Appena superiamo il crinale indico a Josef lo sperone di roccia e la fessura che gli avevo mostrato in fotografia. I suoi occhi azzurri si fanno intensi mentre osserva la roccia strapiombrante e la lunga spaccatura che risale il calcare ruvido. “Birillo, hai trovato davvero un gioiello!”.
La struttura rocciosa è appena al di sotto dello “Scoglio di Arianna”, tra le rocce sotto l’anticima del Moregallo, nella porzione di montagna dove i Badgers, nei limiti delle loro capacità, stanno caparbiamente dando vita ad una *NoSpitZone*.
Con il naso all’insù abbiamo atteso che il sole cominciasse a filtrare nella piccola gola. Poi, indossando gli imbraghi e l’equipaggiamento, è iniziata l’avventura: Josef in apertura, Mav alla sicura.
La fessura è abbastanza larga ma la parete strapiomba in modo continuo, molto più di quando appaia dal basso. Solo da “dentro” o risalendo sullo sperone accanto ci si rende conto di quanto sia realmente aggettante. Josef è un alieno ed è un privilegio guardarlo salire attraverso quella linea evidente ed allo stesso tempo ignota.
Trenta metri di via in fessura protetta tutta a friend (un solo chiodo a metà via). I primi dodici metri sono strapiombanti, un VII continuo con un movimento iniziale di VII+: l’attacco è davvero intenso!! Poi la via prosegue con un altro passaggio strapiombante di VI. Giunti alla cengia erbosa la parete regala una godibilissima uscita su roccia solida ed appigliata di III. Una robusta pianta offre la migliore soluzione per una solida sosta. Un capolavoro della natura ed uno straordinario talento si sono incontrati!!
E’ stato Josef a scegliere il nome per la fessura: non posso negare che la sua scelta è stata per me un grande onore. Grazie!
Dopo la TorreTonda al Corno Orientale il nostro piccolo e scalcinato gruppo sta dando vita ad un secondo spazio *NoSpitZone* nel territorio dell’Isola Senza Nome. Spazi dove poter praticare l’arrampicata senza “infissi geotecnici”, affrontando le difficoltà in modo rispettoso, naturale ed in totale libertà di scelta.
Un approccio che non vuole essere nè polemico nè provocatorio, ma che esprime la volontà di confrontarsi con l’arrampicata (ed i propri limiti) in modo sincero e consapevole, seguendo l’esempio luminoso dei pionieri dei Corni (Eugenio Fasana in primis).
Credo che molti altri alpinisti “indigeni”, sia giovani che anziani, condividano questa visione. Vi invito quindi ad esplorare il nostro territorio, a godere delle sue bellezze ma senza cedere a velleità di conquista, senza brutalizzare questa roccia selvaggia con la punta di un trapano e con tutto ciò che questo comporta: ognuno lassù deve poter trovare la “propria” via.
Buon Anno a tutti voi dai Badgers!
Davide “Birillo” Valsecchi
Ivan Guerini ha concepito il marchio ZONE NO SPIT (o NO SPIT ZONE) per la preservazione della Natura Verticale. Ivan ha disegnato a penna il logo di quest’idea sul sacco d’arrampicata di Josef in un caldo pomeriggio di sole in cui ho avuto la fortuna di arrampicare con loro. Su quel sacco, oltre all’adesivo dei Badgers, ci sono numerose firme di alpinisti ed arrampicatori che condividono questa visione dell’arrampicata.
Dicono che il Natale sia la nascita di una nuova Luce, una luce che non è di questo mondo, che rischiara la tenebre irradiando l’umanità, donandole la consapevolezza e la speranza necessaria per un nuovo cambiamento. Nei giorni del Solstizio il sole sembra “fermarsi” per poi ripartire, l’apice di un “viaggio” che ha la capacità di influire sull’intero pianeta e sulla vita di tutte le creature che lo popolano. La luce, la gravità, il tempo, il senso di appartenenza e la condivisione: …in effetti sono giorni strani, giorni inquieti.
Perchè saliamo sulla cima delle montagne portando con noi una luce nelle tenebre?
Ieri notte ero sulla cima del Corno Occidentale. In piedi ai margini della parete Est, all’uscita della Rosa Canina. Ero al buio ed osservavo, oltre il vuoto del camino Gandin, le frontali dei Badgers che risalivano la ferrata del Venticinquennale: Simone, Mav, Andrea, Keko, Francesco e Federico. Per i più giovani quella era prima notturna sulla roccia dei Corni.
