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La tazza di Dumbo

La tazza di Dumbo

Le nanerottole si sono svegliate in contropiede, anticipano ogni mia intorpidita mossa: ho la coordinazione e la rapidità di un bradipo che nuota mentre cerco di preparare la colazione. La più grande vuole andare all’asilo ed io, disperatamente, cerco di spiegarle che è ancora troppo presto, che l’asilo rimarrà chiuso finchè il sole non illuminerà il Resegone. Ma il tempo è una faccenda dannatamente complicata. Entro in cucina: “Alexa: buongiorno, musica rock, volume 4!” La mia versione domestica ed edulcorata di Hal9000 mi saluta dolce e mi propone una selezione casuale di musica rock anni ‘90: in fondo anche lei l’ha capito che sono vecchio dentro! Parte “Zoombies” dei Cranberries, datata 1994. La mia mente riesuma per un istante i ricordi della gita scolastica a Parigi in quarta liceo. Già, ero rimasto da solo, bloccato nel vagone sbagliato, lontano da quello della mia classe. Già, ma era il vagone di una classe di sole donne del linguistico di Lecco. Già, io avevo una zaino pieno di cose da mangiare ed un barattolo di Nutella: 10 ore di viaggio notturno. Come un buon pescatore avevo messo l’esca all’amo aspettando che la preda abboccasse: Valentina, credo questo fosse il suo nome. Beata e spensierata gioventù. “In your head, in your head. Zombie, zombie, zombie-ie-ie. What’s in your head, in your head. Zombie, zombie, zombie-ie-ie, oh”. Sono passati 26 anni, i ricordi vanno e vengono come una scintilla mentre, con una nanerottola aggrappata alla gamba, cerco di mettere caffè nella caffettiera. “Cosa c’è nelle tua testa Zombie?” Dolores O’Riordan è morta nel 2018, annegata nella vasca da bagno dopo una sbronza colossale. Lei non c’è più e vive nelle sue canzoni,  noi siamo ancora qui e vaghiamo senza scopo: chi è lo Zombie? Verso il caffè in un tazza ed aggiungo una quantità esasperata di zucchero (“…perchè Cassin nelle spedizioni portava un chilo di zucchero per ogni giorno di spedizione!”). Porto alle labbra il caldo nettare quando la nanerottola più grande fa la “bocca a quadrato”, chiude gli occhi, inclina la testa ed innalza al cielo un lamento furioso che più che un pianto sembra un richiamo atavico a qualche forma di comunicazione pre-umana insita nel mio genoma. “Andrea, che c’è ora?” Sua madre compare alla porta, mi squarda ed all’istante coglie il senso di quell’universo agitato che mi sfugge: “Hai preso la sua tazza di Dumbo. Non devi prendere la sua tazza di Dumbo”. Rovescio il mio caffè in una tazza anonima, sciacquo Bumbo nel lavandino e lo restituisco alla sua legittima proprietaria che, con sguardo di rammaricata disapprovazione, fa appello a tutto l’affetto che prova per il suo papà nel disperato tentativo di perdonarlo per il suo imperdonabile errore. Sospiro. Vivo con tre femmine e quattro gatti: me la sono cercata. Mi allungo sul mio caffè, esito un istante, poi ne prendo un sorso socchiudendo gli occhi. “Alexa: mi vuoi bene?” “Ti voglio bene come ad un amico” Friendzonato dalla domestica digitale: quanta amarezza. Tre ore dopo sono in mezzo alla neve, sulla cima del Ceppo della Bella Donna mentre il sole scompare alle spalle del Corno Centrale. L’ombra avanza, fa un freddo cane e soffia un vento tagliente da Nord. La neve è coperta di scaglie gelate ma è farinosa: affondo fin sopra il ginocchio addentrandomi nel bosco in cerca di una traccia verso casa. Saluti dal Quinto Corno!

Davide “Birillo” Valsecchi 

  • Corno Orientale e Corno Centrale dal Ceppo della Bella Donna

  • Cima Moregallo e Cresta Occidentale dal Ceppo della Bella Donna 

Ferie Giallo Birone

Ferie Giallo Birone

“Chi cammina sulla neve non può nascondere il suo passaggio.” Il sole illumina ogni cosa come non accadeva da giorni. Dopo la grande nevicata di fine anno è la prima volta che vedo il cielo brillare di questo azzurro intenso sul bianco che avvolge ogni cosa. Il mondo sembra “normale”, o forse è semplicemente incurante, come sempre. Un tempo erano importanti i giorni della settimana, dal Lunedì alla Domenica. I giorni del mese, dal primo fino al giorno di paga. Poi giusto quelli che restano fino all’inizio del mese successivo. Già, i mesi, divisi di quattro in quattro con le stagioni a scandire il viaggio della Terra attorno al Sole. Le stelle si fondono con le minute faccende umane e danno vita a queste complesse e complicate convenzioni. Elaborato tentativo di governare un mondo che, anche in un azzurro splendente come oggi, ci ignora tra il divertito ed il fastidiato. “Di che colore è oggi?”. Un’infrastruttura digitale avvolge il pianeta dando vita ad una specie di telepatia condivisa… ma io non riesco mai a capire di che “colore” siamo oggi.     

Forse è venerdì, credo sia venerdì, quindi questa sera niente spazzatura in ciabatte e mascherina giù in strada. In fondo è già qualcosa. Quello che conta davvero, mentre la nebbia si dirada dalla mia mente, è che siamo “gialli”. Già, oggi chi non lavora può varcare la soglia del proprio comune avventurandosi verso le meraviglie imbiancate delle montagne. Devo svegliarmi, svegliami in fretta, devo portare la nana all’asilo. Accendere il Subaru, aprire quella dannata portiera che, gelata, non si apre da giorni. Devo sbrigarmi. Oggi è “giallo” ed il buon Krulak, che è un mangia-colla di Cantù, ha preso appositamente ferie per andare a camminare insieme. Ha preso ferie perchè il week-end torniamo arancioni e poi chissà quando avrà più occasione di tornare in montagna. Devo sbrigarmi. Il Sole sorge 8 minuti prima dell’alba perchè il nostro pianeta ruota su se stesso, in senso antiorario, alla velocità di 1700 km all’ora ad una distanza dal Sole che oscilla tra i 147 ed i 152 milioni di chilometri. La velocità della luce è di 300 mila chilometri al secondo e questo significa che abbiamo 8 minuti per poltrire nel letto all’alba ed 8 minuti di “abbuono” luce prima delle tenebre al tramonto. Per un quarto d’ora al giorno siamo sospesi sul confine, al di là della luce e del buio, al di là del bene e del male. Ma se è giorno di spazzatura o è giornata “arancione” c’è gran poco da fare…  Ma oggi è giallo e sono le ferie di Krulak, oggi si va in montagna: Birillo in piedi!

