non amano essere disturbate”. Appena sopra il muretto c’era una serpente dal manto olivastro e scuro, lungo una trentina di centimetri e dalla testa piccola ed appuntita. Aveva la pancia chiara e gonfia come se si fosse appena nutrito.

La foto del serpente è ora nell’Iphone di Enzo. Non so che specie fosse anche se mi hanno detto che da queste parti si trova oltre ai grandi pitoni anche il mamba verde ed il mamba nero. Lo scorso anno sull’isola di mafia mi ero abituato a trovare piccoli cobra ma qui a zanzibar, tranne quello di mare che ha morso Enzo, questo è il primo serpente che mi capita di incontrare.

Comunque sia il napoletano ha decisamente imparato a tenere le mani apposto in Africa…

Lo Shetani PopoBawa

Lo Shetani PopoBawa

Doctor Voodoo
Marvel Doctor Voodoo

Enzo era al chiosco a bere birra ma io ne avevo già avuto abbastanza e forse per questo sentivo il richiamo del mare, delle onde. La spiaggia di notte, totalmente buia, è il posto meno indicato per passaggiare e vagare senza meta, ma quella notte non possedevo nè denaro nè anima, non avevo nulla per rapinatori o demoni. Quella notte senza luna mi attendeva, mi chiamava, ed io lasciavo che mi trasportasse dove voleva.

Fu tra la sabbia bianca e le stelle che lo incontrai: una figura curva, seduta al margine delle palme dove nessuna luce penetra l’oscurità. Gli intravidi il volto quando aspirò avidamente dalla sua sigaretta ed il tabacco ardente ne illuminò i lineameni e gli occhi: “Mzungu, dove vai tutto solo?” mi chiese in italiano.

Mi fermai cercando di capire chi fosse prima di rispondere. Fu allora che lo vidi alzarsi e nell’oscurità mi apparve gigantesco e minaccioso. Un’ altra boccata e vidi il suo sinistro e terribile ghigno: “Sei tui il mpanga bianco che crede di poter competere con gli Shetani?” L’aria s’ impregnò di un odore acre, pungente, spaventoso. “Certo che sei tu” lo sentii ridere “Vedrai che ci divertiremo Mzungu magico!!”

Una massa scura ed informe si muoveva verso di me. Sentivo i mei sensi venir meno, cercavo di restare lucido mentre la vista si offuscava e tutto il mio corpo sembrava trafitto da mille spilli: ero finito in un gran casino!!

Era ormai a pochi passi da me e continuava a ridere, sentivo le mie gambe irrigidirsi e le forze svanire come risucchiate dal mio avversario. Ero sul punto di svenire quando una mano delicata si posò sulla mia spalla e, a quel tocco, un brivido elettrico mi percorse la schiena scuotendomi dal torpore in cui sembravo precipitato. Al mio fianco apparve suadente il corpo di una giovane donna di colore. Lei si  voltò verso di me e vidi il suo sorriso e l’ambra dei suoi occhi: era Maika, la bellissima strega del mare.

Si pose tra me ed il mio aggressore pronunciando parole che non riuscivo a comprendere. L’ombra si mise a ridere sguaiata tirando nuovamente una luminosa boccata dalla sua sigaretta. I tratti del suo viso apparivano ora bestiali e terribili, resi oltremodo furiosi dall’arrivo della donna.

Lei parlò ancora e lui rispose nella stessa incomprensibile lingua con parole inequivocabilmente dure ed aggressive. Avevo nuovamente i capogiri e sentivo le gambe cedere quando vidi la strega aprire le braccia e rispondere all’ombra con altrettanta furia e sdegno. A stento riuscivo a reggermi in piedi ed ero sul punto di cadere a terra quando apparve il piccolo Makame a sorreggermi: “Non temere, Mzungo”– sorrideva il bimbo –“Lei non lascerà che PopoBawa abbia ciò che Le è stato negato”.

Ecco chi avevo difronte: Maika la strega del mare e PopoBawa lo spirito malvagio più temuto di Zanzibar.

La strega parve illuminarsi di fuoco e fulmini mentre riprese a parlare:  il demone questa volta sembrò volerla ascoltare, sembrò costretto ad ubbidirle. Con un’ultima risata l’ombra gettò la sigaretta tra la sabbia e scomparve tra le tenebre ingoiata dal buio.