L’orizzonte era pieno di luci: Il Cornizzolo, il Palanzone, Megna, la Crestina Osa, il corno Rat e le croci illuminate del Resegone e del Corno Birone. Alle mie spalle Mattia, Teo e Nicola presidiavano la Croce del Corno Occidentale: avevamo portato su per il caminetto una “tremendamente pesante” batteria a 12Volt con cui alimentare una striscia di led avvolta alla croce. Quando abbiamo abbiamo attaccato i morsetti dando corrente il Corno si è trasformato in un faro! «Siamo qui! Ci siamo anche Noi! Tanti auguri anche a Voi!!»
Quando la squadra si è finalmente ricongiunta sulla vetta siamo scesi tutti insieme fino alla Sev. Il rifugio era chiuso ma la nostra brigata ha trovato posto nel nuovo bivacco. Abbiamo aperto un pandoro e stappato bottiglie di spumante. Abbiamo brindato, cantato e fatto festa. Questa è la nostra montagna: qui abbiamo imparato a conoscerci ed i nostri legami si sono fatti più forti.
Ingollando panettone e spumante mi sono guardato intorno: la gioia che traspariva nel sorriso dei miei amici era più luminosa di qualsiasi led. Questa è la luce che portiamo sulla cima dei Corni. Buon Natale amici miei!
Davide “Birillo” Valsecchi
Un grazie a Niky per le foto ed alla S.E.V. per aver realizzato il nuovo bivacco.
«Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana…» In questi giorni sto sistemando un vecchio e malconcio computer portatile: vagando tra i suoi archivi riemergono scheggie di un passato, un passato che appare lontanissimo ma che con qualche foto sembra improvvisamente rivivere. Ecco all’imporvviso l’Africa!!
Alcune di queste foto le ha scattate Enzo Santambrogio con la mia vecchia e scassata Sony. Quella gloriosa macchinetta fotografica aveva preso un sacco di botte, ma nonostante avesse una macchia sull’obbiettivo ci eravamo affezionati a lei. La utilizzavamo per le prove, per divertirci o in tutte le situazioni in cui, per rubare qualche scatto, c’era il rischio ce la sequestrassero.
Queste foto, in bassa qualità e macchiate, non potevano essere usate per le attività di Enzo, erano la seconda scelta. Curiosamente il destino ha voluto fossero loro le sole a salvarsi dalle peripezie di quei viaggi. Ironia del destino.
Ogni tanto mi mancano quei viaggi, la spensieratezza di quella gioventù che cercava di sopravvivere a sè stessa. A volte mi manca anche Enzo, lui e le nostre insensate chiacchire con una birra in mano nei posti più strani. Sono contento di averlo rivisto tempo fa. Prima o poi, quando saremo due vecchie e coriacee cariatidi, aggiungeremo anche noi un nuovo capitolo alla nostra trilogia. Andremo a vedere il Bajkal tirandoci dietro tutti i Badgers …e magari anche qualche marmocchio.
Mi piace l’idea: non è “l’isola senza nome” ma, accidenti, che gran posti!
[Articolo di TeoBrex] Ultimi fine settimana intensi dal punto di vista Speleologico. Comincio dicendo, con grande orgoglio per il BADGER TEAM, che la GROTTA DEI TASSI DEL MOREGALLO è stata rilevata e messa in archivio nel Catasto Grotte della Regione Lombardia. Direi un risultato più che ottimo per la squadra!
Lo Speleo Club Erba (SCE) sta portando via tutto il tempo libero a mia disposizione, mi piacerebbe passare più tempo con voi in parete ed a spasso per il Moregallo, ma la passione e l’attrazione verso gli abissi terrestri è per me ormai una priorità. Perdonatemi!
Siamo attivi su molti fronti, in quanto questo periodo di secca prolungato ci sta dando la possibilità di progredire in alcuni rami e meandri che in questo periodo sarebbero impraticabili causa forte stillicidio se non addirittura allagamento totale di alcune zone ipogee.
Stiamo esplorando diverse aree, ma l’attenzione della mia squadra è incentrata presso il sistema carsico dell’Abisso del Monte Bül e della Grotta Guglielmo (pendici del Monte Palanzone). È una bella sensazione essere parte di questa spedizione, perché il Complesso Bül-Guglielmo ha una storia esplorativa antichissima ed ora tocca a noi aggiungere altre pagine ai gloriosi racconti del passato.