Sbarchiamo al cimitero di Valmadrera e prima della Chiesa di San Martino ci infiliamo su per il sentiero Lucio Vassena che rimonta il Corno Birone lungo il versante destro, orografico, della Valle del Sass Negher. Sull’altro lato della valle risale il Dario e Willy. Oggi però siamo in gita, non badiamo a spese e non centelliniamo i passi: a metà della salita attraversiamo dal Lucio Vassena al Dario e Willy sfruttando il traverso del Sentiero del Luisin. Ci infiliamo quindi nel lato buio, dove la poca luce ha conservato abbondante la neve lungo la cresta che, affacciandosi sulla Cima del Bevesco, rimonta provvidenziale oltre la grande muraglia incrostata di ghiaccio del Corno Birone. Da quelle parti, in un mondo verticale, corrono “Il Cavallo da Corsa” (1980) e “XXV O.S.A.” (1976). Osservo quella parete senza sorprendermi di come nessuno “fenomeno patagonico” abbia mai ripetuto quelle vie in invernale…

La cresta, prima del grande “traverso della scala”, non è difficile ma incrostata di neve e ghiaccio pretende attenzione e concentrazione. Nonostante tutto la “traccia” nella neve è battuta e marcata… quasi un’autostrada! Il calendario dei colori è stato particolarmente stravagante durante le festività della befana: in teoria dovrebbe esserci quasi nessuno in giro eppure, stando alle tracce che trovo sulla neve, le montagne brulicano di passi. Dal 28 ad oggi mi è capitato di batter fresca solo due volte (e la prima stava ancora nevicando!). “Chi è senza peccato scagli la prima pietra ed in montagna in montagna muover sassi è peccato a prescindere.”

Raggiungiamo la cima del Birone e poi, lemme lemme, ci tiriamo fin sulla cima del Prasanto. Lassù un signore di mezza età – potrei sbagliarmi ma sembrava svizzero – mi chiede gentilmente di scattargli una foto mentre mi passa la macchina fotografica. Un gesto semplice, quasi banale, ma è da tanto tempo, decisamente tanto, che le mie mani non “toccano” un oggetto proveniente dalle mani di uno sconosciuto. Il calendario dei colori regala anche questi strani pensieri. Daltronde Krulak è un ingegnere, uno che lavora per grandi opere ferroviarie, uno a cui fanno il tampone tutti i Lunedì mattina. Siamo qui insieme, ma ci siamo “dati di gomito” in vetta: in un tempo non troppo lontano ci saremmo stretti la mano ed abbracciati. Quando tutta questa faccenda è iniziata una ragazza, una che mi conosce bene, mi ha detto: “Tu sei la persona ideale per una situazione come questa: paranoico, psicopatico ed asociale! Hai tutti i talenti che servono ora!”. Aveva ragione, ma confesso che anche io, dopo 46 settimane, inizio ad essere decisamente infastidito da questa situazione. Ho fatto del mio meglio in questi  322 giorni, ma vedo comunque i segni che tutto questo lascia sulle persone che cerco di proteggere attorno a me. “Le difese devono reggere” e ”Reggeranno“ ma inizio a guardare con inquietudine ad est: spero che il Grigio Pellegrino sia in ritardo solo di 8 minuti…   

  • GANDALF: Non c’è via di scampo da quella gola. Théoden si dirige verso una trappola. È convinto di condurli alla salvezza, ma andranno incontro ad un massacro. Théoden ha una volontà forte, ma temo per lui. Temo per la sopravvivenza di Rohan. Egli avrà bisogno di te, prima della fine, Aragorn. La gente di Rohan avrà bisogno di te. Le difese devono reggere.
  • ARAGORN: Reggeranno.
  • GANDALF: Il Grigio Pellegrino. Così mi chiamavano. Per trecento vite degli uomini ho vagato su questa terra e ora non ho tempo. Se ho fortuna, la mia ricerca non sarà vana. Attendi il mio arrivo, alla prima luce del quinto giorno. All’alba guarda a est. 

E tu cosa farai Birillo? Porterai la tua gente al Fosso di Helm sperando che l’isolamento vi protegga? Per quanto puoi resistere barricato? Quanto serve! Tu, bastardo folle, certamente… ma loro? Mmm… Bhaaa, dannazione: in questo universo siamo creature insignificanti chiamate ad affrontare incertezze sconfinate.

Giallo, arancio, rosso… Rosa! L’orizzonte si schiude sulla Est del Rosa, Himalyana muraglia che brilla oltre 110 chilometri più ad ovest. Le montagne risplendono in ogni direzione scuotendomi dai miei pensieri. “Krulak, ti va una bella gavata nella neve fresca?” Scendiamo dalla cima del Prasanto nuovamente verso il Corno Birone e poi, scartando a sinistra, ci lanciamo giù verso il  Bevesco e la Ca Rotta. Qualche “duro della valle” è encomiabilmente risalito dal basso: nel bianco immacolato ci sono solo le sue solitarie impronte che affondano fin oltre il ginocchio nella neve resa polverosa dal gelo. Noi ci buttiamo giù a grandi balzi, quasi senza peso, felici come bambini!

La fontana del Tufo, il Tajasass, il Bivacco della Molinata ed ancora il Luisin. Sopra la chiesa di San Martino, riparati sotto una tettoia sgangherata in mezzo ad un prato, un gruppetto di “vecchi” – tutti diligentemente bardati con la mascherina – litiga ancora animatamente sui “carichi” che il socio avrebbe dovrebbe buttar giù a briscola. Il mondo cambia e resta immutabile, forse davvero gira su se stesso. Davanti alla chiesa un vecchietta, eroica sui ciotoli, mi chiede se c’è ancora il presepe: io però scendo dai monti, non so aiutarla. Il primo presepe della storia pare fosse italiano, realizzato da San Francesco nel 1223. Questo dice la wikipedia. Quasi ottocento anni tondi tondi… forse Bergoglio doveva darglielo più forte lo schiaffo alla cinese quella notte di San Silvestro nel lontano 2019. Oppure, visto cosa è accaduto dopo, doveva ascoltarla. Ma che importa tanto? Ci sono gli “Arrapaho” dentro il Campidoglio a Washington, i Negazionisti dell’Illinois fanno comunella con ciò che resta del carretto di Pontida, mentre Mister “se perdo lascio la politica” cerca di far cadere il Governo. Altro che far risuonare il corno Mandimartello dentro il Trombatorrione, altro che anarchici senza voto: qui son tutti pazzi!

Ciao Krulak, ci si vede quando si potrà. Mi sono piaciute le tue ferie. 