Chiusi gli occhi un istante cercando di respirare di nuovo normalmente. Prima di riaprirli sentii le morbide spalle di Maika, la sua delicata pelle, appoggiarsi al mio petto mentre i suoi glutei premevano maliziosamente contro la mia vita. Aprii gli occhi di sovrassalto e sentii la sua sua mano accarezzarmi il viso mentre la sua bocca e le sue labbra sfioravano le mie.

La donna più bella che avessi mai incontrato ancora una volta mi tentava ed il desiderio di cingere quel corpo con le mie braccia bruciava ardente nella mia mente: sarebbe bastato abbracciarla, precipitare su quelle morbide labbra, abbandonarsi alle sue sinuose forme per godere della sua disarmante bellezza esotica perduto per sempre.

I miei sensi erano di nuovo confusi e disorientati dal suo profumo, mentre tutto il mio corpo era travolto e sconvolto dalla sua magia: Maika, la stupenda strega del mare, quanto avrei voluto essere sconfitto, essere una delle sue vittime almeno per un attimo. Chiusi gli occhi e respirai, mi inebriai un’ultima volta del suo sensuale tocco e tornai padrone di me stesso.

Lei lo capì, mi sorrise ed il suo sguardo passionale si sciolse in occhi materni. Scivolando tra le mie braccia mi sfiorò di nuovo il viso allontanandosi sulla sabbia.“Tu le piaci, Mzungo, anche se non capisco il perchè” Mi disse il piccolo Makame mentre ancora affascinato guardavo la sua padrona. Il bambino mi prese per mano e mi invitò a seguirlo “Lei vuole sentire la storia delle tue piante magiche, Mzungo. Ora dovrai offrirle da bere per ringraziarla di averti aiutato a salvarle.”

Maika si girò a gardarci ed il suo sorriso mi conquistò ancora una volta. Era un demone nel corpo di un angelo: Enzo sarebbe stato davvero felice di rivederla…

Davide “Birillo” Valsecchi


Questo racconto di fantasia è la continuazione della storia iniziata lo scorso anno con Into the House of Voodoo”. Quel piccolo racconto fece talmente tanto rumore nella mia piccola, e spesso bigotta, Asso che intervennero giornalisti e persino esorcisti (incredibile ma vero).

Tutta la storià finì sui quotidiani con tanto di reprimenda pubblica da parte del mio ranocchio preferito: ancora oggi rido della cosa sebbene, per quanto mi lusinghi come canta-storie, trovo incredibile che qualcuno possa esserne rimasto veramente spaventato.

Maika, la strega del Mare, è un personaggio da me inventato che si ispira alla fattucchiera voodoo protagonista nel precedente racconto. Una figura femminile di cui ho voluto rimarcare la forte sensualità che caratterizza le donne africane agli occhi di un occidentale. Makame è il suo “famiglio”, un bambino che le fa da interprete e che vede in lei non il fuoco della passione ma il calore di una madre.

Popobawa è invece un vero shetani, uno spirito maligno, ed è tra i più famosi e temuti sull’isola di Zanzibar. Il suo nome significa “ali di pipistrello” ed è un mutaforma in grado di attraversare i muri. Aggredisce e violenta sessualmente le sue vittime, siano essi uomini, donne o bambini. Con PopoBawa si “rischiano le chiappe” (letteralmente!!) visto che sodomizza le sue vittime e per questo è seriamente temuto anche da coloro che dicono di non crederci. Il demone, inoltre, minaccia le vittime intimandogli di rendere pubblica la sua aggressione: chi, per vergogna o pudore, non lo facesse verrà di nuovo aggredito da PopoBawa.

Per quanto possa apparire incredibile nel 1995, non nel medioevo, PopoBawa provocò una vera e propria crisi di isteria di massa in tutto l’arcipelago di Zanzibar: le popolazioni locali si barricarono in casa vivendo in un clima di terrore per alcuni mesi e persino la polizia fu coinvolta nella caccia a Popobawa. Numerosi “attacchi” sono stati registrati anche negli anni successivi ed in alcune zone, specie nelle isole minori. Gli indigeni possono seriamente adirarsi se solo si prova a negare l’esistenza di PopoBawa o a trattare l’argomento con leggerezza.

Purtroppo molti antropologi sospettano che il mito di PopoBawa sia nato come giustificazione ad atti di violenza domestica. Con un simile mito è possibile giustificare ogni tipo di violenza sessuale, specie in un ambiente rigido come quello islamico. Non va dimenticato che sull’isola di Zanzibar l’omosessualità è punita con la prigione e che, a quanto pare, l’unico che possa praticarla liberamente sia proprio PopoBawa (e le sue vittime).

