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Grigne: tre Birrette ed un Prosecco

Grigne: tre Birrette ed un Prosecco

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«Andiamo a farci un giro in Grigna?» La proposta di Josef era allettante. Si cammina e non si arrampica: pensavo di cavarmela facile ma mi sbagliavo. Josef voleva curiosare attorno al Sasso Cavallo perchè c’era stato solo una volta, ma di corsa, e non aveva avuto il tempo di studiarne le vie d’arrampicata: forse doveva bastare questo per farmi scattare un campanello d’allarme!

«Perchè hai fatto la val Cassina di corsa?» la mia domanda era davvero ingenua, la risposta invece preoccupante. Josef infatti aveva partecipato alla prima edizione del Trofeo Scaccabarozzi, la celebre e storica SkyMarathon delle Grigne, piazzandosi al dodicesimo posto assoluto di quella massacrante gara di corsa. Un risultato strepitoso (e spaventoso!) dato che quell’edizione era valevole per la Coppa del Mondo!

Così eccomi lì, a cercar di trovare gambe e fiato per stargli dietro: Rongio, Cassina, Bietti (Birra), Guzzi, Piancaformia, Brioschi (Birra), Scudi, Giardino, Scarettone, Rosalba (Birra), Pertusio, Manavello, Rongio, Bar Dina (Prosecco). 39292 passi, 26,70Km e 12 ore sotto il sole. Pensavo ci volesse meno …bagai, son davvero grandi le Grigne!!

La mattina, a Mandello, abbiamo fatto colazione al Bar del distributore di benzina, quello prima del ponte della ferrovia davanti alla Moto Guzzi. Appeso al muro c’era un poster di Mario Panzeri, il terzo italiano ad aver raggiunto tutte le quattordici vette più alte del mondo senza usare bombole di ossigeno (Messner, Mondinelli e Panzeri: che trio!). La sera alle nove, nuovamente a Rongio, è stato inaspettatamente proprio il sorriso di Mario Panzeri ad accoglierci entrando, come da tradizione, al Bar da Dina: anche questi incontri fanno parte delle Grigne!

Ma andiamo con ordine, rimettiamo insieme i pezzi e vediamo un po’ quello che si è riuscito a scoprire. Rongio, sul versante meridionale della Val Méria, è il punto di partenza di diversi itinerari che portano tanto alla Grigna quanto alla Grignetta. Superato il Ponte di Ferro si può salire alla Gardata, sul lato dello Zucco di Pissavacca, oppure puntare al Rifugio Elisa o alla Val Cassina, tra il Sasso Cavallo ed il Sasso dei Carbonari. In ogni caso per tutti i percorsi è tappa obbligatoria la Ferrera, la celebre grotta citata anche da Leonardo da Vinci alla fine del 1500: “… ma la maggiore è quella di Mandello, la quale à nella sua basa una busa di verso il lago, la quale va sotto 200 scalini e qui d’gni tempo è diaccio e vento”.

La Ferrera spesso prende anche il nome di Grotta dell’Acqua Bianca o Grotta del Rame, non saprei darvi certezza di quale sia corretto. Quello che è certo, così come testimonia il buon Leonardo ben 500 anni fa, è che il sentiero per arrivarci è un’interminabile biscia a scalini di sasso, tanto affascinante la prima volta quanto noiosa le successive. Quando vi renderete conto della penuria d’acqua tra le Grigne inizierete ad affezionarvi in modo intimo alla straordinaria fontana dalla Ferrara ed al suo salvifico getto continuo d’acqua gelida!

«Ci facciamo un giro dentro?» Ho preso la frontale dallo zaino e, divertito, ho invitato Josef a seguirmi. «Io non capisco cosa ci troviate!? Tutto buio, umido …fangoso!» Con qualche protesta mi ha comunque seguito nella grande sala principale. Curiosamente la maggior parte degli alpinisti che conosco entra controvoglia e con una certa inquietudine nelle grotte. La Ferrera, tuttavia, è una grotta che con adeguata prudenza può essere facilmente visitata anche da chi non ha esperienza speleo.

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Il fascino orrido dello Scarettone e la Val Male catturano lo sguardo mentre risalendo si inizia ad intravvedere il rosa dei muri del Rifugo Rosalba ai piedi della Cresta Segantini. Poi, finalmente, siamo ai piedi del Sasso Cavallo. «Davvero grande, nevvero?» In parete c’è una cordata al secondo tiro di “Cavallo Pazzo”: Josef ed io, come due turisti con il naso all’insù, ci sediamo su un sasso piatto affondando i denti nei panini che ci ha preparato Bruna. Dieci tiri per quattrocento metri di via tra diedri e fessure fisiche con passaggi che oscillano costanti sul 6b/6c. A quei due toccano una decina d’ore di battaglia sotto un sole cocente e, se non si danno una spiccia, forse anche di più!

Io, piacevolmente, oggi devo solo curiosare restando comodamente a terra. Josef invece cerca interessato la via “Oppio” tra le increspature della roccia. «Nino Oppio è uno di quei grandi che purtroppo spesso vengono trascurati». La sua via, tracciata con Oreste Dell’Era tra il 14 ed il 18 agosto 1938, è un pezzo di storia sul sasso Cavallo. Un grande costretto a rubare al lavoro il tempo per arrampicare: “…guarda le date delle mie più belle ascensioni: vedrai che cadono tutte di domenica oppure intorno a Ferragosto.” Già, ma nonostante questo parliamo di 98 ore in parete, 4 bivacchi, 220 chiodi normali di cui 20 lasciati in via: qualcosa che difficilmente trova pari nell’attuale contemporaneità! Giganti, erano davvero dei giganti!

Finito lo spuntino rimontiamo il canale della Cassina risalendo fino alla bocchetta. Al bivio la soluzione più diretta sarebbe la ferratina dei Carbonari ma il caldo, e la sete, iniziano a farsi sentire. Così, confidando nella promessa di una birra fresca, ci abbassiamo fino al Bietti-Buzzi.

Ormai è la sete a condurci. A “rebattone di sole” ci infiliamo su per il rovente sentiero Guzzi puntando verso la cresta di Piancaformia: risalgo veneggiando nei rari ma provvidenziali aliti di vento che rinfrescano la calura. Raggiunta la cresta ci appare il grande bacino nord della Grigna, il “Circo del Moncodeno”, quell’immenso “pentolone buco” che è il bacino carsico del Bregai.

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Risaliamo la cresta ma rinunciamo all’integrale deviando verso il sentiero del Ganda: ci sono troppi escursionisti sul sentiero e sarebbe sciocco, per vanagloria, centrarne qualcuno con qualche sasso dall’alto nel week-end di Ferragosto. Così, con senso civico modello, ci mischiamo alle signorine che ansimando risalgono in fuseaux verso la vetta. In fondo anche questo è parte del folclore della Grigna: alpinisti distratti che guardano il culo alle tipe mentre la “Guerriera”, gelosa ed offesa, cerca di centrarli in fronte a sassate… Le leggende hanno sempre un fondamento!