Davide “Birillo” Valsecchi

    

Giocarsi il Jolly

Giocarsi il Jolly

Il 26 Dicembre del passato 2020 il Soccorso Alpino è intervenuto per un soccorso al Monte Rai: due ragazzi di Valmadrera, 22 e 18 anni, erano rimasti “incrodati” in un canale nella zona del Malascarpa. In quei giorni non aveva ancora nevicato e fortunatamente i due sono stati “recuperati” incolumi durante la notte. Il 20 Dicembre invece è stato effettuato un altro intervento in Grignetta, molto impegnativo, in cui erano stati recuperati sempre nella notte due escursionisti bloccati da una slavina sul traverso dei Magnaghi. Io credo che ormai anche i bagnini di Riccione sappiano che “tagliare” il pratone innevato dalla Cermenati per andare verso il Porta sia un’idea stupida (e pericolosa!). I due della Grignetta non godono quindi della mia empatia, la storia dei due giovani “della Valle” invece mi appariva più interessante e meno chiara. Gli articoli di giornale pubblicati sul web parlavano di due giovani escursionisti – quindi senza equipaggiamento per arrampicata – che partiti da San Tomaso, avevano risalito un canale e, presa una deviazione, si erano “arenati” sulla Cresta del Referendum (che però non è sul Monte Rai ma sul Monte Prasanto – spesso confusi tra loro). Visto che l’intervento era durato diverse ore i social network si erano subito affollati con i soliti commenti inutili, resi ancora più salaci dalle restrizioni Anti-Covid. In di quegli articoli era scritto “non riuscivano più nè a scendere nè a salire”: un passaggio inclemente che ricordava molto la celebre gag di “Aldo, Giovanni e Giacomo”. La gente però non ha idea di come sia la “vertebra di moffetta” e così, incuriosito, sono andato adare un’occhiata. La somma dell’età dei due ragazzi non raggiunge la mia, sono “un vecchio” ed ora, per di più, tutta la zona è coperta di neve dopo le nevicate di fine anno: “Birillo, dovranno recuperare anche te?” “Scopriamolo!”.

Fino a San Tomaso la neve è ormai scomparsa mentre nella valle a monte del Tajasass lo scenario è ancora incantevolmente incrostato di bianco. La valle principale accoglie il fiume “Inferno”, lo stesso che poi scorre lungo il celebre “sentiero delle Vasche”: è una valle particolare che, incassata alle spalle della Cima del Bevesco, sembra nascondersi alle spalle del Corno Birone. La valle è il punto di separazione tra il Monte Rai ed il Monte Prasanto che, dal lato Valmadrerese, appare quasi nascosto alle spalle del Corno Rat. Una zona che mi piace molto perchè molto selvaggia, solo parzialmente esplorata, poco frequentata e caratterizzata da affascinanti strutture “geologiche”. Sulla sinistra orografica della valle gli strati calcarei sono letteralmente “impazziti” ed hanno iniziato a torcersi, ripiegarsi ed impennarsi. Il Malascarpa, con i suoi fossili facilmente visibili, è solo una di queste strutture più conosciute. Poi ci sono i “Campi Solcati” (bellissimi sia “sopra” che “sotto”!) nonchè la “Cresta del Referendum” (così chiamata per la via d’arrampicata che la percorre, aperta da Giorgio Tessari e Claudio Adamoli nel 1974) e la “Guglia del Peder”. Inseguendo i ragazzi sono risalito fino alla “Fontana del Tufo”, un fontanella dove confluiscono ben due sorgenti d’acqua a ridosso di una grotta, appunto, in una struttura di tufo. Il tufo è principalmente conosciuto come roccia magmatica, figlia diretta dei vulcani o del cuore della terra, tuttavia nella nostra zona il tufo è ovviamente di origine sedimentaria, figlio del mare come tutte le nostre montagne.

Poco oltre la fontana il primo curioso indizio! Una palina segnaletica, nuova di zecca, indica infatti il bivio per i due sentieri che portano da quel punto alla cima del Monte Rai. Il primo, sulla sinistra salendo, risale fino alla “Cà Rotta” e quindi alla Bocchetta di San Miro ed è indicato come “facile”. Il secondo, indicato come “sentiero impegnativo”, risale invece il canale incuneato tra i “Campi Solcati” (a sinistra) e la “Cresta del Referendum” (sulla destra). La cosa curiosa è che qualcuno, probabilmente molto giovane, ha “integrato” la palina con recensioni a pennarello. Il sentiero di sinistra è diventato “facile ma noioso!” mentre quello di destra “Poco impegnativo ma bellissimo! Vai!”. La faccenda mi ha rubato un sorriso: questo infatti spiega in parte perchè due ragazzi, senza equipaggiamento, si siano infilati in una “zona ravano” come quella! Probabilmente il “Sentiero Geologico Alto” è diventato una specie di avventura gettonata tra i giovani (salvo i pittogrammi sul cartello io non ci vedo nulla di male!). Da quel punto in poi la neve copriva ogni cosa e solo una vecchia tpedonata – qualcuno da solo i primi giorni di neve – mi accompagnava lungo la salita. Per orientarmi dovevo fare affidamento al vago ricordo di quel sentiero (percorso quasi sempre in discesa) ed ai numerosi bolli sugli alberi: nonostante fosse “nascosto dalla bianca” il sentiero appariva ben curato sebbene attraversi uno scenario decisamente selvatico.

La prima “meraviglia” di questo itinerario è la “Guglia del Peder”: immaginatevi il fondo del mare, compatto per 40 metri e spesso poco meno di un metro, che all’improvviso si impenna verso il cielo creando una guglia di straordinaria bellezza. Nel 1980, Marco Tentori e Renzo Magni, hanno tracciato una lunghezza – a chiodi tradizionali – di V+, A1(VIII). La Guglia del Peder è la parte inferiore della Cresta del Referendum, da quel punto la cresta rocciosa si innalza e risale verso l’alto formando, sulla sommità, il Sasso Malascarpa. In realtà la faccenda è però più complessa: le creste, parallele tra loro, sono in realtà tre. I diversi piani sedimentari si sono “ribaltati” ma nel tempo si sono “consumati” in modo differente e dando vita a cresta e corridoi erbosi.

Difficilmente i ragazzi si sono “incrodati” sulla Guglia del Peder: il riferimento sarebbe stato troppo evidente per non comparire nei giornali. Inoltre in un posto del genere “ti fai male” (anche tanto), ma non ti incrodi slegato. Sul lato destro della guglia, osservando dal basso, c’è un canale che risale ma dubito sia questo che hanno imboccato i ragazzi: è un canale ghiaioso dove, alla peggio, puoi piegare nel bosco accanto o comunque ritornare sui tuoi passi. Con cognizione di causa quella zona suggeriva alla mia fantasia un sacco di “devianti opzioni” per mettersi nei guai. Opzioni che possono nascere naturali in chi parte per una “ravanata”, ma ero sempre più convinto che i ragazzi non fossero in cerca di rogne, ma che volessero solo fare un’escursione, forse avventurosa, magari nota tra gli altri ragazzi, ma non fuori sentiero.