E’ stupefacente osservare come il mito di PopoBawa sia nato solo negli anni sessanta e condizioni, così come altri miti, la vita sociale della gente del luogo. Per chi non comprendesse il significato di tutto ciò basterebbe ricordare come ancora oggi in molti villaggi, specie quelli più isolati, l’uomo bianco sia ancora visto con sospetto e diffidenza.

Tuttavia, dopo quanto successo ad Asso nel 2010, non ho alcuna difficoltà a comprendere come ignoranza e suggestione possano condizionare la vita di questi pescatori sperduti sulle isole dell’Oceano Indiano (… e non solo!!).

“Valsecchi scrive cose offensive e prive di senso, bla bla bla … non si scherza con le religioni”. Chissà se ora, snocciolando i grani del rosario al buio delle sue colpe, avrà compreso ciò che disse la mia bellissima Maika ma anche e sopratutto il Sovraintendente: “Mzungu, ora farebbero meglio a non toccare le tue piante!”

Io, Lui ed il Serpente

Io, Lui ed il Serpente

Un cugino di quello che ha quasi fatto fuori Enzo
Un cugino di quello che ha quasi fatto fuori Enzo

Se leggete “cima” da qualche tempo, oppure se conoscete Enzo, forse già saprete la storia del serpente che lo scorso anno lo morse alla gamba.

Il nostro artista, mosso da un istinto primordiale, si costruì una rudimentale fioccina e si mise a “pescare” a ridosso della bariera corallina che circonda l’isola di Zanzibar imbattendosi in uno dei più pericolosi serpenti di mare che popolano i mari tropicali: il Pelamis Platurus.

Non raccontammo nel dettaglio la storia via Internet sia per non allarmare parenti ed amici sia perchè non eravamo ancora del tutto consapevoli del grave pericolo che avevamo scampato.

Quando Enzo fu morso non venne subito a dirmelo (e questo ha evitato che gli incidessi la gamba!!) ma si recò dai pescatori a chiedere consiglio. I locali non gli diedero buone notizie ma gli fecero capire sostanzialmente questo: “se non muori entro mezz’ora non muori più”.

Enzo fece una cosa che rispecchia a pieno il suo modo di pensare: si sedette, ordinò una birra ed aspettò due ore prima di venirmelo a raccontare.

Quello che scoprimmo solo nei giorni successivi è che quel serpente, giallo e nero, è uno dei più pericolosi in assoluto ma ha una particolare caratteristica che porta gli indigeni a credere esistano due tipi di serpente: uno velenoso ed uno no. Pare infatti che il serpente abbia una dose limitata di veleno e che dopo averla cosumata per cacciare ne rimanga per qualche giorno sprovvisto: Enzo l’ha beccato mentre era “scarico”, altrimenti sarebbe morto.

Ora siamo nuovamente a Zanzibar, in un tratto di costa oceanica a nord di dove eravamo lo scorso anno. Qui non vi è spiaggia ma una scogliera in roccia corallina su cui le onde si rifrangono in modo violento. Per entrare in acqua c’è un piccolo pontile a sbalzo sul mare da cui ci si deve calare. La manovra però non è molto semplice perchè l’acqua è subito molto alta, quasi cinque metri, e si deve nuotare rapidamente verso il largo per non essere spinti dalle onde contro gli scogli.

Io ho imparato a nuotare grazie ad una nuotatrice di “sincro” figlia di un provetto sub e quindi, con la dovuta cautela, sono entrato in acqua in sicurezza. Anche Enzo sa nuotare ma lui e l’acqua “fonda” non vanno molto d’accordo e, ad aggravare lo scenario, ci si è messo pure un ragazzino che per poco non annegava per via delle onde e del vento forte. Quando, aggrappato ad un pilone, sono uscito dall’acqua io ed Enzo abbiamo deciso che il “primo bagno” lo avremmo fatto insieme il giorno dopo con la bassa marea.

Come deciso ci siamo trovati sulla scogliera: sei metri più sotto c’era il fondale e, per via della bassa marea, l’acqua era alta poco più di una quarantina di centimetri fino alla barriera corallina. Ci siamo calati lungo la roccia ed abbiamo cominciato ad avventurarci lungo l’asciutto fondo del mare. Io mi sentivo abbastanza stupido perchè, con l’intenzione di nuotare, mi ero portato persino le pinne.

