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Ritorno all’Oceano

Ritorno all’Oceano

Verso lisola Mafia
Verso l'isola Mafia

Il dilemma è sempre lo stesso: montagnini o marinai? Ormai non lo sò più, specie quando mi ritrovo a bordo di una sgangherata barca motore in mezzo all’Oceano.

Ma andiamo con ordine: tre giorni fa eravamo in cima al monte Hanang, un vulcano spento tra gli altopiani della Tanzania centrale. Quando siamo scesi dalla montagna avevamo ancora quasi una settimana davanti a noi prima di prendere l’aereo verso casa. Così, io ed Enzo, abbiamo tirato a sorte con una monetina: se vincevo io saremmo andati tra i monti Parè ad oriente, se vinceva lui avremmo ripiegato verso sud in direzione del mare. Il destino ha scelto ed abbiamo puntato verso la costa.

A bordo di uno scassato dalla-dalla abbiamo lasciato Mbala Shamba, nella periferia di Dar er Salaam, ed abbiamo puntato verso Nyamisati, un piccolo porto ad un centinaio di chilometri. Il viaggio è stato, come al solito, abbastanza pittoresco: il dalla-dalla era un furgoncino, uno di quelli piccoli che da noi viene usato dagli elettricisti o dagli idraulici nelle grandi città. Tipo un Vannett o qualcosa di simile ma prodotto in Cina. Io ho viaggiato praticamente in braccio ad Enzo. Qui la regola non scritta è che fino a quando il dalla-dalla non è pieno non si parte. Così fino a quando non siamo stati in “22” non ci siamo mossi!!

Lasciato l’asfalto della strada che collega Tanzania e Zambia è ricominciato lo sterrato. La strada era un continuo susseguirsi di ripide colline ed avevo la sensazione di trovarmi al Luna Park. Era come essere seduti sulle montagne russe, come l’attimo prima che il carrello raggiunga l’apice della salita, quando ancora non è possibile vedere il fondo della discesa. La stessa intensa sensazione che avverti prima di cominciare a cadere nel vuoto a tutta velocità: praticamente eravamo dentro una Simmenthal con le ruote che precipitava sobbalzando giù per la collina ad una velocità che a diritto si può chiamare “folle“. Da queste parti non ci si annoia mai e alle volte ci si “ammazza” dalle risate!!

Il porto di Nyamisati è appena a nord del delta del fiume Rufiji. L’ambiente è tropicale, pieno di palme e mangrovie che rendono scura l’acqua limacciosa e marrone della laguna. Il porto è in realtà un piccolo pontile attorniato da qualche malconcia capanna con il tetto in makuti. Acquistiamo il biglietto per la Shelly, un Dhow a motore, poco più grande di un gozzo che fa scalo verso l’ isola Mafia. Ci sediamo a quello che sembra un bar, non c’è da mangiare ma hanno la birra ed un biliardo con cui ammazzare il tempo. Io sono, come al solito, un mezzo disastro ed Enzo vince facile un paio di giri.

Alle due del pomeriggio la piccola barca si riempie di gente così come la stiva sotto il ponte. Il capitano, un ciccione dalla faccia allegra, viene a salutare i due Nzungo e ci fa salire sopra la piccola tettoia affianco alla minuscola timoneria. Ci arrampichiamo sui fianchi della barca trascinandoci dietro gli zaini. Probabilmente era una cortesia a degli stranieri ma in sostanza abbiamo fatto il viaggio a “ribattone di sole” aggrappati alla scarico del motore Diesel. Tuttavia, anche così, le quattro ore di traversata non sono state male ed il mare era abbastanza calmo da permettere ad Enzo di conservare nello stomaco il pranzo.

Prima del tramonto ci è apparsa l’isola di Mafia, un piccolo gioiello a sud di Zanzibar dove vi è uno dei più noti parchi marini della Tanzania. La bassa marea impediva allo Shelly di attraccare e così una piccola lancia a motore si è avvicinata per farci guadagnare la riva. Purtroppo la marea era talmente bassa che anche la lancia ha dovuto scaricarci a metà strada e così, scarponi e calzoni al collo, siamo arrivati sull’isola a piedi, in mutande e con gli zaini in spalla. Forse è perchè in fondo siamo davvero montagnini…

Resteremo sull’isola qualche giorno con la speranza di riuscire a vedere lo squalo balena. Siamo al limite della stagione in cui è possibile vederli ma non mi dispiacerebbe affatto incontrare uno di quei giganti. Il nostro viaggio sta per finire, non vedo l’ora di mangiarmi una rosetta con il prosciutto e dormire in un letto senza insetti. Tra l’altro gli insetti africani sono tra i più curiosi e strambi che mi sia capitato di vedere: alcuni sono enormi!!