Cosa era successo quindi? Immerso nella neve ed in questi pensieri ecco la probabile soluzione! Il sentiero risale la valle tenendosi sul lato destro al fiume che, con alti sassi di roccia liscia e limacciosa, scorre verso il basso bucando il bianco della neve. Quando il sentiero si avvicina al fiume Istintivamente piego ancora verso destra  imboccantdo un tornante verso  un corridoio roccioso che risale obliquo e sembra il naturale proseguimento del sentiero… ma invece no!!  Il sentiero piega sul fiume, lo attraversa ed arretra sul versante opposto per poi guadagnare quota più a lato. In quella curva tutti i bolli sugli alberi sono lontanti e praticamente alle spalle di chi sale. Per un istante mi fermo a riflettere: forse con la neve è facile sbagliare, ma senza? In realtà non vedo la traccia ma, per tutto quello che c’è attorno, è quasi scontato che ci sia “passaggio” di animali in quel tratto: una falsa traccia? In pratica è la “porta” che permette di infilarsi tra le tre creste, probabilmente la via d’accesso per addentrarsi in quella zona. Quindi sì, io credo che possano aver sbagliato ed essersi infilati in quel corridoio.

Lo hanno fatto volontariamente? Non credo. Se ti infili in quei posti volontariamente o ne esci da solo o ne esci con le ossa rotte. Questo perchè la consapevolezza di fare una “puttanata” ti offre una “prospettiva” su quanto osare, le opzioni quindi sono solo tre: a) disingaggi per tempo b) riesci ad uscire c) fiondi giù e buonanotte. Certo quelli sul traverso dei Magnaghi si sentivano fighi finchè non sono trovati in merda, poi hanno chiamato aiuto perchè la montagna si era fatta inaspettatamente malvagia… Quello però è “alpinismo sociale”, la Grignetta è un posto figo gettonato dagli influencer: il “ravano” ha tutta un’altra implicita attitudine. No, per me erano due cose differenti: secondo me volevano solo percorrere il sentiero, hanno sbagliato a quella curva ed hanno insistito. Il guaio è che quei corridoi appaiono “percorribili” in salita ma in discesa diventano una trappola per tonni. Lo spigolo della Cresta del Referendum è VII in placca (sono ancora visibili i cordini appesi), quindi fuori portata, ma se riesci a raggiungere uno dei due canali tra le creste puoi risalire tra le piante. In qualche modo ce la puoi fare. Devi però aver scelto “volontariamente” di “punire te stesso” con una cosa simile. Diverso invece è se ci sei finito per sbaglio, magari invogliato da qualche recensione, “poco impegnativo ma bellissimo”. Se ti ritrovi “involontariamente” attaccato all’erba, a mastrufolare sopra salti verticali che superano i venti metri. Non hai mai neppure pensato di dover organizzare una “ritirata” ed ora guardarsi indietro è diventato inquietante, vai avanti incerto, sempre più spaventato, sperando di uscire. Ma alla fine ti blocchi e ti arrendi perché mentalmente non eri assolutamente pronto ad una cosa del genere. No, non ne vieni fuori da solo in quel caso e recuperarti è tutt’altro che facile: “attrezzare” di notte quella zona per evacuare due senza preparazione è davvero un lavoraccio!!

Il Sentiero Geologico Alto, oltre quel punto, prosegue impegnativo ma privo di particolari pericoli. Tanti bolli indicano la via e tronchi di traverso rinforzano i passaggi più cedevoli. Il sentiero permette di dare una piacevole sbirciata ai Campi Solcati prima di raggiungere i fossili a cuore del Malascarpa.

Le mie sono solo supposizioni, in buona parte “sensazioni” coperte dalla neve. Credo però che i ragazzi abbiano avuto sfortuna, che una disattenzione li abbia fregati proiettandoli in una situazione decisamente difficile e spaventosa che, fortunatamente grazie alla XIX Delegazione Lariana, si è conclusa nel modo migliore. Sono dispiaciuto per loro se questo è il caso. Poi vabbè, posso sbagliarmi, possono essere due scapestrati, incoscienti ed incapaci che si sono messi volontariamente nei guai senza avere la “stoffa” per venirne fuori. Può essere, in buona misura sarebbe un istinto innato – e storicamente comprovato! – nella genetica dei “Craponi della Valle”. Ma anche in questo caso non è mia intenzione criticarli come i vari leoni da tastiera hanno fatto. Anzi, ci vedrei un interessante attitudine mal sviluppata…

Posso dire solo questo: “Si vis pacem para bellum”. Bagai, il Jolly ormai ve lo siete speso, se questo è il gioco a cui volete giocare dovete ora per forza addestrarvi ed equipaggiarvi! Nessuno deve più venire a tirarvi fuori dai guai… e dai guai dovete uscirne!

Davide “Birillo” Valsecchi

  • Corni di Canzo

  • Resegone

  • San Primo

Il Moregallo Slavina. Sempre.

Il Moregallo Slavina. Sempre.