Al Brioschi la seconda birra è piacevolmente alla spina! Alex, il capanat, è piacevolmente di nuovo in piedi ed in forma dopo l’incidente dello scorso inverno (Grande Alex!) e ci godiamo due chiacchiere sulla panchina d’ingresso con Claudio. Il rifugio, come è prevedibile in questa stagione, è un via vai di gente ma nessuno sembra intenzionato a rovinare la piacevole atmosfera della vetta e del “Rifugio più amato dagli italiani”. Si sta davvero bene lassù.

Poi i Comolli sono inghiottiti dalla foschia che lentamente sale ad avvolgere il versante est. Ci rimettiamo in marcia abbassandoci al bivacco Merlini e proseguendo verso lo Zucco dei Chignoli, gli scudi di Tremare ed il sentiero della Traversata Alta. Si discende una serie di belle balze di rocciose attrezzate con delle catene (Attenzione, è un itinerario tutt’altro che banale e decisamente esposto in discesa) prima di un ultimo tratto friabile e delicato che porta al Buco di Grigna.

«Accidenti che folla!» «Già, prima uno mi ha dato una spallata passando … sembra di stare giù in centro…guarda che ressa!» Dal Buco di Grigna alla Bocchetta di Giardino sono duecento metri di dislivello in uno degli ambiti più solitari ed affascinanti tra le due Grigne. Due camosci ci osservavano incuriositi, stupiti che in quell’ora ormai tarda ci fossero ancora viandanti ad invadere i loro spazi privati. Il posto è bellissimo ma la fatica (e la sete) iniziano nuovamente a farsi sentire.

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Il sentiero dello Scarrettone, complice forse anche la stanchezza, è più lungo ed impegnativo di quanto ricordassi: ormai protetto a catene lungo quasi tutta la sua lunghezza affronta una serie infinita di roccette e canaletti tutt’altro che trascurabili. Le profondità dell’abisso sottostante ribadiscono la natura intensa e battagliera della Grignetta: non c’è troppo da menarsi via su quel sentiero!

Quando arriviamo al Rosalba abbiamo ancora un paio d’ore di luce prima del tramonto. Ci infiliamo nel rifugio concedendoci la terza birretta della giornata: Io e Josef ci divertiamo bonariamente a prendere in giro il giovane Luca, il figlio diciassettenne del rifugista. «No no, quella roccia lì non ha un nome e neppure una via. Non è niente …è roba che vien su ma che non conta. Se quelli forti non ci hanno mai aperto niente vuol dire che non ne vale la pena… roba inutile…» Immaginatevi in quale guaio si sia cacciato il giovinetto rispondendo con queste parole ad una domanda di Josef su un’evidente fessura obliqua di cento metri! Ero talmente divertito che ho persino cercato di soccorrerlo! Beata gioventù, se non vi date una svegliata non avrete mai un Nino Oppio tra i vostri coscritti!

Nella luce calda del tramonto il lungo traverso verso la cima del Pertusio è assolutamente affascinante: ripidi prati verdi e roccia bianca a sbalzo sui riflessi azzurri del lago sottostante. I camosci giocano e si rincorrono divertiti, ormai incuranti della nostra silenziosa presenza. Anche io mi diverto ad inseguire il sentiero invaso dall’erba alta: davvero bella quella parte della Grignetta.

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Superiamo il bosco di betulle e l’ultima rampa che porta al Baitello del Manavello. Le difficoltà sono ormai finite e maciniamo veloci la strada che ancora ci separa dall’abitato di Rongio. La fontanella nella piazzetta è una specie di oasi mandata dalla provvidenza. Finalmente possiamo goderci grandi sorsate d’acqua ed alleviare il sole sulla pelle: «Sulle Grigne si patisce la sete!» I lampioni sono accesi accesi, ci infiliamo delle maglie asciutte ed entriamo da Dina per confermare la teoria: «Prosecco e patatine: brindiamo al nostro giretto in Grigna!»

Davide “Birillo” Valsecchi

Ps: Le prima via storica sul Sasso Cavallo è di Gino Carugati e Giorgio Ripamonti, il 25 settembre 1910. La Oppio del 38 dovrebbe essere la terza dopo quella di Cassin nel 33.

Le Grigne al Blogger Contest

Le Grigne al Blogger Contest

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Questa volta sono nei guai, mi serve un po’ del vostro aiuto. Vedete, qualche giorno fa Elisabetta “Eli” Nava (“Amici del Brioschi”) mi ha inviato il link al concorso “Vagabondi delle montagne”, la quinta edizione di un contest per blogger. L’idea è interessante e così ho fatto l’errore di mostrarlo a Bruna, mia moglie. La mia “bergamasca” è stata piuttosto esplicita: “Se non partecipi questa volta ti stacco la testa!” 

Non è mia abitudine prendere parte alle competizioni, ma il tema è calzante nonostante il limite di 400 parole sia una gabbia piuttosto opprimente per il mio modo di scrivere: “… vagabondi liberi da mode e condizionamenti, capaci di liberarsi del superfluo. Il senso del viaggio sta nella scoperta del sentiero, negli errori di percorso, negli incontri e nelle emozioni che viviamo, indipendentemente dalla meta.” (Sito BloggerContest)

Così in due giorni ho “buttato giù” due testi. Di getto, perchè mi piace cogliere l’attimo in cui scrivo, non smacchinare troppo sulle parole, forzarle perchè si incastrino. Inoltre, visto, che il concorso è un suggerimento di “Eli” li ho scritti entrambi sulle Grigne: uno sulla Grignetta, uno sul Grignone.

Ora però non so quale scegliere. Sono due storie diverse, entrambe un po’ “borderline” sul tema del concorso (...in fondo sono un vagabondo, vado e scrivo come mi pare…). Mi scocciava però “buttarne” uno dei due, così ho pensato di farveli leggere entrambi e chiedervi aiuto nello scegliere. Testo e foto devono essere pubblicati anche nel proprio blog, ma non devono aver partecipato ad altri concorsi. Quindi siamo apposto: fatemi sapere cosa ne pensate!

Davide “Birillo” Valsecchi

#1 Stramberie indigene

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[Maggio 2011] Ai piedi della Grignetta ci aveva centrato in pieno il temporale: contavo di arrivare al bivacco Ferrario per la notte, ma i fulmini dicevano il contrario. Prima della pioggia montiamo la nostra vecchia tenda in un boschetto sopra il Rifugio Porta. Quattro giorni prima eravamo a Como: vestiti puliti, faccie riposate. Poi la Dorsale Lariana fino al San Primo, Corni, Moregallo, poi giù a Lecco e su per il Coltignone. “Facciamo il giro del Lario attraverso le 22 cime che si affacciano sul lago?”. Che malpensata …eppure fascinosa.

Pakistan, India, Tanzania, Congo: forse una volta ero un alpinista serio …perchè mi ero messo a vagabondare come uno scappato di casa tra le montagne del lago? Forse avevo solo bisogno di una scusa, di un pretesto per curiosare, per andare. Ma la faccenda non era poi tanto da ridere: duemila metri di dislivello al giorno, ogni giorno, con la tenda in spalla, sotto il sole e gli acquazzoni di maggio. Fradici e puzzolenti eravamo chiusi nella tenda mangiando pane in cassetta ed affettati: soldi ne avevamo davvero pochi quella volta. Che ironia. Sul confine con la Cina avevo tre asini, una cucina da campo e dormivo sotto un paracadute trasformato in tenda: comodo fare l’avventuriero in terre lontane!