Hakuna matata gente!!

Davide “Birillo” Valsecchi

Lezione di Geografia

Lezione di Geografia

L’unico modo per essere sicuri di prendere un pulman in Tanzania è salirvi dalla località di partenza: se lo aspettate in una delle fermate lungo il percorso non vi è modo di sapere quando arriverà. Qualche giorno prima, arrivando a Kathesh, il nostro autobus si era imbattuto in una serie di piante cadute lungo la strada, ovviamente sterrata. Non vi era modo di spostare gli alberi e così i passeggeri, noi compresi, hanno dovuto riempire di terra un canale adiacente alla strada permettendo al pulman di aggirare l’ostacolo attraverso un campo coltivato. Io non ho idea se il contadino fosse d’accordo ma in un’ oretta di lavoro e di ritardo ce la siamo cavata.

Balestre, copertoni, differenziali. Si può rompere di tutto ed i rottami accartocciati lungo le strade ricordano quanto possa andare ancora peggio.Sembra una cosa facile da accettare ma quando sei in piedi dalle sei per prendere un scassato biroccio in ritardo di oltre quattro ore è possibile dimenticarselo, specie se hai un caratteraccio come il mio.

Silenziosamente furioso facevo su e giù per il piazzale sotto il sole maledicendo le strade di questo paese e l’incapacità locale a porre rimedio a problemi che per noi sono ovvi. Due ora prima avevo chiesto al ragazzo che mi aveva venduto i biglietti dove diavolo fosse il mio pulman. Lui ridendo ha preso il cellulare (che qui hanno tutti) ed ha chiamato l’autista: “Few minutes” mi aveva risposto. Probabilmente intendeva in “African Time” visto che erano passate ore!!

Io mi prendo cura di Enzo ed Enzo si prende cura di me. Visto che ero evidentemente “di traverso” ha comprato dei miskaki, degli spiedini alla brace, ed una coca-cola. Quando mangio mi acquieto sempre. Per di più sotto il tappo della mia bottiglia c’era il simbolo che, nel concorso locale, mi dava diritto ad un’altra bibita gratis. Cominciavo ad avere fortuna e con la pancia piena si aspetta meglio.

Con la rassegnazione è giunta anche un po’ di socievolezza ed ho attaccato bottone con uno dei tanti che ciondolavano attorno alle baracche della fermata del bus. In un posto sperduto come Katesh la maggior parte della gente non ha nulla di meglio da fare che tirare sera e due Nzungo impolverati con gli zaini sulle spalle sono un ottimo diversivo.

Il tipo attacca con le solite domande di rito. La più ovvia è “di dove sei?”. Gli rispondo “Italy” ma visto che non ho nulla da fare raccolgo da terra un sasso e comincio a disegnare lo stivale nella polvere grigia del piazzale. Non è un gran disegno ma rende l’idea. Il tipo mi chiede dove sia l’Inghileterra e così piano piano comincio a disegnare tutti gli stati d’Europa.

La cosa sembra divertire molto perchè, mentre dico a voce alta i nomi dei vari paesi, comincia a formarsi un certo pubblico attorno al mio disegno. Poi uno mi chiede “Ma dove sta la Tanzania?”. La domanda aveva un senso. Mi alzo, mi guardo intorno e calcolo le proporzioni, poi faccio quattro passi nel mezzo del piazzale e disegno la Tanzania. “Così lontana?” Certo che è lontana, l’Africa è grande!!

Ed è a questo punto che rimango stupito: sono tutti democraticamente convinti che l’Europa sia più grande dell’Africa. Io provo a spiegargli che l’Europa “ci sta” comodamente almeno due o tre volte nel loro continente ma loro non sembrano crederci. Così comincio a disegnare l’Africa e tutti i paesi che mi ricordo. Il publico diventa una piccola folla.

Lo spettacolo diventa quasi comico quando devo disegnare l’Australia e le Americhe visto che sono costretto ad invade quasi tutto il piazzale spostando la gente. Descrivendo l’Antartico, il grande continente al polo Sud coperto dai ghiacci, sembrava parlassi di un altro pianeta. Nello zaino avevo un libro con un’immagine della mappa piana del mondo con la suddivisione in fuso orari. Mostrandola a quella gente allibita mi sentivo come il possessore del libro magico dei segreti.

Tutti i presenti avevano un cellulare, qualcuno un berretto del Manchester, qualcuno mi aveva persino dato i risultati dell’Inter e la maggior parte di loro parlava inglese eppure nessuno di loro sembrava aver mai preso in mano una cartina e sapere come fosse fatto il loro continente!! Non erano aborigini della “Shamba” eppure difettavano di un’informazione così semplice.