Quella nella foto è il Canale dell’Indiano. La parte alta, quella finale, di uno dei grandi canali che scendono dal Moregallo verso il lago. Non so se sia veramente il suo nome, il lato orientale del Moregallo è povero di toponimi certi, io lo chiamo in questo modo perchè è un tratto si trova alle spalle di quel contrafforte roccioso, visibile lungo la cresta Est che sale da Preguda, presentato in una vecchia cartolina come “la faccia dell’indiano”. Su quella parete, infatti vi è un una sporgenza, un marcato tetto, che rassomiglia ad un “naso” conferendo a tutta la struttura la fisionomia di un profilo dai lineamenti marcati. Il sentiero non si avvicina nè attraversa mai il canale, tuttavia è possibile osservarlo dall’alto – sporgendosi con attenzione oltre il bordo della cresta – prima di giungere alla “Selletta degli Orfani”, l’intaglio roccioso a “V” che permette di scollinare l’anticima del Moregallo a quota 1170m. Il sentiero infatti scavalca e si abbassa sull’altro lato fino alla “Bocchetta di Sambrosera”, per poi risalire nel bosco fino alla pianeggiante cima del Moregallo (1276m). Che io sappia c’è solo una traccia, che ovviamente non è da considerarsi sentiero, che attraversa quel tratto finale del Canale dell’Indiano: il collegamento dal “Passaggio Zeta” alla Cresta Est. Collegamento che avviene più o meno all’altezza della palina per il sentiero “Paolo e Eliana”. Il passaggio Zeta è il “trucco finale” per emergere dal Sentiero del Casotto, una vecchissima linea di salita che inizia mille metri più sotto, sulle sponde del lago. Quello del Casotto è però un sentiero solo di nome, di fatto è una salita “alpinistica” sul paglione quasi verticale attraverso un labirinto di pareti e scogliere. Io fino ad oggi l’ho percorso solo tre volte ed è una salita che non ripeterei nè da solo nè alla leggera. Nella foto che ho deciso di mostrarvi si vede però qualcosa di molto interessante e che mi ha colpito quando, giorni fa, sono salito al Moregallo dopo l’abbondante nevicata di fine anno. Si vede infatti come, a metà del pendio, la neve abbia iniziato a scivolare sul paglione fiondandosi verso il basso dentro l’inghiottitoio del canale. Si vede bene l’erba schiacciata ed incrostata di neve che durante la slavina è diventata il piano di scivolamento. Certo, può sembrare una banalità parlare di come neve, paglione, forte pendenza uniti a quota bassa possano causare di slavine. Indubbiamente. Quello che però è difficile da comprendere è la quantità di neve che viene coinvolta da un fenomeno apparentemente ridotto, comprendere come questa neve diventi una “massa” dotata di una “forza” straordinariamente considerevole. Non è la “grande valanga”, quella spettacolare e terribile che tutti abbiamo in mente grazie a mille filmati, ma un “mix” di neve bagnata e grumosa che diviene una spinta spaventosa e violenta quando infilata a forza dalla gravità dentro un corridoio verticale. Il Canale dell’Indiano, come si è detto, è fuori da qualsiasi itinerario “turistico/escursionistico” tuttavia qualcosa di simile accade su tutto il versante Sud del Moregallo. Il crinale sulla destra orografica della parte finale della Valle Due Pile, per intenderci il pratone che divide la Crestina Osa dal sentiero che sale alla Bocchetta di Sambrosera, è anch’esso completamente slavinato in questi giorni. Dal Basso, da Valmadrera, non si vede nulla di quello che è accaduto. Fa invece abbastanza impressione osservare la faccenda dall’alto, soprattutto sapendo che il sentiero che risale dal fontanino di Sambrosera compie un lunghissimo traverso proprio sotto. Il versante, fortunatamente, è però molto ampio ed il movimento della slavina si disperde e si arresta sulle piante a monte del sentiero. Come per ogni diga resta comunque un gioco di equilibri. Ancora: fino a qualche giorno fa il sentiero della cresta Est era pressoché vergine. Quel sentiero è una salita lunga, con sviluppo e dislivello, “battersela” tutta è decisamente faticoso. Il sentiero della Cresta Ovest appariva invece ben visibile e battuto. Tipicamente è la salita più gettonata perchè sfruttata sia da chi proviene dalla SEV sia da chi risale il sentiero del bosco fino alla “Bocchetta di Moregge” (1108m). Si può seguire il filo di cresta – che in alcuni tratti è vertiginoso sulla valle delle Moregge – oppure si può seguire il sentiero che, a mezza costa, attraversa il grande imbuto ribaltato che è l’erboso tratto finale del Canalone Belasa e dei canali minori che lo circondano. L’altro giorno, appoggiato alla croce di vetta, solo in mezzo alla neve probabilmente in tutta la montagna, ho osservato dall’alto quella traccia e, senza gloria o troppi dubbi, ho deciso di scendere lungo il sentiero da cui ero salito, nuovamente verso Preguda. Certo, era intrigante l’idea di attraversare fino a Pianezzo e magari scendere dalla Forcellina dei Corni. Sarebbe stato sicuramente un bel giro ad anello, neppure troppo impegnativo. Tuttavia c’è un esperienza, che ovviamente intendo raccontarvi, che ha suggerito diversamente. Prima però una considerazione: nei 7 anni che ho trascorso a Valmadrera, sul versante Sud del Moregallo, questa è la prima volta che vedo così tanta neve, soprattutto in questo periodo. Normalmente, negli anni passati, si trascorreva Dicembre e Gennaio arrampicando sulla roccia: certo la mattina all’ombra faceva un freddo cane ma poi, quando nelle belle giornate usciva il sole, la situazione era assolutamente gestibile se non addirittura godibile. La neve, tipicamente, arrivava verso fine febbraio, marzo, inizi di Aprile: nevicava due giorni, a volte uno solo, e giusto una leggera spruzzata per dare un imbiancata, mai oltre i quindici/venti centimetri (una spanna). Spesso iniziava a nevicare la notte, finiva al mattino ed entro mezzogiorno era già tutto scomparso. Il versante sud è così. Quello nord invece è molto diverso, fa più freddo, c’è meno esposizione e la neve resiste più a lungo. Ricordo fantastiche e polverose giornate risalendo dalla Val Cerrina, a volte anche con gli sci. Sul versante Sud invece devi cogliere l’attimo effimero: in molti casi è sufficientemente bello, in altri è decisamente strano, a volte però persino inquietante! Quindi andiamo con la confessione: credo fosse il febbraio dello scorso anno, un venerdì sera inizia a nevicare e così, insieme a Ruggero, decido di mettere in piedi una “scampagnata” nella neve. Aveva nevicato davvero poco ma al mattino non c’era stata la consueta schiarita e la giornata era rimasta cupa ed umida. In cima al Moregallo forse ci saranno stati una decina di centimetri di neve, non di più, fino al fontanino di Sambrosera era però tutto sconsolatamente pulito. Così, visto che la “magia bianca” sembrava sfumata, ho pensato fosse più divertente risalire per il frizzante Canalone Belasa anzichè farsi la noiosa sfacchinata fino alla bocchetta: francamente una delle decisioni più stupide mi sia capitato di prendere! Per chi non lo sapesse il Belasa è un canalone roccioso, con alcuni salti anche importanti ma protetti da catene, che da Sambrosera risale verso la vetta fin quasi ad incrociare la Cretina OSA prima dei due tratti finali e del ponte di roccia. Ci si può sbizzarrire arrampicando qua e là ed in passato, durante le estati in cui ero decisamente meno pigro, lo percorrevo tutto prima di cena come dopo-lavoro. Il canale è però, fondamentalmente, un grosso intaglio tra due creste di roccia ed erba con una pendenza tra i 50 e 70 gradi di inclinazione. Sia chiaro, un pendio innevato, la cui inclinazione è superiore ai 30 gradi, è potenzialmente pericoloso, tuttavia quella mattina, nonostante avesse nevicato e la cima del Moregallo apparisse imbiancata, di neve ancora non ne avevamo vista… Solo giunto alla base di Pilastri si è mostrata, ma era sui cinque centimetri, dieci al massimo. L’unico impiccio che sembrava causare era quello di dover pulire le prese giocando sulle rocce del canale: nessun pericolo percepito o percepibile. Dopo aver superato i Pilastri la faccenda è però decisamente cambiata: forse non aveva nevicato molto, ma tutta la neve che era caduta sembrava intenzionata a scendere nel canale! La neve, che era diventata fradicia e pesante, era anche notevolmente aumentata ammassandosi: quando ti serviva una presa dovevi iniziare a scavare. I salti più alti non erano un problema, erano praticamente puliti, erano tutti gli altri passaggi “minori” ad essere diventati complicati. Oltre a questo il vero e concreto problema erano le slavine! Le più grosse erano fortunatamente già scese, partite da altezza impensabili sopra il canale erano piombate verso il basso tirandosi dietro una quantità di neve spropositata per la nevicata che era stata. Dei piccoli mostri che rendevano impossibile non percepire l’instabilità diffusa del momento: era come se una pioggerellina avesse creato un alluvione raccogliendo acqua in ogni dove. Intendiamoci, la mia ansia non era certo quello di finire sepolto dalla neve, il problema è che se una di quelle cose ti centra ti butta di sotto e rischi di farti seriamente male anche senza passar giù dai salti più grossi. Lì per lì avrei dovuto girare i tacchi e tornarmene indietro (e sarebbero stati zero problemi), tuttavia l’istinto è stato quello di portarsi a monte del problema (ma è stata una puttanata). Così abbiamo continuato: la neve è diventata sempre peggio, siamo diventati sempre più lenti, traversare in alto per tirarsi fuori passando sopra i canali è stato piuttosto agghiacciante. Quindi sì: neve, paglione, forte pendenza, quota bassa, esposizione a sud ed influsso del lago sono un mix decisamente sconsigliato, anche con quantità apparentemente ridicole di neve! La cosa ancora più ironica è che solo 24 ore più tardi la neve era completamente sparita: noi eravamo proverbialmente nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Quindi no, e lo scrivo più per me che per voi, i canali del Moregallo non sono fattibili in inverno con la neve. Hanno tutti un imbuto erboso sulla sommità e caratteristiche climatiche che rendono impossibile – più che effimere – le giuste condizioni. Sul versante Nord-Ovest ci sono per lo meno tre canali con salite alpinistiche (Masciadri, Mandelli, Ricci), ma tutta quella zona è decisamente un altro capitolo, non meno agghiacciante e con caratteristiche ben specifiche. L’altro giorno mi sarebbe piaciuto avere con me il picozzino che avevo preparato ma poi pigramente lasciato a casa. Oggi, ripensandoci, è stato meglio così: perchè se te lo tiri dietro finisci per usarlo e la lezione di fondo, almeno per me, è che le picche al Moregallo è meglio usarle sull’Erba che sulla neve! Per quanto mi riguarda – e per l’esperienza fatta – “inseguire la bianca” da quelle parti è una pessima pensata. Se c’è neve sul Moregallo salgo dalla Cresta Ovest (se ho abbastanza benzina e voglia per batterla tutta!). Oppure posso fare la cresta Est, evitando il sentiero e scendendo poi verso Preguda (bel giro ad anello fatto più volte a fine inverno). Se però dopo la nevicata c’è stata una bella schiarita e vento da Nord devo fare attenzione al ghiaccio nei passaggi più esposti sul limite della cresta. Se il limite della neve è sopra la parete Nord allora posso anche salire dal sentiero del 25° OSA: è una bella sgambata ma piacevole se non ci si perde. Purtroppo non ho mai visto la neve più in basso e, nei traversi sopra la cava, non ho idea cosa possa cambiare. Diversamente, per evitare guai, conviene andare ai Corni dove la neve ha un suo ciclo vitale indubbiamente breve ma comprensibile. Conviene tornare al Moregallo solo quando la neve se ne è andata e questo, contrariamente a quanto avviene adesso, normalmente richiede di pazientare giusto 12/24 ore…