Un GPS non potevamo permettercelo, nè avremmo potuto ricaricarlo. Per noi solo cartine bagnate in scale troppo grandi. Ogni mattina ci svegliavamo puntando a vista la montagna successiva, cercando di imbroccare il percorso più corto (…fallendo miseramente!)

Al alba, dopo il temporale, saliamo su per la Cermenati, decisi ad attraversare le Grigne in giornata: dovevamo raggiungere la Valsassina prima che chiudessero i negozi o non avremmo avuto cibo per i giorni successivi. Che vitaccia!

Al Ferrario una figura solitaria emerge dalle nuvole, probabilmente dalla Segantini, avvicinandosi incuriosita. La mattina presto di un giorno di brutto tempo: eravamo gli unici sulla Grignetta.  Noi con gli zaini carichi, lui leggero come per una distratta passeggiata. Ci sediamo insieme e gli raccontiamo la nostra storia. “Mi piace! Bell’Idea! Bravi!” Sorridente ci stringe la mano e ci saluta mentre ci avviamo verso il canale Federazione: era Marco “Butch” Anghilleri, non lo avevo mai incontrato ed è così che mi piace ricordarlo.

Ci sono voluti altri undici giorni ma lo abbiamo finito il nostro viaggio, abbiamo chiuso il nostro anello e ne abbiamo iniziati di nuovi. Grazie per averci incoraggiato, in una cupa mattina grigia, ad insistere nella nostra “stramberia indigena”.

#2 Zingarando con Efas

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Eccomi qui, sdraiato su un prato di stelle alpine con i piedi a ciondoloni nel vuoto della grande parete Fasana. Era tanto che volevo venire quassù, ma la pigrizia del “troppo lontano”… che poi è solo sull’altra sponda del lago, sull’altro versante della montagna che mi saluta ogni mattina.

Figurarsi, lontano… In Pakistan una montagna di 5100 metri porta il nome che le ho dato il giorno del mio compleanno, quando avevo vent’anni. Poi India, Himalaya, Cina ed ancora Congo, Tanganika, Tanzania: c’è un età in cui le risposte sembrano per forza lontane, e si dimentica che la prima vera avventura è stata nel giardino di casa, sulla roccia dietro il pollaio.

Eccomi qui, sulla cima del Pizzo della Pieve. ”La Grigna non è una montagna, è un mondo” diceva Cassin, ed aveva ragione: lui, Comi e Boga hanno aperto diverse vie su questa immensa parete, ma i primi ad avventuravisi nel ‘25 furono Eugenio Fasana e Vitale Bramani. Che personaggi!

Tre anni fa ho salito il camino Fasana sull’omonima parete ai Corni di Canzo, le mie montagne. Chiodi vecchi, roccia difficile, roba fuori moda. Pubblicato il racconto della salita mi hanno contattato i bisnipoti di Fasana e, poco dopo, persino la figlia, Colombina. Una nonnina dolcissima che arrampicava con Tita Piaz quando il padre vagabondava in corriera tra le Dolomiti.

Vagabondare, già, si fa in fretta a dirlo. Che poi la gente si immagina degli sprovveduti a zonzo, pronti a cacciarsi nei guai. No, forse un vagabondo non sa dove vuole andare, ma sa benissimo dove sta andando. Lo legge nelle nuvole, nel sole, nei segni del vento. Lo legge nelle difficoltà, nelle distanze, nel proprio respiro. Forse non ha sempre una cartina nel suo zaino, ma ad ogni passo quella nella sua testa si evolve, si arricchisce di dettagli e colori. Il vagabondo è un equilibrista, in equilibrio tra ciò che vuole e ciò che può, tra ciò che è e ciò che lo circonda. L’equilibrio è una magia in continua trasformazione che definisce chi sei, non ciò che fai. Una magia capace di trasformare chiunque in vagabondo, esploratore, avventuriero.

Chissà… forse anche per questo piace scrivere, raccontare. Anche questo è equilibrio, tra i ricordi ed il presente, tra noi stessi e tutti gli altri. Già, eccomi di nuovo qui, insieme a voi, in un prato di stelle alpine con i piedi a ciondoloni nel vuoto.

Davide “Birillo” Valsecchi

Nb: “Efas” è lo pseudonimo usato da Eugenio Fasana, mentre “zingarando” è un omaggio al grande Luigino Airoldi.

Buon Compleanno Birillo!

Buon Compleanno Birillo!

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Oggi, 5 Agosto 2016, la montagna Cima-Asso compie 17 anni, il sito Cima-Asso.it ne compie 8 ed il giovane Birillo oggi ne compie ben 40! Per celebrare il mio trionfante ingresso negli “anta”, mi sono concesso una nuova avventura regalandomi un’intera montagna! Già, per i miei quarant’anni i ragazzi dei Corni iniziano il loro assedio (pacifico?) alla Grigne!

Anche solo per scaramanzia non ero mai stato in Grigna da solo, era una regola che mi ero dato anni fa. Ieri do deciso che era giunto il tempo di cambiare: era ora di curiosare in tutti quei luoghi in cui non sono mai stato.

Sono partito di casa bello presto, ho parcheggiato a Balisio e poi su: Piani di Nava, San Calimero e Alpe Prabello. Qui seguendo le vaghe tracce di un sentiero (il “VenduOlt” credo) ho attraversato verso nord raggiunto la spalla sud della grande Parete Fasana. Visto che era la mia “prima volta” e visto che la traccia era scomparsa in una pericolosa e verticale giungla alpina, sono tornato sui miei passi rimontando lo spigolo Est del Pizzo della Pieve lungo la via del Cornell Bus.

Roccia e ripidi prati che costeggiano dall’alto la grande Parete, la più grande delle Grigne: un limbo dove, secondo le leggende locali, giacevano le anime non meritevoli di entrare nel paradiso. Leggende ignorate e riscritte da Eugenio Fasana e Vitale Bramani che, il 21 giugno del 1925, risalirono quell’impressionante muraglia di 800 metri.  

Mi sono ritrovato sulla cima del Pizzo della Pieve, avvolto dalle nuvole e dagli scorci d’azzurro, sdraiato su un prato verde costellato di stelle alpine tenevo i piedi a penzoloni sulla grande parete. Avvolto dal silenzio, dalla solutidine più completa. Le nuvole, la quota, la prominenza. Tutto mi allontanava dal fondo valle, dalle strade, dalle case. Le gambe, il fiato, la testa: tutto funzionava a dovere e la voglia di vagare senza meta in quegli sconfinati spazzi sconosciuti era trascinante. Continuavo a camminare sereno e l’ambiente attorno a me continuava a cambiare trasformando il mio viaggio in un’arcobaleno di colori ed esperienze.

Dal pizzo della Pieve attraverso la cresta e raggiungo l’uscita del “muro del pianto”. Risalgo in fretta fino al Broschi e, dopo uno strepitoso panino preparato da mia moglie (gioia per il palato!), mi concedo due chiacchiere ed una birretta dentro il rifugio. Volevo raggiungere i Comolli seguendo l’estiva, ma la voglia di esplorare era troppa e la tentazione ha vinto ancora una volta: dalla cresta mi sono abbassato lungo la via del nevaio, la val Cugnoletta ed il passo dello Zapel.