Molto prima degli otto anni mio padre appese nella mia cameretta una cartina da muro dell’Italia, qualche anno dopo arrivò con una cartina “politica” e “fisica” dell’Europa ed un mappamondo luminoso ha sempre fatto bella mostra di sè in cima all’armadio. Oltre a questo abbiamo passato gli intervalli delle elementari a scarabocchiare sulle cartine nei corridoi della scuola. Al CAI mi hanno insegnato ad usare mappa e bussola, forse non me la cavo con un sestante ma un GPS o un navigatore lo so usare tranquillamente. Senza esagerare ma con l’aiuto di un calendario posso anche calcolare la mia posizione nel nostro Sistema Solare ed ho una vaga idea di come triangolare la nostra galassia con quelle vicine.

Insomma io conosco, con un’adeguata approssimazione, la mia posizione nell’Universo conosciuto mentre tutti quelli che mi stavano attorno nemmeno conoscevano i confini del proprio paese. Forse può sembrarvi sciocco ma, in quel divario di conoscenze, mi sono ritrovato tra le mani un piccolo problema filosofico:  io so esattamente dove sono ma non ho idea di dove stia davvero andando. Nonostante tutta la mia scienza, la mia cognizione spazio temporale, io e loro eravamo alla pari nell’azzardare una risposta ad una delle domande più semplici e complesse allo stesso tempo: “Che diavolo stiamo facendo qui?”. A volte sono sconsolanti i limiti della scienza…

Una vocina interiore mi sfotteva:“Non importa dove vai Birillo, ce l’hai un fiorino!?”. Questa è una giornata nata storta, da buttar via la testa. Rido nel mezzo di questo niente in cui galleggiamo: il vero problema è che se quel dannato pulman non arriva non sò proprio dove andremo!!

Hakuna matata gente!!

Davide Valsecchi

Sopra le nuvole d’Africa

Sopra le nuvole d’Africa

Eccoci qui, ancora tra laghi e montagne, incapaci di capire se siamo montagnini, marinai o semplici casinisti. Sono le cinque del mattino quando cominciamo a camminare nel buio. Dallo zaino prendo una trecking light, spezzo la capsula al suo interno e la agito mentre diventa azzurra illumninado i miei passi come la Luce di Galadriel.

Tra i rami della foresta si spande un’odore che non conosco, è un misto tra malva e menta. Camminiamo nel fitto della boscaglia mentre la montangna è ancora avvolta dalla nebbia e dalla foschia. Il monte Hanang si alza solitario in una pianura sterminata e durante la notte raccoglie a sè tutte le nuvole. Credo sia questo a rendere così rigogliosa la vegetazione che la ricopre.

In lontananza si vedono i primi raggi dell’alba. Siamo in Africa e tuttto qui è un po’ una sorpresa. L’alba porta con se qualcosa di inaspettato e violento: il vento.

Nella pianura si alza un vento fortissimo che spazza le nuvole e scuote le piante e quasi ci travolge sul sentiero. Difficile descrivelo, più facile spiegarlo. Il sole africano è come il nostro ma intenso come attraverso una lente di ingrandimento. Mentre avanza nel cielo il suo calore si scontra con il freddo della notte facendo impazzire l’aria. Nella pianura le nuvole, spinte dal vento, sembrano scappare dalla luce.

Uscendo dalla boscaglia ci incamminiamo lungo il crinale in balia delle folate, quando gli zaini fanno vela ci spostano e buttano a terra. E’ impossibile sentire quello che mi dice Enzo nonostante urli stando sdraito per terra. Pensavo che il nostro avversario sarebbe stato il caldo, battersi con tale vento è una sorpresa elettrizzante. Tra le creste le nubi volavano veloci tra il baccano ed i sibili. Rido, restare dritti davanti a tanta forza è un impresa che riempie d’orgoglio.

Passo dopo passo avanziamo mentre sotto di noi si sveglia la pianura verde del centro Tanzania. In lontananza ci sono le Uluguru e le colline di Kolo. Passo dopo passo superiamo le nuvole, siamo al di sopra di tutto quello che si affaccia tra noi e l’orizzonte. Sotto di noi si alterna un oceano bianco ad uno sconfinato manto verde.

La cima è oltre una lunga cresta in quota ed il vento continua a coprirla e scoprirla facendo scivolare le nuvole tra le sue rocce. Con la mia piccola macchina fotografica provo a riprendere in filmati quella danza, quei bisonti candidi che corrono nella piana.

Poco prima della vetta il sentiero attraversa delle piccole placche ma senza difficoltà passiamo oltre. Poi, poco sotto la cima, rallento il passo, lascio  qualche metro tra me ed Enzo che mi precede. E’ stato bravo il nostro artista, voglio che se la goda. Arriva in cima quasi da solo, si siede su un sasso e si gira ad aspettarmi con un sorriso che è una soddisfazione. Io faccio gli ultimi metri appoggiando pesante ogni passo, sono gli utlimi in salita oggi. Raggiungo Enzo e gli stringo la mano dandogli una sonora pacca sul dorso: sono proprio contento sia arrivato in cima.