Durante le prossime festività, resteremo due o tre giorni (dipenderà dalle esplorazioni in corso) in grotta ed avremo appoggio logistico al Campo Base che abbiamo appena montato e riempito di acqua potabile, corde, piastrine e fix a -300metri di profondità ed a circa 3 ore e mezza di progressione (sostenuta) dall’uscita.
Mentre il fondo è fermo a quota -557metri in frana, quindi non proprio una cosa banale considerando la presenza di molti pozzi di cui i più profondi misurano 27, 40 e 75 metri (solo per arrivare al campo) da scendere e risalire su corda con maniglia, pedale, croll, discensore e rinvio.
Sarà una bella esperienza, speriamo che tutto vada bene, perché in grotta il minimo errore e la minina distrazione può davvero fare la differenza tra una grande esplorazione ed una tragedia.
Tornando al resto delle attività, siamo stati alla Sorgente di Fiumelatte a svuotare il sifone di un ramo fossile, ma dopo averlo attraversato con muta stagna, un nostro prode speleo ci ha avvertiti della chiusura del sifone successivo quindi addio sogni esplorativi.
Siamo stati in Val Cosia e nel Vallone di Albese per tentare una giunzione tra due grotte, per provare ad innescare un sifone pensile e per seguire una corrente d’aria in cerca di nuovi meandri, ma non abbiamo ottenuto i risultati sperati.Ma presto ci rifaremo!
Oggi, quasi per coincidenza, mi sono capitate in mano alcune foto del viaggio in Ladakh nel 2009. Una piccola avventura di tre mesi vissuta con quel pirata di Enzo Santambrogio. Sembra incredibile siano passati già così tanti anni, che il tempo diventi la misura delle trasformazioni che ci circondano. Spulciando negli archivi di “Cima” ho tovato un vecchio articolo: una riflessione scritta quasi in diretta in quei giorni sull’altopiano. All’epoca, con un telefeno satellitare, era difficile pubblicare fotografie, così ho pensato di riproporvelo aggiungendo qualche immagine. Posso assicuravi che è davvero curioso ritrovarsi faccia a faccia con il proprio IO passato…
La sofferenza in un sorriso…
Ci fermiamo per un po’, il sole si è fatto caldo ed il fiato si fa corto. Siamo costantemente sopra i 4000 metri e la quota ormai è una compagna fissa. Ci tiene la mano e ci sorride ad ogni passo. Quando ci dimentichiamo di lei si offende e si fa sentire afferrando i nostri respiri. Per andare a spasso quassù devi portarla a braccetto e trattarla bene. In questo deserto di pietre e colori ambrati le si può concedere tutto perchè lei, anche solo sorridendo, può veramente prendersi ciò che vuole.
Mi guardo intorno stupefatto, qui ci sono montagne e valli intere dove non vi è anima viva nè avrebbe ragione d’esservi per la durezza di questa terra. Non cresce nulla e tutto sembra consumarsi e sgretolarsi nel sole. Non si può visitare i monasteri senza comprendere quanto aspra possa essere la vita quassù. Non si può ammirare i disegni affollati di demoni e leggende senza comprendere le difficoltà e le incertezze che dovevano affrontare i loro autori.
Attraverso la valle i monasteri si guardano tra di loro, distanti ed isolati sono abbarbicati sulla roccia come fari in mezzo ad un mare ostile, come bandiere in mezzo al deserto. Attorno a loro non c’e’ nulla se non distese di roccia e più in alto solo il bianco della neve. Guardando la desolazione che li circonda vedo i monasteri ed i monaci per quello che erano: un baluardo ed un rifugio dell’uomo in mezzo al nulla.
Le loro regole, le loro preghiere ed i ritmi delle loro vite erano protese a sopravvivere e a sperare. Qui la pace e la fratellanza erano l’unica difesa contro le forze terribili che dominano l’altopiano. Dietro le mie lenti polarizzate, avvolto nel goretex e nel meglio della tecnologia alpinistica non posso che domandarmi come abbiano potuto sostenere, per secoli, il bagliore accecante di questa luce, il vento che incessante si alza ogni pomerggio ed il tempo che cambia con la velocità con cui corrono le nuvole. Cosa li ha trattenuti quassù?
Tutto quello che vedo mi appare magnifico ma terribile. La natura magnifica e crudele nel suo massimo splendore. Affondo con gli scarponi nella ghiaia sapendo che ogni passo, prima o poi, mi porterà verso casa, verso il verde dei nostri laghi e l’abbraccio delle nostre montagne. Ripenso ai prati, agli orticelli e ai nostri fiumi. Qui non hanno nulla di simile, qui la natura concede avara i suoi doni e non è clemente con nessuno. Non vedo nulla qui che possa alimentare una simile speranza in questo popolo. Dove nascono i loro sorrisi?