I prati verdi dell’altro versante erano ora sostituiti da ghiaione dolomitico, dalla neve, dai mughi: solo la straordinaria imponenza di quelle pareti inquiete era immutata. “Sai che mi piace davvero qui!” Ero emozionato da quel viaggio, dalla varietà di scenari che nel giro di poche ore avevo attraversato. Ovunque guardassi c’era qualcosa da osservare, da scoprire. Le gambe, il fiato, la testa: tutto funzionava a dovere e non mi sentivo tanto eccitato dai tempi passati in cui, cartina ed incertezze alla mano, esploravo i nomi ed i luoghi dei Corni di Canzo.

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Raggiunto il passo della stanga mi è apparsa nella sua interezza la Parete Fasana: ero  preparato, avevo girato l’angolo uscendo dalle piante ben consapevole di quello che mi aspettava… ma non è bastato. Mi sono dovuto sedere osservandola rapito: “Ma quanto è grande!? E’ infinita in ogni direzione!”. La Parete Fasana ai Corni di Canzo, la Parete Fasana al Pizzo della Pieve, la Parete Est del Monte Rosa: in quarantanni sono state solo queste le uniche pareti che hanno saputo spaventarmi ed attrarmi in questo modo. “Che bella! Devo tornare qui la mattina, presto, quando il sole inizia ad illuminarla. Che bella!”

Ma ormai è tardi, devo spicciarmi. Mi lancio lungo sentieri ignoti attraverso umidi boschi di faggio: solo i cespugli di lampone rallentano la corsa verso casa. Ai Pian di Nava mi volto per un ultimo sguardo al pizzo della pieve. Ho fatto tante cose in Grigna ed in Grignetta ma questa, nella sua semplicità, è la mia prima vera avventura tra queste montagne: “Grazie!”

Un gingillo che tenevo al polso e che ha registrato ogni mia pulsazione dice che ho percorso 23km in 34.000 passi. Non male per un giovane vecchio che è diventato un vecchio giovane!

Eccomi qui: quarantanni, da non credere… “Il mio nome è Davide Birillo Valsecchi, Fondatore dei Tassi del Moregallo, Araldo dell’Isola Senza Nome, Invasore delle Grigne”. Heheh, accidenti …riuscirò mai a mettere la testa a posto? Fatemi gli auguri, ho idea che ne avrò bisogno!!

Domani sera festeggiamo al TrueBeer. Sarà una festa meno distruttiva di quella dell’anno scorso: Bruna ha espressamente dichiarato che questa volta il tema della serata sarà “moderazione ed autocontrollo: ormai hai una certa…”. Tuttavia, visto che in quarantanni non ho mai rispettato alcun buon proposito, passate a curiosare 😉

Davide “Birillo” Valsecchi

Un benvenuto anche alla piccola Arianna, nata oggi, ed al suo papà “PeniKaNizza” 🙂

Memorie nel Maggiociondolo

Memorie nel Maggiociondolo

 

1-maggiociondoloElisabetta “Eli” Nava gestisce su Facebook il gruppo “Amici del rifugio Brioschi” (Link). Questo spazio, attivo più o meno dal 2009, negli anni è diventato un riferimento per tutti coloro che, esperti e meno esperti, frequentano le Grigne. Qui si scambiano fotografie, racconti e molto spesso indicazioni utili sulle condizioni della neve o delle vie di salita. Elisabetta è davvero brava nel mantenere questa piccola comunità che conta quasi quattromila partecipanti. In particolare apprezzo la sua attenzione verso la storia e la capacità di trasmettere rispetto e conoscenza ai neofiti che, carichi di emozioni e speranze, si avvicinano a queste cime tutt’altro che semplici.

La “Grigna” è considerata la montagna dei milanesi: il pericolo che il gruppo si trasformasse nel “Baretto dei Bauscia” era concreto ma gli amministratori, con impegno e costanza, lo hanno reso invece un luogo di “cultura” dove spesso si ha l’opportunità di confrontarsi anche con i nomi pesanti dell’alpinismo.

Giorni fa Elisabetta ha pubblicato una bella foto del Pizzo D’Eghen descivendone le caratteristiche e raccontando brevemente del Camino Cassin. Visto che giorni prima aveva parlato di Fasana e del Pizzo della Pieve ho aggiunto alla sua descrizione anche la via Fasana sul pizzo. Lo scorso anno Mattia ed Io abbiamo ripetuto la Cassin e per questo avevo raccolto molte foto ed informazioni da condividere. Ne è nata una bella discussione, in cui si rimarcava soprattutto come la prima ripetizione della via di Cassin, del ‘32,  avvenne solo nel ’75 (43 anni dopo!) grazie a Benigno “Ben” Balatti e Sergio Lanfranconi.

Quello che non mi aspettavo è che “Ben” si unisse alla discussione e che ci raccontasse della sua prima ripetizione:

Volete sapere la mia storia… Partiamo dopo il primo turno di lavoro, è un venerdì pomeriggio di gennaio del 1975 con l’amico Sergio …non mi ricordo più nemmeno la data…non abbiamo ancora deciso se fare il Dente della Fasana o il Pizzo d’Eghen. Nella piccola Fiat 500 c’è tutto il materiale che occorre. Abbiamo deciso..durante il tragitto in macchina… si va x la via Cassin. Grossi zaini – 2 corde da 40mt -15 moschettoni – circa 15 chiodi e 2 cunei di legno e 3 staffe -2 picozze di legno con qualche dentino in punta e 2 paia di ramponcini Grivel  -casco – pila -1 cordino da recuperare lo zaino più grosso – 1 saccopelo x il mio socio e x me piumino e pied’elephant”Moncler”..niente materassini nè fornello ”sono degli optionals”. Non sappiamo come arrivare all’attacco..ma come si suol dire ”vemm a occ”. Bivacchiamo in una piccola nicchia di roccia. L’indomani,sorpresa nevischia,ci caliamo nel gran canalone con una lunga corda doppia ed in poco tempo arriviamo all’attacco dell’immenso anfiteatro. La salita x il camino fila tutto liscia, ad eccezzione di un tratto che s’incastra il cordino da recupero. Giornata molto fredda.. strozzature nei camini ghiacciate e verglassate. Non riusciamo a capire dove sale la via: è tutto imbiancato. Intravedo una possiblità a sinistra di uscire dalla parete. Attrezzerò circa 15 mt lasciando una corda fissa. Bivaccheremo a due terzi della via su un terrazzo di neve. Notte insonne.. nevischia ancora. Il mattino seguente, un po’ di ginnastica e via salgo il tratto attrezzato, e qualche metro più su sorpresa “1 chiodo ad anello con cordino di canapa’. Come l’ho tocco si rompe come un fuscello. Unico chiodo di passaggio trovato in parete. Poco dopo sosto presso un mugo. Altra lunghezza di corda abbastanza facile, calziamo i ramponi, nel frattempo anche il sole fa la sua comparsa …ne abbiamo proprio bisogno… ed anche un vento boia. Risaliamo verso la vetta del Palone, non con poca fatica dato il peso dei nostri zaini e la neve crostosa che a tratti ci sfinisce di fatica …mediamente affondiamo fino al ginocchio. Usciamo in vetta verso le h15,30 del pomeriggio. Scendiamo in direzione del rifugio Bogani proseguiamo verso il Cainallo arrivando all’albergo alle h 20 di sera. Sosta…Il Gestore /che mi perdoni non ricordo più il nome/ vedendoci tirati ci offre un brodino fantastico e ci fa gran complimenti. Ieri ed oggi la temperatura è rimasta costante sotto i -11 gradi. Eravamo del gruppo Corvi di Mandello ”ORGOGLIOSI”di esserlo …e senza pensieri… avevo 20 anni e l’amico Sergio 24 ani… Una grande bella avventura ”seppur piccola” x sognatori (Benigno Balatti)