Dopo sei ore di salita lungo il fianco dell’Hanang siamo a 3417 metri nel centro della Tanzania. Attorno a noi solo Africa a perdita d’occhio: 360 gradi di panorama mozzafiato.

Il vento però è ancora forte e mentre faccio le foto lo sento mordermi le dita. Mangiamo qualche biscotto, un’osceno succo di frutta al mango e siamo quasi pronti. Uno scatto con il gagliardetto di Asso in omaggio alla nostra “casa” e cominciamo la lunga discesa mentre il sole è ormai alto.

E’ una bella montagna l’Hanang. Si è fatta corteggiare il giusto ed alla fine ha saputo concedersi senza drammi o scenate. E’ la regina di questa pianura e non sono affatto dispiacito di averla scelta snobbando quella “prostituta di lusso” che è diventata il Kilimangiaro. E’ una bella montagna l’Hanang, vale la pena venire fin qui per conoscerla.

Per me è stato un vero piacere e confesso che mi ha dato più soddisfazione persino del 6000 fatto l’anno scorso in Ladakh. Mi è piaciuto poter raggiungere la cima con un buon amico, sono stato contento ci fosse anche Enzo lassù. Gassman una volta disse in un suo film: “Un amico è qualcuno che ti conosce ma che, nonostante questo, ti vuole bene lo stesso”. Credo sia una buona verità da scoprire sopra le nuvole d’Africa.

Davide “Birillo” Valsecchi

Voglio fare un po’ di ringraziamenti: al presidente della nostra sezione CAI, Renzo Zappa, che come consueto ha dato il patrocinio alle nostre scarpinate. Ad Alberto Pozzi che anche quest’anno, come da lunga tradizione, insieme agli istruttori del CAI Asso insegna ai bambini della nostra valle come avvicinarsi alla montagna. Anche io ho cominciato così.

Voglio ringraziare inoltre Luca e Gianni di Ecologia e Ambiente, Tino del Taurus Sport, il Dottor Paolo Anzani, la nostra assese assistente di viaggi Silvana e Radio LifeGate: senza il vostro aiuto non riusciremmo a cacciarci continuamente nei guai!!

(«ndr. questo articolo è stato scritto nel villaggio di Babati, ai piedi dell’Hanang la notte stessa in cui siamo scesi dalla montagna. Difetta di stile e di forma ma è denso di fatica onesta e di intenzioni autentiche»)

Mount Hanang (3417m)

Mount Hanang (3417m)

Mount Hanang dal lago Babati
Mount Hanang dal lago Babati

Alla fine abbiamo trovato in Tanzania una montagna che ci piacesse e che non richiedesse un mutuo per essere scalata: il monte Hanang.

Questa montagna, di origine vulcanica, si alza 3417 metri nel mezzo delle pianure della Tanzania centrale ed è la quarta vetta per altezza del paese.

La prima è il Kilimangiaro, con i suoi 5896 metri, mentre la seconda è il Meru, con 4566 metri. La terza vetta è il Loolmalasin, una vetta vulcanica di 3648 metri nel cuore del parco del Ngorongoro.

Lontano da ogni costossimo parco si trova il nostro Hanang.  Credo che il permesso per la salita ci costerà “trenta ragionevoli dollari” a testa e l’aiuto di una guida locale. Direi che per ammirare l’Africa dall’alto sia un buon prezzo!!

Mi incuriosisce molto anche tutto l’ecosistema che circonda la montagna e la curiosa etnia che lo popola. Qui infatti vivono i Barbaig, uno strano popolo dedito all’allevamento di capre che ancora vive (dicono) in modo tradizionale. Sono in pratica l’unico popolo “di montagna” in mezzo ai pastori Masaai che invece allevano vacche nella piana. Già mi piacciono!!

Non so se a Kathes si potrà trasmettere via Internet. In quel caso questo messaggio, che ho scritto e programmato qualche giorno fa, vi farà sapere dove siamo finiti. Se va tutto bene staremo già scarpinando su per le pendici del vulcano!!

Nella foto si vede il Mount Hanang in uno scatto fatto dal lago Babati fatto qualche giorno fa.

Ciao

Davide “Birillo” Valsecchi

River Horse

River Horse

Ippopotami
Ippopotami

Due giorni fa eravamo a zonzo sulle colline di Kolo. I locali dicono che siano infestate dalle iene ma noi, fortunatamente o aimhè, non ne abbiamo vista nessuna. Oggi invece eravamo sul lago Babati che, zanzare apparte, si è  dimostrato un posto magnifico. Il lago non è molto grande ma oltre a cormorani, acquile urlatrici ed un infinità di altri colorati uccelli, offre la possibilità di incontrare uno dei miei animali preferiti: l’ippopotamo.