I monaci non potevano uscire a falciare i prati perchè non ve ne sono, non potevano fare legna perchè non ci sono alberi, non potevano coltivare la terra perchè senza grandi sacrifici è arida e sterile. Per scaldarsi durante l’inverno essiccavano gli escrementi delle loro magre bestie ed accumulavano quello che potevano. Portati a termine con fatica i pochi lavori che questa terra offre non rimaneva altro che chiudersi in preghiera e sperare. Sperare che fortificando lo spirito anche il corpo avrebbe potuto sostenere le privazioni. Nel buio dell’inverno recitare le proprie pregiere fatte di respiri e suoni profondi ed intensi, ripeterle all’infinito scacciando i demoni della montagna, del vento, della fame e del freddo. Ripetere all’infinito perchè il tempo stesso perda di senso e la mente si perda in un mondo diverso, perchè nella meditazione il corpo trovi la forza nella mente. Perchè quassù si è costretti a cercare dentro di sè, fuori vi è ben poco da trovare. Ecco il fascino di questa gente.
Una terra che mi appare meravigliosa da attraversare ma un calvario in cui vivere. Eppure non ho mai visto tanti sorrisi come tra questa gente. Dove traggono tanta speranza in un mondo tanto difficile? Sono le preghiere? Il mondo magico di demoni e credenze che anima la loro religione basta a dar loro tanta forza?
Alieno guardo questa gente, i loro bambini e le loro case. Sono equipaggiato ed addestrato per quella che è la mia missione qui, attraverserò le loro montagne cercando di trattenerne l’essenza e catturarne il ricordo. Sono qui per accarazzare la loro cultura esplarando il loro mondo ma non posso che sorprendermi umile nei confronti della loro forza. Tutta questa bellezza riempie i miei occhi ma flagella le loro vite. Io tornerò ai nostri laghi mentre loro continueranno il proprio cammino quassù.
Ho visto gente in città, gente venuta da fuori, li ho visti scimmiottare i vecchi costumi, parlare forbiti della religione atteggiandosi ad illuminati. Stupidi pagliacci ipocriti che tre mesi all’anno diventano mucche grasse da mungere per questa povera gente. Credono di poter capire il mistero di queste terre gratificandosi di una spiritualità che non è loro senza aver assaggiato l’asprezza di questo mondo. Come dice Enzo: per qualche spicciolo sono venuti a comprarsi il loro “Nirvana Take Away”. Compiacetevi della vostra mediocrità e tornate alle vostre case arricchiti di una rinnovata stupidità da esporre!!
Io vengo da montagne verdi e nemmeno proverò ad essere come la gente di queste montagne aride e dure. In loro vedo una resistenza ed un ingenuità che non è mia e che non potrebbe appartenermi. Incuranti della propria precaria vita li vedo pregare per il benessere del mondo intero ed il mio egoismo brilla come fari nella notte davanti ai loro sorrisi.
Sospiro lasciando che nel peso di questa quota si perdano i miei peccati e recito la mia preghiera silenziosa per questa gente. A Dio piacendo tornerò ai miei laghi e continuerò la mia strada mentre all’orizzonte vedo i nuovi demoni che cavalcano eccitati per raggiungere questa terra remota. I nuovi venuti sconfiggeranno i demoni locali, scaccieranno il freddo, la fame e forse anche la miseria ma divoreranno il sorriso e la forza di questo popolo.
Mi infilo lo zaino, non sta a me decidere quale debba essere la croce altrui. Non ho risposte nè consigli per loro, posso solo ringraziarli per avermi accettato e mostrato una lezione preziosa che porterò con me. Prendo fiato e mi tiro in piedi, c’è ancora molto da vedere prima che cali il sole.
La nostra piccola armata brancaleone sta iniziando a muovere i suoi primi passi spingendosi “dove nessun Badger è mai stato prima”. Stiamo infatti cercando di capire come migliorare, come affrontare e confrontarci in modo autentico con una salita ignota e vergine sperimentando i rudimenti dell’arrampicata in modo “trad”. Per alcuni aspetti siamo davvero buffi, qualcuno potrebbe trovarci persino patetici, tuttavia quello che stiamo provando a fare ci da una grande soddisfazione e credo che nel futuro ognuno di noi troverà queste piccole esperienze come inestimabili e preziose.