Spettacolo! Queste sono esperienze che dovrebbero essere conservate nei libri! Un sentito ringraziamento a Benigno per aver condiviso la sua salita, un grazie anche ad Elisabetta per l’impegno con cui mantiene il gruppo! Grazie!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Nel giardino dell’Eghen

Nel giardino dell’Eghen

f8-001«Se pensiamo ad una cima isolata, con accesso difficile e remonto, con sentieri di avvicinamento severi e faticosi, in ambiente a volte ostile, ma affascinante, questa cima è sicuramente il Piz d’Eghen. Esposto a Nord – NordOvest, il Pizzo è formato da una vasta parere di pilastri compatti e verticali, spesso strapiombanti, alti oltre 500 metri e che precipitano nella selvaggia Valle dei Mulini, poco conosciuta e ancor meno frequentata, anche se di notevole interesse ambientale e geologico. La perete del Pizzo è sicuramente la meno accessibile del gruppo delle Grigne, ma, come per il più noto sasso Cavallo, riserva itinerari di grande levatura e di sicura soddisfazione alpinistica. Si tratta di itinerari destinati ad arrampicatori ed alpinisti esperti, che sappiano muoversi in ambienti difficili, isolati, carratterizzati da sentieri talvolta complicati. Gli accessi alla parete, che di solito per altri luoghi rapprentano una difficoltà marginale alla scalata, qui diventano parte intergrante della “avventura”, sia per il notevole dislivello dei percorsi, sia per l’ambiente selvaggio in sui si svolgono, con difficoltà quindi non alla portata del semplice escursionista.» (“Calcare d’Autore”).

Sono passate solo due settimane? Sembra già un eternità…

Davide “Birillo” Valsecchi

I Ragazzi della Grignetta

I Ragazzi della Grignetta

i ragazzi della grignettaL’eccitazione è dovuta al fatto che stringono finalmente tra le mani la loro prima corda: 50 metri di cotone di 12 millimetri di diametro. Qualche moschettone l’avevano già comprato. Insomma, lo spartano equipaggiamento ora appare loro completo. Adesso possono cimentarsi su qualche via, arrampicare sul serio! Resta da decidere da dove cominciare. Le guglie della Grignetta le conoscono bene, dal basso. «L’altra domenica ho visto due che salivano sull’Angelina», dice Villa. E’ fatta: Guglia Angelina, via normale.

Il Boga ricorda che la prima ascensione è del 1911, fatta da Fanton e Andreoletti; quest’ultimo battezzò il pinnacolo col nome della madre. Lo ha letto sul bollettino del Club Alpino. Ed eccoli lì, risalire in sei verso la Val Tesa e il Canalone Valsecchi. Boga capocordata, Villa viene scelto come secondo in quanto conoscitore della via perché aveva visto la cordata salirla; poi seguono Cassin, Comi quindi gli altri. Pronti via, poco dopo la partenza sale la nebbia, fitta, densa, che non permette di vedere a più di due metri. Ma chi può arginare l’entusiasmo degli esordienti?

Comunque in qualche modo arrivano a un terrazzino dove possono radunarsi, seppure molto stretti. Boga guarda Villa: «E adesso?» «Non so, forse bisogna andare a destra. O magari a sinistra.» Dell’Oro scuote la testa: «Ho capito», dice e parte verso destra. Arriva su un’altra piccola cengia e con la corda fa salire Villa. Intanto Pino Comi sale sulla sinistra, sparisce nella nebbia, si affaccia sulla parete est e grida: «E’ di qui, l’ho trovata. Riccardo vieni su a vedere, che andare da solo non mi fido.» C’è un momento di confusione giù sul terrazzino, perché dall’altro lato chiama Boga: «Non è di qui, è un passaggio difficilissimo. Attenzione che faccio riscendere Mario.»

Cassin decide di salire fino da Comi, guidato dalla voce dell’amico. Lo raggiunge, è fermo davanti a una strozzatura. Riccardo si fa aiutare da lui e la supera, poi si gira e gli dà la mano così che lo possa raggiungere. Adesso sono sulla cresta est e arrivano facilmente in vetta. Lo annunciano agli amici: «Ehi, siamo su, siamo in cima.» «State lì che arriviamo», urlano dal basso. «Mi vien da ridere – dice Comi a Cassin – la corda ce l’hanno loro, dove vogliono che andiamo?»

«Mario, ci sarà poco da ridere se non arrivano fin qua», ribatte Riccardo. «Perché da qui, senza la corda, per scendere dovremmo avere le ali.» In mezzo alle folate di nebbia, però, ecco comparire un’ombra. E’ Dell’Oro che si tira dietro come una chioccia gli altri tre compagni legati alla sua corda. Nessuno sa come si scende. «M’hanno detto che è stato piazzato un anello nella roccia, per far passare la corda quando si scende», sostiene Boga. Riccardo cerca sulla piccola vetta e, sulla parte opposta a quella dove sono sbucati, lo trova: «Eccolo qui.» Fanno un nodo a metà della corda in modo che non possa sfilarsi. «Vai tu per primo, io faccio l’ultimo», dice Cassin.

Dell’Oro scende utilizzando metà corda e Riccardo lo assicura con l’altra metà, sparisce nella nebbia. Un po’ di ansia: arriverà sul terrazzino o la corda sarà troppo corta? Cominciano a valutare la loro imprudenza. Poi giunge la liberazione dalla voce del Boga: «Son giù!» Uno dopo l’altro, lo raggiungono tutti. Riccardo disfa il nodo, non avrà nessuno a fargli sicurezza! Tiene in mano i due capi della fune, che passa libera dentro l’anello di calata, le afferra e si lascia scivolare nel vuoto. La cima sparisce nella nebbia, la parete è ora davanti agli occhi; poi, sotto, le figure sfuocate dei compagni, fino al “Ci sei” del Boga.

Cassin a quel punto tira un capo della fune che, sfilandosi dall’anello, precipita con un fischio sul terrazzino. La loro prima ascensione era, in qualche modo, compiuta.

– Tempo fa avevo letto uno scritto in sui si raccontava di come Cassin e Boga, quando non arrampicavano insieme, si contendessero come “secondo di cordata” un alpinista locale di grande pazienza e capacità. Un alpinista famoso di cui, tuttavia, non ricordo il nome (credo fosse Giuseppe Comi). Cercando in rete quell’articolo mi sono imbattuto in questo passaggio tratto da “Cento anni in vetta. Riccardo Cassin. Romanzo di vita e alpinismo”, un libro scritto da Redaelli Daniele per Alpine Studio (Link IBS).

Senza volerlo ho trovato qualcosa di altrettanto prezioso: il racconto della prima salita di Cassin e compagni.