Davide “Birillo” Valsecchi

“… i vecchi iniziano a dare buoni consigli quando non possono più dare il cattivo esempio” (Cit.)

  • Canalone Belasa Febbraio 2019

  • Dalla Cima del Moregallo 2021

  • Canali Orientali Moregallo

Duemila e Ventuno

Duemila e Ventuno

C’era una volta un uomo ridotto in estrema miseria. Era un devoto del patriarca taoista Lu Dong-pin e lo pregava con grande fervore; così il santo scese sulla terra per aiutarlo. Arrivato a casa sua e visto che era senza alcuna risorsa decise di aiutarlo. Il santo puntò il dito su una pietra che era nel cortile e quella si trasformò subito in oro splendente. «Vuoi quell’oro?» chiese il santo al povero. L’uomo fece un profondo inchino e rispose: «No, non lo voglio». Il santo taoista era tutto contento e disse: «Se tu sei così sono pronto a insegnarti la grande dottrina del Dao». L’uomo disse: «No, quello che voglio davvero è il tuo dito».

Dance the Kung Fu

Dance the Kung Fu

“You swing to your left then you swing to your right. This new dance people is pure dynamite. Ev’ry step is poetry in motion. Let the rythm take your devotion. Dance the Kung Fu!!” Alle volte rimango incastrato in qualche strana canzone, a volte in un intero disco: questa volta è capitato con Carlton George Douglas e Bus Stop in un agghiacciante compilation di remix di “Kung Fu Fighting”, il singolo più venduto del 1974. Sono prigioniero del Funky anni 70 ormai da settimane. Quindi se vi state domandando perchè non scrivo più così spesso la risposta è semplice: sono in salotto a ballare come un idiota mentre la nana ride.

Tuttavia “Cima” è sempre stato un diario di viaggio e, nonostante il poco tempo a disposizione, è una tradizione da mantenere. Quindi, in ordine sparso ed incompleto, consegnamo all’archivio storico un po’ delle inutili e sconclusionate attività dei Tassi del Moregallo.

Belasa con la neve: “Ieri ha nevicato, andiamo al Brioschi?” “Naaa… c’è pericolo 4: andiamo dietro casa!” E così, nell’unico giorno di neve del Moregallo, ci siamo infilati su per i canali del Belasa. Un’ideona! Un imbuto di pareti rocciose in cui scolano prati erbosi, esposti a sud, con pendenza superiore ai 60 gradi. Roccia impastata da una patina gelata e slavine di neve bagnata a profusione: quando uno sa come divertirsi!!

Oggiono in Canoa con il Ghiaccio: da dentro il Belasa si vedeva bene il lago di Oggiono e così, visto che Ruggero possiede una canoa identica a quella che abbiamo usato per andare a Venezia, abbiamo deciso una puntata tra i flutti ghiacciati del lago. La temperatura si era un po’ rialzata ma una piacevole patina ghiacciata copriva il lago simile. Più simile alla granita che al pack artico rendeva comuque decisamente intrigante la gita. Tra l’altro, nel centro del lago con la nebbia, è toccato mettere mano alla bussola per smettere di girare in tondo!

Oggiono in Canoa al buio ma senza, ahimè, il Ghiaccio: abbiamo cercato di sfruttare la notte per trovare un lago più ghiacciato ma, ahimè, l’inverno si era inchinato alla primavere e, nelle luci della notte, l’acqua brillava libera e calma.