Martedì gli zaini erano carichi di tutto il materiale a nostra disposizione: un set completo di friend economici degli anni ’80, vecchi chiodi cassin, un martelletto leggero ormai senza più vernice, fettucce, cordindi d’abbandono ed un serie mal assortita di nat. Dopo un’ ora e mezza di cammino eravamo sul paglione addentrandoci tra le rocce e gli speroni alla base della parete Ovest dell’Anticima del Moregallo. Mav, Andrea, Brambo, Marzio ed Io: per i più giovani era la prima volta in quella zona della montagna.
Avevamo addocchiato una struttura rocciosa che sembrava fare al caso nostro: non troppo alta, non troppo difficile, in grado di offrire protezioni buone e semplici da realizzare. Speravo in una Crestina Osa in miniatura ma ci siamo trovati davanti qualcosa di un po’ più complesso. A condizionare il tutto sopratutto la qualità della roccia non sempre rassicurante.
Dal basso la faccenda sembrava complicata, di fessure ed appoggi ce ne erano parecchi ma l’inclinazione del muro era più verticale del previsto. Aggiungendo scaglie, sassi mobili e passaggi di roccia delicata il tutto diventava un po’ troppo complesso per l’esperimento di un gruppo di neofiti.
“Uno forte andrebbe sù seguendo quelle fessure. Il guaio è che noi non lo sappiamo se siamo forti o meno. Facciamo il giro e vediamo perlomeno se in alto è possibile fare una buona sosta” Tutti insieme abbiamo aggirato la struttura risalendone un fianco attraverso un piccolo canale erboso. Giunti sulla sommità abbiamo trovato una buona radice su cui allestire con cordini e fettuccie una solida sosta a tre punti.
Non avevo voglia che qualcuno si facesse male o si spaventasse. Eravamo su roccia sconosciuta in un angolo selvatico del Moregallo. Tutto doveva essere fatto con massima cautela. Ho controllato con Mav la sosta ed atteso un secondo: poi ho deciso. Se il leggendario Giacomo Casati prima, ed il fortissimo Giuseppe Dorn poi, avevano calcato la roccia della Cresta Segantini scendendo dall’alto anche noi mezze seghe potevamo buttare giù un “canapo” e vedere cosa fossimo in grado di combinare!
Così ho buttato la corda nel vuoto lasciando Mav a fare sicura mentre con gli altri sono tornato nuovamente alla base. Certo, la corda dall’alto avrebbe evitato di accopparsi ma tutte le altre incognite erano ancora lì da superare: il rischio di tirarsi addesso qualcosa e di sbattere era invariato.
Teoricamente sarebbe dovuto toccare a me risolvere la questione salendo per primo. Tuttavia non avevo ancora inquadrato completamente la faccenda: avevo più di un dubbio stando sotto con il naso verso l’alto. Inaspettatamente si è fatto avanti Andrea “Provo io! Dopo tutta la strada fatta fin qui una prova la voglio fare!” Ero sorpreso ma anche compiaciuto: i ragazzi stanno già iniziando a bagnarmi il naso!
Andrea parte e noi tutti a guardarlo, a dargli suggerimenti, a studiare quello che accadeva. Andrea si alza prima su una fessura verso sinistra, poi traversa verso destra in spaccata. Sale lento, con attenzione, tastando ogni presa ed ogni appiglio. Ogni tanto si ferma e butta giù qualche grosso sasso che lo minaccia dall’alto. Ero davvero stupito, stava arrampicando tremendamente meglio dell’ultima volta, e lo stava facendo con grande tranquillità su un terreno e su difficoltà assolutamente ignote. Quando finalmente raggiunge la sosta ci saluta dall’alto e noi, sotto, tutti ad applaudire! Credo che per lui sia stata un’esperienza intesa ed una grande soddisfazione! Credo che se lo ricorderà a lungo e che gli sarà di grande aiuto nel futuro: bravo Andrea!
Il turno successivo è quello di Brambo: Alberto inizia a salire, la sua linea è leggermente diversa da quella di Andrea, in alcuni punti la roccia fragile gli da parecchi grattacapi. Ma anche lui, con tranquillità e costanza, raggiunge la sosta. Anche per lui applausi e pacche sulle spalle!
Il sole d’inverno inizia però a calare. Siamo saliti in cinque e dopo due ore a piedi solo due di noi hanno potuto risalire un monotiro con la corda dall’alto. A qualche “pezzo grosso” il nostro potrebbe sembrare un magro bottino, potrebbe perfino definire tutta la nostra avventura come una banale perdita di tempo, come qualcosa di alpinisticamente irrilevante se non addirittura eticamente scorretto.