Non so bene perchè “Ippo” mi piaccia tanto. Forse perchè, nonostante l’aria pacioccona, è uno sciupafemmine poligamo che passa il tempo a “spezzare in due” i coccodrilli. Sì, un tipo decisamente interessante!!

Apparte questo in molti credono che l’ippopotamo sia un animale aggressivo e pericoloso. Questo è vero solo in parte. Per la maggior parte dell’anno in realtà è un animale pacifico e tranquillo che si può facilmente avvicinare. Tuttavia è estremamente protettivo nei confronti dei cuccioli e riesce ad essere davvero violento nel tutelarli. Nel periodo in cui ha i piccoli conviene decisamente stargli alla larga. Ovviamente noi siamo arrivati a Babati nel pieno di questo periodo!!

Ma, necessità virtù, abbiamo trovato lo stesso una piccola e scassata canoa e, in compagnia di George il pescatore, ci siamo addentrati tra i canneti del lago. Quello che non mi aspettavo è che “Ippo” facesse un simile fracasso: soffia, sbuffa, muggisce e quando si muove sembra di sentire Godzilla che avanza.

Un paio di volte ci siamo avvicinati a mamma ipopotamo più del dovuto: era ancora nascosta nel fitto dei rami quando ha cominciato a “ruggire” in modo inquietante scuotendo le canne come un mostro preistorico. Abbiamo cominciato a pagaiare tra le alghe quasi da olimpionici!!

Anche se con qualche brivido e difficoltà mi ha fatto molto piacere vedere, finalmente dal vivo, questo gigante dalle zampe corte e le orecchie a sventola.

Domani ci spostiamo nuovamente fino al villaggio di Katesh, alle pendici del Monte Hanang. Ci vorranno un paio di ore di pulmino ma avremmo i due giorni successivi a disposizione per organizzare la salita. Dal lago Babati si vedeva in lontananza la montagna e mi è sembrata molto bella: un vulcano inattivo di 3417 metri che si alza tra le colline e la pianura.

Prima di chiudere vorrei però riportate qui per Voi un passaggio sugli ippopotami di uno dei miei autori preferiti: Alexander Lake. Eccovi la storia di uno tra i più strani ippopotami che sia andato a spasso per l’Africa.

I primi esploratori africani, come Livingstone, Stanley, Speke, Du Chailly, Burton, Grant e Baker descrissero l’ippopotamo come un animale feroce ed aggressivo. Non solo essi non conoscevano l’indole di questo animale ma mostrarono di credere a tutte le atrocità che gli indigeni raccontano a proposito dell’ippopotamo. Peggio ancora le narrarono come storie autentiche… Il più famoso tra gli ippopotami erranti fu Hubert, un ippopotamo di tre tonnellate, che al principio del 1940, si scosse dai piedi il fango della sua nativa palude nello Swaziland e partì per andare a scoprire le meraviglie del Sud Africa. Per più di trenta mesi Hubert sconvolse le teorie degli zoologi e degli scienziati, compiendo la travesata del Transvaal e del Natal, alla media di un miglio al giorno, e viaggiando sempre su strade di grande comunicazione o su quelle secondarie. Percorse più di mille miglia, visitando i villaggi, i kraal, le fattorie e le città. La maggior parte dei giornali d’Africa e d’Europa seguirono giorno per giorno la sua impresa. Poichè avvenne di frequente che le piogge cadessero poco dopo il suo passaggio in un dato distretto, i Kaffir incominciarono ad adorarlo come il Dio della Pioggia. Perfino alcuni bianchi lo adorarono. Fu un viaggio trionfale. Nelle fattorie e nei villaggi accoglievano il grande “cavallo di fiume” con mucchi di squisiti cavoli, di sedani e canne da zucchero. Quando non si era provveduto in tempo al suo pasto andava nei campi e, facendo uso dei suoi enormi denti, si procurava il cibo da se. Gli piaceva stare in compagnia della gente ma mostrava scarso interesse per le automobili. Sembrava che avesse uno spirito religioso perchè sostava sui sagrati delle chiese più a lungo che in qualsiasi altro posto. Per tre giorni si sentì a cosa sua in un monastero buddista e se ne andò soltanto dopo aver mangiato la maggior parte dei fiori e dei firgulti che c’erano nel giardino. Ogni tanto passava una giornata nei templi indù. Presso Johannesburg, a circa duecento miglia dallo Swaziland, Hubert prese bruscamente la direzione sud-est e si diresse verso Durban. La città organizzò un accoglienza trionfale per l’arrivo di Hubert, ma questi si fermò alla periferia della città per partecipare ad un banchetto a base di canna da zucchero. Benchè fosse stato proclamato “protettore della Provincia del Natal” e gli fosse stata accordata la protezione della polizia, sfuggì all’accoglienza popolare girando al largo ed entrando nella città da Parco Vittoria. Là consumò un pasto a base di fiori esotici prima di imboccare la West Street. Si servì senza complimenti di guiave e di nespole del Giappone quando passò davanti alle bancarelle della frutta, e sostò a lungo davanti ad un cinema guardando con interesse un manifesto che rappresentava Judy Garland. Mentre masticava un cavolo, alzo il grosso muso e annusò l’aria. Acqua! Lasciandosi cadere di bocca pezzi di foglie di cavolo si precipitò verso il serbatoio della città e prese un bagno. Per farlo uscire fu necessario adescarlo con carote, sedano e fieno. Stufo della gente che cercava di grattargli il dorso uscì dalla città dirigendosi vesto East London. Aveva percorso duecentoventicinque miglia e se ne stava un pomeriggio nel bel mezzo della strada rimirando dei fiori rosso vivo quando una canaglia d’un bianco lo uccise con una fucilata. Gli indigeni dicono che l’assassino fosse un contadino boero ma la polizia non fu mai in grado di accertarlo. Nel 1953 una statua di Hubert fu innalzata nel Parco Vittoria dai cittadini di Durban