I Tassi quelli seri: mentre il nostromo si inventa sciocchezze e tergiversa in scempiaggini i Tassi del Moregallo, quelli seri, ci hanno dato dentro con le picche ed il ghiaccio: “Birillo vieni con noi a far cascate?” “Nope, io le picche le uso solo sull’erba!”. Tuttavia la banda sta facendo grandi progressi nel regno dell’effimero…

Davide “Birillo” Valsecchi

Battesimo di Ghiaccio

Battesimo di Ghiaccio

[Andrea] Quando suona la sveglia fuori è ancora buio, però non faccio fatica ad alzarmi: sarà che è domenica mattina, oppure perché oggi mi attende una grandiosa giornata. Anche se è il 21 gennaio per me è come se fosse Natale, non sto più nella pelle come un bambino che aspetta di aprire i regali. Alle 6.00 sono fuori casa dei miei due compagni di “sventura” Mav e Raffa, e per fortuna siamo solo in tre se no ci sarebbe servita un’ammiraglia. Prima tappa colazione di rito a Morbegno e dopo esserci caricati si parte: destinazione Chiesa Valmalenco , più precisamente frazione di San Giuseppe. Al nostro arrivo troviamo una meravigliosa visione 20 cm di neve che ricopre tutto. Intanto che ci prepariamo sopraggiungono un paio di coppie che hanno il nostro stesso obbiettivo; qualche minuto dopo ci ritroviamo a scendere per un costone innevato con Stefano e Mattia, due ragazzi di Milano conosciuti al parcheggio, fino ad arrivare ad un ponte che attraversiamo per raggiungere il nostro obbiettivo, pochi istanti dopo però ci tocca riattraversarlo perché abbiamo sbagliato attacco.

Per accedere al nostro obbiettivo dobbiamo proseguire qualche centinaio di metri dal ponte e arrivare nei pressi di una diga, qui creiamo una piazzola dove lasciare lo zaino, indossare i ramponi e tirare fuori i nostri artigli (i miei mi sono stati prestati dal capitano Birillo). Davanti a noi si erge la Cascata Centrale di San Giuseppe.

Lasciamo andare Stefano e Mattia,in due sono più veloci, ed intanto facciamo passare le corde e ci leghiamo: 1° di cordata l’impavido Mav dopodiché sulle due estremità ci leghiamo rispettivamente la First Lady ed io. Mav attacca la diga, già perché sembra banale ma non è piacevole finire nel torrente in pieno inverno, una volta oltrepassata ci recupera e davanti a noi si estende un muraglione di ghiaccio appoggiato. Mav parte ed io gli faccio sicura, saggia il ghiaccio e vi avvita qualche vite da ghiaccio qua e là, arrivato in sosta ci fa segno di mollare tutto così da poter recuperare l’eccedenza e metterci in sicura. Parte la Raffa ed io tranquillo aspetto il mio turno, la lascio salire fino ad arrivare in sosta e finalmente posso affondare gli artigli nel ghiaccio, picca-picca rampone-rampone, i movimenti mi vengono naturali e man mano che salgo tolgo anche le viti ed i rinvii fino ad arrivare in sosta. La sosta presenta svariati chiodi uniti da due canaponi, il lato positivo è che ci troviamo su una cengia abbastanza ampia ed accogliente.

Dopo un rapido scambio di materiale e di idee Mav attacca il 2° tiro, il più delicato, attraversati i 2m di cengia bisogna scendere qualche passo e traversare a sinistra incastrando le becche delle picche in alcuni buchi presenti su una candela di ghiaccio, superato questo tratto l’arrampicata riprende normale fino ad arrivare ad un’altra sosta, questa a spit, che però sfugge alla vista di Mav che è costretto a farne una su ghiaccio con le viti. Superato il tiro delicato decidiamo di affrontare quello che sarà il nostro ultimo tiro, come al solito tira Mav e una volta giunto in sosta ci recupera.

Il 3° tiro consiste in un muro di ghiaccio abbastanza appoggiato su cui non è difficile arrampicare, giustappunto mi faccio prendere dalla foga e ci scappa la prima scivolata su ghiaccio, una becca della picca non era conficcata bene, nulla di preoccupante però perché dato che sto arrampicando da secondo faccio giusto un metro o poco più di scivolata; riprendo la scalata fino in sosta dove mi attendono Mav e la Raffa.

È tardi per tentare tutti i tiri, e siamo tutti un po’ provati, quindi decidiamo di scendere; attrezziamo quindi una calata che ci riporta alla 1° sosta e da qui ne effettuiamo una seconda fino alla base della cascata. Ritorniamo alla piazzola dove c’è lo zaino e vi riponiamo gli artigli dopodiché ci dirigiamo alla macchina. Finalmente arrivati, ci spogliamo dei vestiti pesanti e sistemiamo il materiale, e su consiglio di altri tre ragazzi, trovati in cascata, ci dirigiamo a mettere qualcosa sotto i denti al ristorante che c’è poco più avanti del parcheggio. Anche se è tardi per pranzare (ormai si sono fatte quasi le 3) l’oste ci accoglie senza problemi e ci prepara un abbondante piatto di risotto con i funghi accompagnato da una buonissima birra.

“In alto i boccali un brindisi al battesimo del ghiaccio e alla bellissima compagnia”.

Anche questa esperienza si è conclusa e si torna a casa. Grazie Mav e Raffa per la bellissima compagnia e per avermi iniziato ad una nuova attività che cercherò di coltivare il più possibile con grande gioia della mia adorata fidanza e della mia famiglia a cui mancava stare in pensiero per me mentre mi arrampico su pareti ghiacciate.

Andrea Carcano

Piolet Traction anni 70

Piolet Traction anni 70

Walter Cecchinel: per il lettore questo nome evoca la “face Nord directe du Pilier d’Angle au Mount Blanc” e soprattutto la prima ascensione (e la prima invernale) del “Couloir nord-est du Petit Dru”. Pertanto, indipendentemente da questi exploit, il nome di Cecchinel resterà legato a “une remise en question” (una rielaborazione) della tecnica di salita su ghiaccio, l’elaborazione di un nuovo metodo di progressione, la messa a punto di materiale semplice ma perfettamente adattato. La “Piolet-Traction” una conquista dell’alpinismo: assicura una tecnica facilmente assimilabile, una semplice evoluzione ed un’eccellente sicurezza sul campo, apre le prospettive per performance sportive eccezionali. Queste nuove possibilità, tuttavia, non dimenticano che su un pendio a 50°, in buone condizioni, si sale e si scende, come facevano gli antichi, in piedi sulle dieci punte…

Questa l’introduzione, tradotta dal francese, di un articolo di Jean-Louis George dedicato alla Piolet Traction pubblicato nel 1977 su “La Montagne & Alpinisme”, una rivista francese tra le più prestigiose dell’epoca. Mi sono messo a spulciare tra le riviste della “Biblioteca Canova perchè Mav e Brambo, due tra i Tassi più attivi in questo inverno (loro la foto iniziale), si stanno intensamente dedicando alla salita su ghiaccio. Io, se escludiamo i prati del Moregallo, ho pochissima esperienza con le picozze da ghiaccio e così, come sono solito fare, ho ricercato nella storia le basi della tecnica.