Può essere. Ma sapete come si dice: al tasso questo non importa (“Honey badger don’t care“). Siamo giovani, inesperti ed ignoranti in un mondo di cattedratici carichi di medaglie, in un mondo di gente che con il trapano in mano si sente sul Cerro Torre. Noi siamo i Badgers ed il Moregallo è la nostra nuova casa. Senza artifici o forzature abbiamo arrampicato rispettando noi stessi, i nostri limiti, la roccia e la montagna: quale onestà maggiore si può pretendere da un’alpinista?
Mav vorrebbe aprire una nuova via e dedicarla ad una bambina di nome Arianna. Noi, avendo arrampicato corda dall’alto, non abbiamo aperto una via a cui dare un nome. Tuttavia, visto che quella struttura un nome sembra non averlo, abbiamo deciso di battezzarla noi: Lo Scoglio di Arianna.
Davide “Birillo” Valsecchi
NB: Ancora una via non l’abbiamo aperta, ma è chiaro che Lo Scoglio di Arianna è NoSpitZone. Occhio 😉
“Birillo, questo di certo non è quinto grado!” Sbotta Simone sporgendosi oltre il muretto di sassi mentre osserva dall’alto la verticale Placca dell’Idiota. Io appoggio lo zaino e gli faccio il verso: “Suvvia, ai Corni tutto è quinto grado …per tradizione!” La placca, alta una ventina di metri, è però significativamente più impegnativa di quanto le mie speranze avessero valutato.
Poco male. Su di noi il sole brilla caldo e sotto San Tomaso un mare di nuvole bianche riempie la valle e copre il lago. Alle nostre spalle le guglie ed i pilastri del Moregallo risplendono quasi rossastri nella luce invervale. Si sta troppo bene per essere preoccupati. “Scendiamo sotto e diamo un occhiata dal basso”.
Insieme, attraverso il ripido prato, ci abbassiamo fino alla base della placca. “Bella è bella davvero. Però non vedo nulla in cui piazzare qualche protezione. Fino alla radice non c’è nulla ed oltre niente fino all’uscita. Dritta è dritta: anche solo in partenza non puoi alzarti cinque metri senza metter dentro niente”.
Il diedro sulla destra è un mezzo disastro di roba appoggiata, lo spigolo di sinistra invece offre qualche presa, qualche pianta ma, nella pratica, si riduce ad una salita su erba, poco sensata e piuttosto pericolosa. Proviamo ad allungarci sulla placca tastando le prese senza però trovare nulla. “La roccia sembra buona ma non c’è manco un buco in cui poter piazzare qualcosa”.
Simone accende una sigaretta e per qualche minuto rimaniamo con il naso in su ad osservare la placca. “Bhe, tempo ne abbiamo: torniamo su e vediamo se per lo meno è possibile fare una sosta e dargli un’occhiata”. Risaliamo per il bosco e, recuperati gli zaini, iniziamo ad imbragarci.
La placca è sormontata da un grosso muro a secco che i “vecchi” hanno costruito per evitare che le bestie al pascolo precipitassero di sotto. Tutti quei sassi ammassati mi davano però da pensare. Forse anche per questo nello zaino ho portato uno spezzone di corda statica da 30 metri: “Piazziamo la statica su due piante, lasciamo che superi il muretto e facciamo sosta sulla placca. Se mettiamo bene la statica il muro non dovrebbe venirci in testa neppure se strattoniamo”.
Una fettuccia su uno speroncino di roccia ci permette di realizzare una sosta pittoresca ma solida. Caliamo la doppia e, con attenzione a non scuotere il muretto, mettiamo tutto in tensione iniziando a discendere la placca. “Il diedro è pieno di roba smossa. La placca tiene bene ma è compatta. La fessura centrale è la sovrapposizione di due strati. I chiodi non entrano o fanno saltare la roccia”. Simone studia la placca, toglie qualche qualche crosta instabile e continua la sua esplorazione dal sapore spleo. “Bella è bella. Il grado è alto ma è arrampicabile. Il problema è uno solo: è inchiodabile e di friend o nat non se ne parla proprio.”