Polaroid dalla Preistoria

Polaroid dalla Preistoria

Kolo-kondoa
Kolo-kondoa

Il nostro viaggio, dopo tanti scossoni, prosegue finalmente a piedi addentrandosi nella natura Africana. Qualcuno disse: “Ignoranza, trascuratezza e stupidià: ecco la causa di tutti i guai!!”. Io sono una matricola in Africa ma spero di non essere così stupido da trascurare la quantità di cose che non conosco di questo mondo così diverso dal nostro. Così avanziamo “pole pole”, piano piano, inmmergendoci per gradi tra la flora e la fauna di questo continente.

Aver trascorso due giorni camminando su e giù per le colline di Kolo però non è stato affatto male. Qui tutto è diverso: tralasciando i grandi animali c’è da rimanere sorpresi dalla quantità di piante, insetti e uccelli che si possono incontrare e di cui si ignorava l’esistenza. Alcuni bellissimi, altri brutti in modo incredibile. Oggi ho trovato un piccolo prato pieno di minuscole piantine che, con mia enorme sorpresa, si muovevano al tocco accartocciando le foglie!!

Far camminare Enzo è quasi sempre come trapanarsi le dita dei piedi ma, questa volta, anche lui era contento di arrampicarsi tra le rocce in mezzo alla boscaglia. Kolo-Kondoa è infatti un territorio dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità per le numerose ed antichissime pitture rupestri che si possono incontrare nelle sue grotte e nei suoi anfratti.

Nonostante la fama tra gli scienziati non gode di grande notorietà tra i turisti. Essere il primo nome in cima alla prima pagina del registro per i turisti stranieri del 2010 rende abbastanza l’idea di quanto sia frequentato: Enzo era il numero due!

Il panorama è fantastico e l’esperienza è sicuramente coinvolgente: immersi nella natura, tra le buche dei facoceri e le torri in terra delle termiti, si può visitare un angolo di Africa dove si ritiene abbiamo visto la luce alcune tra le più antiche manifestazioni artistiche dell’uomo.

I disegni, che raffigurano animali, uomini, scene di caccia e donne che ballano, sono stati realizzati mischiando pigmenti vegetali a grasso animale. Laddove la roccia non era esposta alla pioggia o alla colata dell’acqua si sono conservati per 3.000 anni mentre i più vecchi sono datati anche 30.000 anni. Incredibile!!

Il guardiano del parco ci ha accompagnato attraverso le colline e, dopo aver ricevuto in regalo una Polaroid che lo ritraeva quasi sull’attenti, ha dato il permesso ad Enzo di fotografare le pitture rupestri. Enzo, con le sue nuove basette alla Emmerson Fittipaldi, si è quindi dato da fare con la sua Polaroid SX-70: nel 2010 una vecchia macchina istantanea degli anni ’60 immortalava l’opera di uomini risalenti alla preistoria. Un bel miscuglio di contrasti!!

Gialli, rossi e bianchi. Quei disegni rappresentano tutta l’esigenza di comunicare e condividere che distingue l’uomo da qualsiasi altro animale sul nostro pianeta. In quei rudimentali disegni c’è molto di quello che siamo oggi, la genesi di tutte le incredibile culture umane.