Poco oltre una foresta di ricci di mare si estedeva una magnifica lingua di sabbia bianca ed acqua azzurra. Enzo, che era davanti a me, si era già sdraito sulla sabbia quando, all’improvviso, si è alzato in piedi: “Birillo c’è un’altro serpente!!” Io non ho un buon rapporto con i serpenti ed Enzo, sapendolo, non perde occasione di prendersi gioco di me con qualche scherzo: “Non fare il pirla. C’è davvero il serpente?”. Dal tono delle imprecazioni con cui rimarcava la verità compresi che il serpente c’era davvero.

Mi sono avvicinato ed Enzo me lo ha indicato: “Ca**o!! Ma c’è davvero!! Ma porca vacca!! E’ come quello dell’altra volta?!”.

Orbene, la nostra situazione era questa: con l’acqua alle ginocchia eravamo ad un centinaio di metri dalla riva con uno stramaledetto serpente di mare a meno di cinque metri dalle ciabatte. Normalmente sarebbe bastato fare un po’ di rumore battendo al suolo per farlo allontanare ma in acqua toccava  inventarsi qualcosa di diverso.”Tiragli un sasso e fallo scappare”: sulla terra ferma avremmo anche potuto colpirlo con una sassata ma, protetto dall’acqua, la sola opzione era tirare una pietra tra lui e noi e sperare si allontanasse. Quando il sasso ha colpito l’acqua abbiamo ottenuto esattamente il risultato opposto: il serpente, incuriosito, icominciò a venirci icontro ad una velocità impressionante.

Di tutte le scelte possibili abbiamo fatto quella (forse) più sbagliata: ci siamo girati e ce la siamo data a gambe!!!

La nuova situazione era questa: dispersi in mezzo ai ricci io ed Enzo evavamo spalla a spalla scrutando l’acqua, avevamo perso di vista il serpente e tutto ciò di inteligente che mi veniva in mente di fare era usare le pinne come improbabili parastinchi anti-serpente. La situazione era così comica che nonostante tutto ci siamo messi a ridere: “Tutte a noi!! Ed ora?”

Non c’è nulla di eroico in questo racconto ma c’è gente del posto che non ha mai visto in vita sua un serpente come quello e noi, dopo che Enzo è stato morso lo scorso anno, ne abbiamo beccato un’altro la prima volta che siamo tornati di nuovo in acqua!! Quella storia del fulmine che non cade mai due volte nello stesso punto non mi ha mai convito ma così mi pare persino esagerato!!!

Piano piano, e con una certa circospezione, siamo tornati a riva arrampicandoci di nuovo oltre la scogliera. Al sicuro sulla terra ferma ho guardato il mare osservando le donne che per pescare avanzavano nell’acqua bassa con la rete. Lo sanno che esistono serpenti come quello che avevamo appena visto ma, in fondo, non ci fanno mai caso ed alla fine non li vedono quasi mai e gli incidenti sono pochissimi. Io ed Enzo, al contrario, dopo la brutta esperienza dello scorso anno eravamo talmente guardinghi che ne abbiamo trovato subito uno: “chi cerca trova”.

Questo fa riflettere su quanto spesso il pericolo sia a noi più prossimo di quello che si creda e come, al contempo, spesso nemmeno ci sfiori. La logica non trova spiegazione in questo mistero che in parte ha partorito fedi e filosofie tra le più strane. Allo stesso modo, dopo che ne hai visto uno da vicino, non è difficile capire perchè in un modo o nell’altro il serpente sia uno degli animali più presenti nei miti delle più disparate culture in ogni parte del pianeta.

Non c’è due senza tre“: staremo a vedere…

Davide “Birillo” Valsecchi

Operation Nungwi

Operation Nungwi

Siamo a Nungwi: Tanzania, all’estremità settentrionale di Unguja, la principale isola dell’arcipelago di Zanzibar. Siamo partiti con la neve ed ora, cinque gradi a sud dell’Equatore, ci troviamo nella torrida estate africana davanti all’oceano Indiano.

I “Due di Asso” stoicamente sopportano i sacrifici, le difficoltà e le privazioni che le loro esplorazioni li portano ad affrontare: guardate dove sono finiti questa volta i due disgraziati!!

Karibu gente: l’operazione Nungwi ha avuto inizio!!

Davide “Birillo” Valsecchi

[note] I “Due di Asso”, giunti nell’arcipelago di Zanzibar, trovano alloggio ed ospitalità a Nungwi presso amici italiani.

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