Una volta a terra mi calo anche io scattando qualche foto ricordo della nostra prima volta nel cuore della placca dell’idiota. Raggiungo le piccole piante che avevo visto dal basso. Una stretta fessura colma di erba risale verso sinistra. Purtroppo le pianticelle sono troppo piccole per sostenere un volo e la fessura, nonostante tutto, muore prima che la placca raggiunga il suo apice di difficoltà. Sulla spalla sinistra un grosso sasso appigliato appare sinistramente invitante ed instabile “Quello mi sa che appena lo tocchi saluta tutti e parte verso il basso!” “Sì, è grosso ma anche secondo me viene giù appena lo tocchi”.
Nuovamente con il naso all’insù ci ritroviamo alla base della placca. “Bhe, siamo qui. La sosta sembra buona. Proviamo almeno a salire?” “Birillo: è la tua placca, vuoi provare tu per primo?” “Naa, io non sono possessivo e quelle tacche sono troppo piccole per i miei gusti. Ti lascio il posto!”.
Simone inizia a salire mentre gli faccio sicura. La roccia è buona, richiede piccoli e precisi movimenti su piccoli appoggi ma tiene bene. Leggero e morbido Simone si alza, supera la prima placca, raggiunge una serie di piccoli oppoggi con cui si sposta nuovamente a destra raggiungendo la radice. Supera la piccola pianticella e prosegue tenendosi a debita distanza dal diedro. Verso l’uscita la placca diventa per pianisti e si ferma a studiare il passaggio. “Mancano due metri ma è dura: non c’è nulla. Devo per forza provare ad usare il diedro” Con una mano. senza nemmeno caricarci il peso, tocca la roccia del diedro, ma tanto basta perchè questa vada in pezzi e crolli.
Simone mi urla “Attento”. Con il reverso lo tengo ben saldo mentre una fettuccia mi sorregge placido ad una pianta. Dall’alto cinque grossi sassi saltellano nel diedro puntandomi allegri. In realtà avevo paura che mi crollasse addosso il muro o che il diedro andasse in pezzi franandoci completamente addosso. Nella mia mente ho immagini terrificanti, forse è per questo che guardo quei grossi sassi con una certa indifferenza. Ho un caldo sole alle mie spalle e non sono su qualche terrificante parete: per qualche strano ed insensato motivo so che quei sassi non possono colpirmi, non glielo permetterò.
Non so come ma, immobile, riesco seguire contemporaneamente tutte le traiettorie nonostante i rimbalzi. “Birillo schivare un pugno è sempre una questione di centimetri. Devi muoverti all’ultimo momento, se ti muovi prima non solo rischi di non riuscire a parare, ma rischi persino di sbatterci contro!” Le parole di Dario, il mio Maestro di KarateDo, risuonano leggere nella mia mente serena. Aspetta, aspetta…. Ora!! Fletto il busto sulla sinistra, poi di nuovo sulla destra. Due sono passati, ne resta uno. Sposto la testa sulla sinistra e mi abbasso. Una grossa pietra sfila sopra la mia spalla destra colpendola di striscio. Beh, tutto qui?
“Birillo!! Tutto bene!?” Urla Simone dall’alto. Io ridendo gli rispondo “Sì! Sì! Tutto bene. Mi sento come quando a Bush gli tiravano le scarpe in Irak! Hehehe!!” Simone scuote la testa ma, accertatosi della mia incolumità, si tranquillizza e chiacchieriamo un po’. “Niente. Se non puliamo il diedro, per uscire ti mollo addosso altri sassi. Fammi scendere che tocca a te.”
Lo calo, infilo le scarpette e mi avventuro sulla mia placca, quella dell’idota. I primi movimenti, a freddo, sono complicati. Poi prendo le misure. La placca non è certo il mio forte ma la roccia, nonostante la terra, che qua e là la ricopre, ha davvero un ottima presa e riesco a lavorare con precisione le scarpette mantenendo l’equilibrio. Con piccoli movimenti mi alzo seguendo linee sottili, quasi invisibili. Mi piace, mi diverto: roccia vergine, che meraviglia, tutto un’altro mondo!!
Supero la radice ed inizio ad alzarmi sulla seconda parte della placca. Rimonto un poco e poi mi fermo a studiare il passaggio “Dannazione, la tentazione di spaccare nel diedro è fortissima! In placca c’è qualcosa di piccola da usare ma il diedro qui a lato chiama forte. Se faccio il passo e devo riposizionarmi è quasi certo che vado a cercarlo.” Mi fermo, lentamente sposto il peso dagli appigli all’imbrago. Mi fermo, osservare la roccia, la placca ed i pilastri del Moregallo che svettano alle sue spalle. “Però è davvero bello qui!” Attendo ancora un’istante. “Okay! Fammi scendere ora!”