Trovarsi faccia a faccia con qualcosa di così antico dava una sensazione strana. Era come leggere un racconto dalla preistoria. Come uno sciocco mi sono ritrovato a chiederemi quanto fosse diverso da quello che provo a fare con “Cima” e se anche Lei, un giorno, diverrà un soggetto da archeologia. Chissà, Non si può sapere cosa riserva il futuro. Forse quel giorno la distanza tra quell’ uomo primitivo ed il montagnino informatico di Asso non sembrerà tanto grande o forse già oggi siamo più simili e vicini di quanto appaia.

La nostra prossima tappa è il paesino di Babati dove conto di vedere ancora altri grandi animali e salire in montagna sulle pendici del monte Hanang, un vulcano inattivo di 3400 metri. Ciao e a presto!!

Davide “Birillo” Valsecchi

Nulla è per caso

Nulla è per caso

Asso Tribe
Asso Tribe

Quando si viaggia in posti come l’Africa o l’India si devono compilare moduli e registri ogni due per tre. per polizia, per le guest house, i bus office o semplimente per i confini tra le regioni.  Di solito è una gran seccatura ma qui mi diverte: è infatti richiesta la nazionalità, il nome di mio padre e la tribù. Si la tribù. Io scrivo orgogliosamente “Asso Tribe” ogni volta.

Io ed Enzo siamo diversi in modo quasi incredibile ed è stupefacente come, nonostante i battibecchi, si riesca ad andare così d’accordo nonostante tanta distanza di vedute. Qualche giorno fa abbiamo incontrato un pastore protestante di origine tedesca, era un uomo di chiesa sposato con una figlia, anche piuttosto carina, e praticava intensamente Tai-chi discutendo di buddismo. Abbiamo speso un pomeriggio intero aspettando un pulman, bevendo birra e discutendo di “Complementarietà“. Forse è per questo che andiamo d’accordo…

Ma perchè siamo finiti sul Tanganica? Bhe, ci sono un sacco di motivi. In primo luogo l’anno scorso abbiamo dato vita ai Flaghéé ed abbiamo attraversato tutto il lago di Como. Lo stesso anno abbiamo creato una specie di gemellagio tra il Lario ed il lago Dal in Kashmire realizzando alcuni articoli sia per i giornali Indiani che Italiani. Essere in Africa e non creare un legame tra uno dei magnifici laghi di questa zona ed il nostro sarebbe stato un grave errore.

Il Tanganica, poi, è un luogo magnifico. Il lago ed il territorio che lo circonda sono di una bellezza avvincente. E’ più che comprensibile perchè abbia colpito tanto intensamente i coloni inglesi e tedeschi che nel secolo scorso cercarono qui fortuna.

Inoltre c’è un altra storia di cui sarebbe interessante parlare. Non facciamo mai nulla per caso, c’è sempre qualcosa di noi nelle nostre scelte. Il papà di Enzo, Angelo Santambrogio, era fabbro ed aveva la sua officina sotto casa. Quando, a metà pomeriggio, usciva per andare “al cafferino” per un caffè il piccolo Enzo, all’epoca ancora bambino, correva sul terrazzo per chiedere al padre dove stesse andando. Era diventato quasi un rito, un piccolo gioco tra i due: “Vado in Tanganica e non torno più” gli rispondeva Angelo in dialetto. Enzo allora chiedeva sempre se poteva andare anche lui con il padre che, ogni volta, gli rispondeva: “No, vado da solo, è troppo lontano il Tanganica”.

Era un piccolo scherzo, il Tanganica era semplicemente un posto “troppo lontano” con cui scherzare con un bambino. Quando siamo arrivati in Africa Enzo mi ha raccontato la storia e mostrato una piccola foto dei suoi genitori. Un’immagine un po’ scolorita dei due seduti a tavola. Entrambi sono mancati anni fa e quella foto è un caro ricordo. Non c’è voluto molto per decidere dove andare…

L’altro giorno, Quando siamo scesi dal Liemba, conoscendo orami abbastanza Enzo ho abbassato la tesa del mio cappello sugli occhi e gli ho chiesto: “Okay, Dov’è?”. Lui ha riso sornione e mi ha indicato un punto del Liemba senza farsi vedere. Sotto una piccola sporgenza, sul montante della scialuppa di salvataggio, protetta dalla pioggia e dagli sgaurdi c’è incollata la piccola foto. “E’ un buon posto” gli ho detto. “Alla fine li ho portati io in crocera sul Tanganica” mi ha risposto soddisfatto e commosso.