Davide “Birillo” Valsecchi

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Spigolo Vallepiana Piramide Casati

Spigolo Vallepiana Piramide Casati

DSCF7302AsenPark e BadgerTeam: le bestie sono a piede libero in Grignetta! Era tanto che volevo organizzare qualcosa insieme e, finalmente, l’occasione si è presentata. Davide “Girabachin” Bernasconi è uno dei ragazzi del Canalone Comera, un membro della pattuglia AsenPark che nell’inverno del 2013 ha affrontato l’impegnativa discesa dal canale del Resegone (JollyComera). Per lavoro ci si vede sempre più spesso e così, asini e tassi, ne hanno approfittato per un giretto insieme in Grignetta.

Davide, la scorsa stagione, ha centrato in pieno un albero ed questo lo ha costretto ad un lungo e forzato stop. La nostra non solo era la prima uscita insieme sulla roccia, ma anche la sua prima salita dopo l’inofortunio. Per questo, visto che anche io sono inconfessabilmente “scarico” per via del Pizzo d’Eghen, ci siamo dati una meta impegnativa il giusto e non terrificante: lo Spigolo di Vallepiana sul versante SW della Torre Casati.

La via, tracciata nel 1933 dal Mitico Gandin e dal Conte Vallepiana, mi interessava molto. Sul nostro Corno Occidentale esiste un repulsivo ed ostile camino che porta il nome Gandin proprio perchè nel 1934, la celebre Guida Alpina delle Grigne, vi tracciò la “Direttissima alla parete Sud”. Una via misteriosa ma evidente con i suoi quaranta metri di V attraverso erba e roccia friabile che risalgono al Passo della Vacca: prima o poi Mattia ed io dovremo dargli un’occhiata e quindi volevo “conoscere” il signore Gandin.

L’avvicinamento, attraverso la Direttissima prima ed il sentiero Giorgio poi, è una piacevole passeggiata tra le straordinarie architetture della Grignetta. Oltre il lago i Corni ed il Moregallo mi strizzano l’occhiolino mentre “flirto” con quell’universo di guglie e torrioni.

Troviamo senza troppa difficoltà l’attacco ed iniziamo ad imbragarci. Davide, così come è abituato, vorrebbe tirare a sorte per decidere chi parte per primo. Io però sono fatto a modo mio e sono davvero poche le persone con cui mi lego, a cui concedo tale fiducia. Cerco di essere delicato ma taglio corto: “Naaa, faccio io. Poi al massimo ci diamo il cambio…”

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Il primo tiro si impenna senza tuttavia essere troppo severo: in trenta metri ci sono due fittoni e vedo di farmeli bastare. Davide mi raggiunge senza difficoltà ma mi accaparro anche il tiro successivo dall’aspetto più severo. Credo che la linea originale passi sulla destra, seguendo una comprensibile linea di rocce rotte. Un nuovo fittone resinato invita invece a puntare più sulla sinistra dove la roccia si fa più solida ma aumenta l’esposizione e la difficoltà.

Accetto l’ingaggio verso sinistra sebbene quello non sia affatto un passaggio di IV ma sia parente stretto del V. Mi muovo lentamente, non ho le energie mentali per sfidare la gravità, per “reggermi”. Così mi rilasso, scelgo solo movimenti senza sforzo ed inizio a guadagnare ogni passo con piccoli spostamenti. Tasto ogni appiglio attardandomi e frammentando ogni passaggio. Quando arrampico in quella maniera Ivan dice che assomiglio ad un orsacchiotto: un orsacchiotto che riesce ad essere goffo e delicato allo stesso tempo.

Ogni volta che stacco un piede o una mano dalla roccia ne ascolto il movimento. Se il gesto è fluido e lineare, accompagnato dall’equilibrio di tutto il corpo, so che è un buon gesto, che la mia posizione è buona. Ivan e Joseph associano spesso l’arrampicata allo “Yoga”, io invece credo di essere più “Zen”: scompaio e mi muovo attraverso il “vuoto”.

Immerso nella mia arrampicata sento Davide, sotto di me, accompagnare i movimenti più complicati con un “Alè!”. Sono sorpreso, non è la nostra consuetudine, non ci sono abituato e la cosa a tratti mi diverte: le differenze sono il cuore di un incontro.

Mattia, quando affrontiamo passaggi difficili, mi descrive quello che vede e quello che intende fare affinchè io possa manovrare le corde. Allo stesso modo io gli descrivo il mio punto di vista dandogli conferma, rapida e chiara, ai suoi comandi ed alle sue domande. La nostra cordata è un carro armato: lui pilota, io carico il cannone. Ivan, quando la faccenda si fa spessa, si limita a dire “ora seguimi bene”. Joseph invece entra in modalità “alieno” e semplicemente “passa” in barba alla logica. In sosta ciacoliamo come zabette ma mentre si arrampica siamo per lo più in silenzio. Quello di Davide è probabilmente il primo “Alè duro!” della mia vita e la cosa non mi dispiace perchè c’è dell’affetto sincero in quell’incitamento.

Arrivato alla sosta inizio a recuperare la corda. Dall’alto l’esposizione verticale della via appare in tutta la sua magnificenza. Davide risale e finalmente appare come un sorriso appeso nel vuoto oltre la roccia: ”Accidenti: hai capito il signor Gandin!”.

Di nuovo in sosta insieme capisco che è carico e scalpita. “Dai, fattelo tu il prossimo passaggio che io in camino ho dato abbastanza di recente” Davide riparte e da subito capisco che non ho motivo di preoccuparmi. Senza difficoltà si mangia il tiro, piazza saggiamente un paio di protezioni veloci, e mi recupera alla sosta. “Un tiro bello speleo, no?”.

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Arrampicando da secondo sale a galla tutta la stanchezza ma la giornata è luminosa ed il mio compagno di cordata è più che affidabile. Me la godo e lascio che si diverta anche nel quarto tiro: “Sono un vecchietto al suo confronto! Va più di me!”.

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“Beh, ora siamo pari e l’ultimo tiro è mio!” Mancano poco meno di dieci metri ad uscire dalla cresta. C’è un evidente lama che Davide mi consiglia di tirare in Dulfer. Io obbietto “Sono troppo vecchio per appendermi, ora ti faccio vedere come passo a modo mio!”. Per evitare la mini-dulfer mi incarto in un movimento senza senso fatto di raccapriccianti opposizioni ed incastri. Davide scoppia a ridere: “Come direbbe il buon Gigi che Sbatta: sembri un vecchio che cerca di scopare!”. Incastrato cerco di ridere senza venire a basso: “Pischello, conosco gagliardi settantenni che si scopano quarantenni che tu nemmeno ti immagini!” Con uno scatto d’orgoglio, in appoggio sul casco, esco da quel movimento insensato e passo oltre ghignando.

Dalla cresta, in conserva protetta, raggiungiamo l’obelisco metallico della vetta. Ci accoliamo tra le rocce godendoci il sole e le poche vettovaglie nei nostri zaini. Nessuno di noi due era mai stato lassù: “Accidenti! Certo, non sono i Corni, ma il posto è assolutamente notevole!”  Sghignazziamo insieme prima di scendere lungo il crinale opposto verso il sentiero dello scarettone.