L’articolo in questione è una guida tecnica al “Piolet Traction” realizzato con l’aiuto diretto di Cecchinel, uno suoi principali ideatori. L’articolo, come si usava nelle riviste dell’epoca, è un vero e proprio trattato che mira a divulgare al grande pubblico una tecnica ancora sconosciuta. Proverò a tradurre e riassumere qui il lungo articolo.

Tutto sembra iniziare nell’estate del 1971, sei anni prima dei questo articolo. Cecchinel racconta di alcune test condotti su nuovi materiali. Parla di picozze con l’impugnatura, che consentono di posizionare in modo diverso le dita. Parla di una nuova piccozza che assomiglia ad un martello con la “becca”. Descrive anche uno strumento artigianale e “bizzarro”, un “poignard à glace à manche”, letteralmente un “Pugnale da ghiaccio col manico” che ha utilizzato per la Nord du Pilier d’Angle in compagnia di Georges Nominé. Osserva poi come già Jacques Lagrande fosse stato un precursore sfruttando nella progressione la piccozza piantata al di sopra della testa. Tuttavia Lagrande, che utilizzava all’epoca una sola piccozza, non poteva risolvere tutti i problemi tecnici di un singolo ancoraggio. Problemi che furono poi superati introducendo l’uso del martello-picozza (e del doppio ancoraggio). Questa infatti, pare essere la sostanziale differenza iniziale tra la tecnica classica e la tecnica moderna (dell’epoca).

Dopo questa prima introduzione storica Cecchinel esplora i materiali contemporanei raccomandando la “piolet-traction” solo con picozze realizzate per tale scopo (credo che le piccozze con il manico in legno fossero ancora diffuse all’epoca). Soprattutto raccomandava l’uso obbligatorio di una “dragonne”, una cinghia, che rendesse solidale il braccio e la picozza. Era inoltre importante avere una lounge (una lunga cinghia regolabile) con cui utilizzare la picca-martello come punto di ancoraggio. (Nota. Sembra che solo il martello fosse legato all’imbrago dalla lounge, la picca restava libera e semplicemente dotata di cinghietta per il polso). Descrive poi i ramponi, riportando come le punte davanti, introdotte nei ramponi moderni solo nel 1969, siano fondamentali per la progressione. I ramponi “tecnici” dell’epoca, le cui foto sono riportate nell’articolo, assomigliano spaventosamente ai ramponi più economici in commercio oggi giorno: eppure hanno fatto la storia!

Poi inizia la descrizione vera e propria della tecnica. Tenterò una traduzione il più fedele possibile.

5.1. – La techinique de montéè.
La progressione in “piolet-traction” si effettua affrontando la pendenza utilizzando le punte davanti dei ramponi ed utilizzando due strumenti di ancoraggio tenuti a una distanza di un braccio.Assicurarsi di piantare sempre la piccozza o il martello il più in alto possibile sopra la testa (braccio esteso!). Questi vanno impugnati nella parte inferiore più estrema del manico per avere la miglior battuta possibile. E’ importante regolare di conseguenza la “dragonne de traction” (la lounge del martello).

Progressione normale:

  • Piantare molto alto, braccio teso, la picozza ed il martello, i piedi sono molto distanti (circa 50 cm) per una buona stabilità.
  • Effettuare dei piccoli passi senza superare la “posizione limite superiore” con le braccia flesse.
  • Per una buona sicurezza, su terreni molti difficoltosi, evitare di superare la “posizione limite superiore” dove la posizione del braccio flesso consente, se necessario, un bloccaggio muscolare.
  • Sposta il secondo strumento solo nella posizione che può consentire, se i piedi scivolano, di bloccarsi comunque su un unico punto di ancoraggio.

Realizzazione di una sosta (posizionamento di un chiodo):

  • Quando mancano pochi metri di corda alla fine di una lunghezza, mentre il martello è ben piantato e sicuro, realizzare un “amorce de marche” con la picozza ben alta e con il braccio teso. (Nota: non ho trovato una traduzione precisa ma, in pratica, costruisce un gradino nel ghiaccio)
  • Rimontare fino al gradino e posizionarsi con i piedi di traverso (posizione di riposo) mantenendo picozza e martello piantati a braccia tese.
  • Assicurarsi sulla cinghia della picozza con un rimando di corda. (Nota. sì, pare proprio che con un moschettone sul cinturino piazzasse un barcaiolo)
  • Posizionare un chiodo da ghiaccio (nota. Non credo esistessero le viti all’epoca, quindi doveva staccare il martello ed usarlo per piantare il chiodo).
  • Riposizionare il martello, assicurare la corda al chiodo, liberare la picozza per allargare (con la sicurezza di due punti di ancoraggio) il gradino iniziale.
  • Riposizionare la picozza per un terzo punto di ancoraggio.

5.2 La technique de descente
La piolet traction è poco comoda come tecnica di discesa, tuttavia qualora sia necessario ridiscendere è importante farlo in sicurezza. Pertanto è importante la buona qualità degli ancoraggi (picca e martello) effettuando piccoli passi senza esitare a riposizionare spesso gli attrezzi. Serve molto esercizio e molta pratica…

5.3 Problèmes de récupération des engins.
E’ evidente che il problema dell’estrazione di un attrezzo è in funzione della forza con cui è stato piantato. Se la lama utilizzata è particolarmente sottile (utile con ghiaccio duro) sarà al contempo abbastanza fragile. E’ tuttavia importante acquisire il “colpo di mano” per assicurarsi che la lama penetri in modo soddisfacente in terreni delicati (Nota: nell’articolo fa riferimento al ghiaccio duro del Couloir du Dru, spesso incastrato tra roccia). Il recupero degli strumenti deve essere quindi il più delicato possibile, senza imprimere torsioni che potrebbero danneggiare o spezzare la lama.

Spero che la mia traduzione (suvvia, un po’ di comprensione: ho studiato francese alle medie… nel secolo scorso!) renda omaggio all’articolo originale ed ai suoi contenuti all’epoca rivoluzionari. Curiosamente ora sul mio tavolo c’è anche una guida alle salite su ghiaccio di Rebuffat: in pratica il meglio della tecnica classica. Credo ci sia molto da imparare nelle “strategie” con cui i “vecchi” ci hanno spianato (?) la strada. Un alpinismo che non comprenda il passato è un alpinismo senza futuro, specie per chi, come il sottoscritto, ha tutto l’anno la fissa del “misto-verde” sui prati del Moregallo!

Au revoir!!

Davide “Birillo” Valsecchi
Maître d’équipage du Blaireaux du Moregall
(Nostromo dei Tassi del Moregallo)

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