Non importa quanta scienza, conoscenza o coscienza si riesca ad accumulare, siamo la nostra infanzia, la nostra famiglia, la nostra via, la nostra casa, il luogo in cui siamo nati. Più ci si spinge lontano da tutto ciò e più si distingue ciò che realmente ha importanza per noi in questo confuso oceano di sciocchezze in cui viviamo. I cedri, la cascata, il suono della sirena dall’Oltolina in un’afosa giornata di agosto mentre il sole tramonta dietro il promontorio di “Piazza Dorella”. Ecco quello che siamo. Solo dei palazzinari o dei politici da quattro soldi non capirebbero che è questo ciò di cui siamo fatti, che è questa l’identità che dobiamo proteggere per conservare quello che siamo.

I due della “Asso Tribe” sono ancora in giro per l’Africa. Oggi cerchiamo di raggiungere Kondoa, uno dei siti archeologici più antichi ed interessanti del continente. A presto!!

Davide “Birillo” Valsecchi

ps. il serpente che ha morso Enzo era più che velenoso,  era mortale in 30 minuti. Ma fortunatamente è un serpente che produce poco veleno e, una volta usato per cacciare, rimane senza anche per un paio di giorni. E’ molto aggressivo, quando è senza veleno morde e scappa senza risultare pericoloso. Per questo i pescatori ci hanno raccontato che superata la mezz’ora, il tempo in cui il veleno uccide un uomo, si può cominciare a stare più tranquilli. E’ stato fortunato questo giro, speriamo che gli passi la mania di curiosare. Salvo i due buchi nella gamba, dopo una settimana, non ci sono altri problemi per il nostro artista nostrano.

I Flaghéé attraversano il Tanganica

I Flaghéé attraversano il Tanganica

Liemba
Liemba

Dopo tre lunghi giorni di viaggio, l’ultimo dei quali nel cassone di un camion, siamo arrivati a Kasanga, il primo porto tanzano a sud della riva orientale del lago Tanganica. Il viaggio, nonostante i disagi, è stato fantastico: siamo un po’ ammaccati dagli scossoni e scottati dal sole ma abbiamo potuto godere di panorami stupendi, colline verdi e lussuregganti pianure che si estendevano a perdita d’occhio.

Il Tanganica è enorme, è difficile spiegarvi quanto sia grande. E’ il secondo lago al mondo per superficie e ci si è presentato davanti con la possanza di un mare, con un tramonto sull’acqua in un orizzonte azzurro.

A Kasanga ci aspettava una “vecchia signora” che, dopo lunghi mesi di manutenzione, riprendeva servizio proprio in questi giorni: il Liemba. Un battello di 70 metri costruito dai tedeschi alla fine dell’800 e portato qui, pezzo per pezzo, dalla ferrovia. Il più vecchio natante in navigazione su questo lago, un cimelio del passato che ancora oggi rappresenta l’unica possibilità di attraversare il Tanganica nei suoi 700km di lunghezza.

L’anno scorso, a remi in canoa, abbiamo percorso il periplo del Lago di Como esplorando le coste del Lario. Quest’anno siamo su un altro lago e su un’altra imbarcazione straordinaria.

Durante i due giorni e mezzo di navigazione il Liemba ha imbarcato merci e passeggieri lungo le sponde del Tanganica. Prima di entrare nel porto di Kigoma, sul solo ponte della nave, esposte al vento del mattino, c’erano oltre 80 persone che si affolavano tra i bagagli. Nella pancia della nave erano stipati sacchi di cemento, di farina e ceste di pesce e nelle sale della seconda e terza classe erano accalcati quasi altri 200 passegeri. La nave era un brulicare di vita e colori. Quando ho chiesto al bigliettaio del Liemba, un signore simpaticissimo, quante persone fossero a bordo quando siamo sbarcati a Kigoma mi ha risposto “470”, ma la capacità del Liemba è di oltre 600 passeggeri con 200 tonnellate di carico!!

La maggior parte di quella gente era salita a bordo, anche nel cuore della notte, affiancandosi al Liemba con piccole imbarcazioni ed arrampicandosi lungo i suoi fianchi mentre la gru riempiva la stiva di carico.

Enzo si è sbizzarrito con le foto di questo gioiello del passato ancora più che mai vivo. Scatti e polaroid per immortalare questo museo galleggiante che ogni settimana attraversa il lago più grande d’Africa.

Ora siamo a Kigoma e domani partiremo alla volta di Dodoma lasciando l’Africa occidentale e spostandoci nel cuore della Tanzania. Ci aspettano ancora due incontri importanti lungo il nostro viaggio ma, visto che qui è sempre difficile essere certi di come andranno le cose, non voglio anticiparvi nulla.

Davide “Birillo” Valsecchi

Ps: Con un Fundi dell’ humeme abbiamo sistemato “all’africana” l’alimentatore del PC e siamo di nuovo on line. Comunicazione di Servizio: Ivan correggi l’articolo che l’ho dovuto scrivere di corsa con il pc imballato. Asante sana, ciau…

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