Sono più stanco di quanto sarebbe opportuno ma la giornata è stata piacevole e chiacchieriamo lungo il cammino di ritorno. Al 2184 Sara ci riempie i boccali di birra e gazzosa e mi presenta come “La persona in grado di sparare il maggior numero di cagate nel minor tempo possibile”. Riesce a farmi ridere mentre affondo il naso nel bicchiere, ma Davide obbietta “No! No! Dovresti vederlo Birillo in montagna: si trasforma, non hai idea di come faccia il serio!”. Povero me, comunque la si metta ho una pessima reputazione!

La nostra arrampicata è stata un vero piacere: MOS!

Davide “Birillo” Valsecchi

Curiosità: Davide usa la parola “scalare” mentre io uso il termine “arrampicare”. La differenza tra le due espressioni è piuttosto singolare. Arrampicare deriva da rampàre del quale è requentativo: proprio degli animali che salgongo aggrappandosi con forza agli artigli; indi per similitudine salire per luoghi erti aggrappandosi con le mani e coi piedi. Scalare invece deriva da “montare con scale”, specialmente nel linguaggio militare, per sorpresa o di viva forza sulle mure nemiche. Come ho detto: le differenze sono il cuore di un incontro!!

Via Cassin Pizzo d’Eghen

Via Cassin Pizzo d’Eghen

Riccardo Cassin e Giuseppe Comi tracciarono la via il 4 settembre del 1932 seguendo le indicazioni di Eugenio Fasana che nel 1926 aveva tracciato una linea di salita nel grande canale sulla destra. La via, che corre 300 metri in un grande camino, è rimasta irripetuta fino al 1975. La prima ripetizione è di Benigno Balatti e Sergio Lanfranconi. Nonostante il prestigio della via sono pochissime le ripetizioni.

Grazie ad un sopralluogo, fatto mesi fa, abbiamo trovato una linea che permette di attraversare dalla Ghiacciaia del Moncodeno raggiungendo lo zoccolo a metà della sua altezza. L’avvicinamento attraversa uno scenario alpino assolutamente selvaggio ed inconsueto per le nostre montagne. A tratti, tra i mughi ed i rododendri, avevo l’impressione di ritrovarmi tra le alpi Carniche.

Risaliamo lo zoccolo con due tiri da quaranta raggiungendo la cengia erbosa prima del lungo traverso verso sinistra. Ci sono delle fisse in loco ma ormai piuttosto datate. La base del camino è molto aperta e si deve risalire un cono erboso più ripido ed impegnativo di quanto si tenderebbe a credere. Si fa sosta su uno spuntone. Il secondo ed il terzo tiro offrono un primo assaggio delle difficoltà che ci attendono. Due passaggi di VI uno dei quali richiede un A0: “Il passaggio è aereo ma si mantiene nel quarto” scrisse Cassin e questo dovrebbe darvi idea di quanto sproporzionatamente grande fosse il suo talento a ventitre anni.

Avanziamo bene, proteggengo a friend e piazzando quelche chiodo strategico. La partenza del quarto tiro è roccambolesca. Ci si incastra di corpo in una spaccatura a destra. Questo deve essere il tratto in cui probabilmente Cassin si appoggò in piedi sulla testa di Comi perchè, una volta che Mattia si è incastrato, ho dovuto allungarmi bloccandogli i piedi con le mani affinchè riuscisse a spingersi oltre.

Superata la strettoia si affronta un passaggio tutt’altro che banale in placca che risale dapprima verso sinistra e traversa sotto uno strapiombio verso destra raggiungendo una piccola cresta rotta. Le corde hanno cominciato a scorrere male e così Mattia, piegando verso destra, ha trovato una sosta a spit appena fuori dalla linea del Canale. Visto che le corde erano quasi bloccate mi sono legato a metà infilando il resto nello zaino. Raggiunta la sosta abbiamo attraversato verso sinistra riprendendo il camino. Qui il “ballo” si è fatto serio.

Avevamo atteso due settimane di bel tempo per affrontare la salita. Credavamo che questo ci avrebbe dato l’opportunità di affrontare “l’orrido camino” in buone condizioni. Non potevamo fare sbaglio più grande. Il camino è infatti largo un metro e qualcosa ma si infila nella montagna a tratti anche oltre sette o otto metri. Al suo interno scorre una persistente aria gelida che, imbattendosi nel caldo atipico di questi giorni, crea un’ intensa condesa che a volte appare visibile persino come vapore. La roccia trasuda, è fradicia e viscida come un sasso che in un fiume viene bagnato ad intermittenza dallo scorrere dell’acqua.

Avanziamo in opposizione superando grossi massi incastrati. Per uscire dal camino ci sono due tiri verticali ed il secondo è assolutamente terrificante. Mattia è uno straodinario caminista con una grande esperienza nell’esplorazione speleo tanto in Grigna quanto nel Triangolo Lariano: è un “trattore” e quello è il suo “ambiente”, ma nonostante questo non l’avevo mai visto tanto al limite, tanto vicino ad essere soverchiato dalle difficoltà. Dà tutto ciò che ha e quasi non basta.

Sul viscido piazziamo quante più protezioni possibili ma questo ruba tempo e la progressione si fa incerta, difficile e tremendamente lenta. Superiamo la quinta lunghezza ed attacchiamo la sesta. Mattia risale rocce rotte e si infila per quasi otto metri in una profonda forra nel cuore del camino. Sul fondo intravvede una luce filtrare dall’alto. I racconti di Cassin parlano di un gioco di incastri tra massi uscendo poi da un “foro inattravesabile”. Lo spettacolo è tuttavia agghiacciante, l’unica certezza è il muschio.

Mattia ritorna al bordo del camino e vediamo i chiodi artigianali ad anelli della variante Mandelli che risale verticale fino ad un grosso sasso aggettante. La nostra sola via d’uscita è un 6c su roccia fradicia. Mattia dà il meglio di sè, integra con qualche chiodo nelle posizioni più scomode e raggiunge il “canapo” sotto il sasso. Il passaggio è assurdo ed esposto come niente fino a quel punto. Mattia è costretto a fidarsi del canapo per girarsi, uscire dall’opposizione sul viscido e rimontare il masso aggettante.

Superato il masso piazza un chiodo a sinistra di un chiodone già presente, aggiunge un friend e crea una solida sosta a tre punti. Le corde non scorrono e così, ancora una volta raggiungo la verticale con metà delle corde nello zaino. Mattia si sporge oltre il sasso e mi urla “Fai quello che vuoi ma fallo in fretta!” Le alte temperature di questi giorni stanno per giocarci un’altro brutto scherzo: sopra il lago si sono addensati grandi nuovoloni neri ed un temporare di calore avanza minaccioso all’orizzonte. Mi infilo in quella “melma viscida” mentre l’eco dei tuoni si fa sempre più vicino.

Tra i chiodi ad anello abbiamo piazzato un paio di chiodi nuovi. Vorrei schiodare facendo attenzione a non rovinare la roccia ma la situazione si fa pressante, li lascio lì e sbuffando passo oltre. Supero il masso e stravolto in qualche modo arrivo in sosta. Il nero si è infilato nella valle e punta dritto verso di noi.

A sinistra del camino c’è un chiodo e poco più avanti un fix che punta verso una sosta di quella che dovrebbe essere la variante Balatti o “Prigionieri dei Sogni”. La faccenda si sta facendo pressante. Lasciamo il chiodo ad U nella sosta ed iniziamo il primo dei due traversi che dovrebbero portarci verso la cresta. Mattia attacca il secondo tiro e a metà mi urla “ARRIVA! Piazzo quante più protezioni posso! Arriva!!”. Il rumore della pioggia sugli alberi, qualche migliaio di metri più sotto, avanza inquiente accompagnato dal rumore dei tuoni e dal bagliori dei lampi.

Quando Mattia chiama la sosta siamo ormai investiti dalla pioggia. Davanti a me ho un tiro di trenta metri tutto in orizzontale, tutto su placca ormai fradicia. In inverno ci siamo allenati spesso ad arrampicare sul bagnato ma quello che ho davanti è qualcosa per cui non esiste allenamento. “Peccato, mancava così poco…” Un attimo di profonda tristezza mi assale, forse un rimorso o qualche rimpianto, poi spingo i motori a tutta forza.

Parto, supero un chiodo e proseguo. Mattia ha fatto un gran lavoro sfruttando clessidre e piazzando i friend. Avanzo appoggiando con attenzione i piedi sul bagnato. Avanzo, avanzo. Poi stacco le corde da un rinvio attaccato al cavetto metallico di un nat. Questione di un istante: volo, vado giù.

Tutta la mia realtà si condensa in un urlo: “MATTIA!” . Pendolo cinque metri sotto una clessidra, la corda si blocca, sbatto, d’istinto afferro una presa, piazzo un piede in appoggio attendendo che la clessidra esploda e mi frani addosso prima che la corda torni lasca. Ma la clessidra tiene: sono appeso su un vuoto infinito sotto la cima del Pizzo d’Eghen, su una placca bagnata mentre i fulmini del temporale ci sono addosso. La vita è strana alle volte.

Non posso esitare. “RIPARTO” “Davide! Tutto bene?” “BLOCCA LA GIALLA! RECUPERA LA BLUE!” Non posso esitare, non posso pensare, devo reagire. Inizio a ringhiare come un animale nella pioggia. Risalgo, chiudo il traverso e rimonto le rocce rotte fino alla sosta sui mughi dove mi aspetta Mattia.

La pioggia si attenua, sembra darci tregua anche se all’orizzonte altre nuvole nere e più cattive si avvicinano veloci. Finalmente riusciamo ad infilarci i K-Way sopra i vestiti fradici: “Ho fatto un gran volo Mattia, ho fatto davvero un gran volo…”

Avanziamo tra i mughi e le rocce della cresta cercando di raggiungere la cima. Dobbiamo andarcene, dobbiamo andarcene in fretta. Accendiamo le frontali, il buio che ci circonda rende ancora più spaventosi i lampi viola che illuminano il cielo. Dalla cima dobbiamo scendere fino alla sella e risalire fino al Palone. L’aria è imbarazzantemente elettrica mentre ormai alla cieca avanziamo a zig zag attraverso ragguardevoli passaggi sul profondo buio: “Siamo fottuti, non c’è modo di farcela in queste condizioni…”

Mattia vuole insistere ma proseguire è ormai follia: “Dobbiamo nasconderci!!” Troviamo una piccola nicchia al riparo dal vento. Scaviamo con le mazzette quanto basta per poterci stare entrambi. Abbandoniamo tutto il materiale in una cavità qualche metro più in là e ci seppelliamo fradici nel nostro buco, avvolti stretti in una metallina. Restiamo lì, attendendo che il temporale passi portandosi con sè la notte, il buio ed il freddo.

Alle quattro ed un quarto la sveglia del mio cellulare, come il mattino precedente, inizia a suonare ironica. L’alba non è distante e la pioggia è finita. L’aria fredda risale la valle e si infila sotto la metallina ed i pantaloni bagnati. Stretti uno contro l’altro tremiamo come foglie ma iniziamo a sghignazzare: forse ce la si fa.

Il sole sorge ma attendiamo a lungo che si alzi e che si faccia caldo per uscire dal nostro loculo. Lenti iniziamo a sistemare le nostre cose. La giornata si annuncia luminosa e splendente. Nella notte avevo piazzato una bottiglietta per raccogliere dello stillicidio ma la cattura è stata magra e sconsolante. “Ironia: tutta quell’acqua presa e finiremo con il morire di sete..”

Carichiamo nello zaino i nostri stracci bagnati e ritiriamo demoliti verso la Bogani. A differenza di Cassin noi troviamo la “Capanna Monza” aperta e la famiglia Bendetti, gentile e premurosa come sempre, placa la nostra sete. Abbandonati su quella panca finalmente la nostra avventura si conclude: “Bhe, siamo ancora qui a raccontarla…”

Certo, ogni volta che guarderò il Pizzo d’Eghen mi spunterà un sorriso compiaciuto all’angolo della bocca, tuttavia quello che Libéra ha scritto sulla quarta di copertina di “Dove strapiomba la roccia” è un assoluta verità. Confrantandoci con la grandezza di chi ci ha preceduto siamo davvero poca cosa, fanciulli, bambini viziati che giocano con gli affari seri degli adulti. Ridicolo il modo in cui in un’autoscatto ci illudiamo di essere forti facendo boccaccie appesi ad una sosta a fix.

“…troppe cose sono cambiate; non siamo cresciuti con la ferrea educazione data da una guerra e con la miseria che ne consegue. Non siamo abituati al sacrificio ed alla fatica e, se Cassin dava il merito di uscire da queste tremende prove al fatto che loro stessi fossero “più forti della tempesta”, non deve stupire se oggi ci si piega al minimo alito di vento. L’alpinismo è cambiato perchè gli uomini sono cambiati”. Rossano Libéra.

Credo di non essermi mai spinto tanto oltre in vita mia e probabilmente ho solo sfiorato la realtà delle cose. Incredibile il sorriso che certi ricordi terrificanti riescono a suscitare, forse c’è una punta di follia in tutto questo. La tradizione recita “chi arrampica ai Corni di Canzo arrampica ovunque”, ma sto giro l’abbiamo davvero combinata grossa: ancora una volta è stato un privilegio arrampicare con il mio socio. Grazie Mattia.

Davide “Birillo” Valsecchi

Via Cassin Pizzo d’Eghen
3/4 Luglio 2015, Mattia Ricci e Davide “Birillo” Valsecchi
(“I Ragazzi dei Corni”).

Note tecniche: per via della nostra frettolosa ritirata abbiamo lasciato due chiodi sulla sesta lunghezza. A coscienza di chi verrà decidere se lasciarli o toglierli con attenzione. Anche oltre il sasso del “canapo” abbiamo lasciato un chiodo ad U nuovo di pacca ed estremamente solido. Utilizzando l’altro chiodo presente ed un friend piccolo è possibile fare una solida sosta a tre punti da cui tenere d’occhio il compagno. Sul traverso della variante Balatti, dove sono volato, è rimasto un rinvio verde appeso ad una clessidra. Quei rinvii sono stati nostri compagni in tante avventure. Se qualcuno dovesse recuperarlo sarebbe per noi una straodinaria gioia riaverlo, ascoltare la vostra storia ed offrirvi da bere. Un fraterno abbraccio a tutti coloro che affronteranno il camino: testa sulle spalle bagai!

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