Una volta a terra sfiliamo la corda e ci sediamo al sole a chiacchierare in totale relax. “Secondo me l’inizio è sul 5c, poi si impenna sul 6a mentre l’uscita rischia di essere un 6c. La roccia è davvero bella ma senza mettere protezioni non puoi salirla dal basso”. Simone, con un po’ più di esperienza, ridimensiona il mio ottimistico quinto grado. “Bhe, non importa. E’ bella e mi è davvero piaciuto arrampicarci sopra. Trapanarla per metterci gli spit sarebbe un sacrilegio senza senso: solo un idiota potrebbe inorgoglirsi di una cosa simile. Direi che siamo stati fortunati: ci ha lasciato divertire nonostante non sia possibile vincerla senza barare. Una lezione istrutttiva – ammicco e rido – Davvero è la mia placca ed il suo nome le si addice! Chiunque vorrà fare altrettanto avrà bisogno solo di uno spezzone di statica e di un po’ di intelligenza. A me va bene così, anzi, forse così è pure meglio!!”
Infiliamo l’attrezzatura nello zaino e spensierati scendiamo verso valle. Bruna ha buttato la pasta e le altre squadre dei Badgers dalla montagna stanno rientrando tutte alla base (casa mia!). Nella mia cucina ci attende un pomeriggio affollato di amici, denso di racconti e carico di birra. Cos’altro si può volere da una soleggiata domenica di Dicembre?
I ragazzi mi hanno bidonato: ormai sono in grado di organizzare cordate indipendenti e sono andati a ripetere qualche via disertando il mio invito all’avventura. Sono cresciuti mentre io sono rimasto il solito vecchio squinternato. Forse è giusto così. Sorrido, in fondo sono contento: l’unico a rischiare la pelle oggi sarò io.
Aspetto che il sole si faccia caldo ed esco di casa. Imbocco un sentiero a caso e da piazza Fontana arrivo a via Preguda. La strada è invasa di auto parcheggiate: una piccola folla è salita alla chiesetta del Sasso per la messa. Giro al largo, taglio dritto per il bosco, attraverso i terrazzamenti puntando a rimontare direttamente la Forcellina.
Con un certo disappunto mi ritrovo a districarmi tra recinzioni e “divieti d’accesso”. Appeso agli alberi scavalco rovi e filo spinato maledicendo la “possessività” del genere umano. Tra un’imprecazione e l’altra mi accorgo però di non essere il solo in quello scomodo labirinto: mi imbatto prima in una coppia di caprioli e poi in un intero branco di mufloni. Ci guardiamo l’un l’altro con curiosa e selvatica complicità!
Poi finalmente raggiungo le rocce sotto la Forcellina. Sebbene molto friabili trovo qualche passaggio interessante e rimonto raggiungendo un boschetto illuminato da un sole splendente e da un panorama strepitoso.
Raggiungo le panchine della Forcellina e mi incammino lungo il sentiero “Paole e Eliana”. Infilo il casco, mi fermo su sasso di granito, ammiro la mia meta: la sommità dell’anticima del Moregallo. Davanti a me ci sono un susseguirsi di creste e guglie attraversate da profondi canali che ho osservato risalendo dalla Valle due Pile. In un silenzio forse colmo di solitudine inizio a salire.
Se invece dell’erba ci fosse ghiaia e pietrisco la mia salita avrebbe un che di dolomitico. Mi sposto stra cenge e canali aggirando speroni e rimondando balze rocciose. Tutto attorno a me è un campionario di forme e linee dall’orignalità straodinaria. Spesso mi fermo ad osservare le strane pose il mondo circostante è capace di assumere. La natura ha davvero una sconfinata fantasia!
Il vuoto della valle sottostante comincia a farsi sentire. Il bosco e la Forcellina sono lontane e tra qui “prati rocciosi” la verticalità comincia a prendere il sopravvento. Supero la prima “cima” ed attacco la successiva. Mi muovo con calma cercando di capire in quali punti passare senza lasciarmi sorprendere. Raggiungo la base della seconda cresta e mi sposto verso sinistra per osservare il canale sottostante.
Dal basso avevo visto dei bei muraglioni apparentemente non troppo difficili ed ero curioso di scoprire se esistevano passaggi che permettessero di passare. Mi ritrovo invece su una bastionata che precipità di oltre sessanta metri. Osservo stupito dall’alto le mille guglie sottostanti. “Di qui non si passa senza corda, non puoi disarrampicare, è troppo alto, troppo difficile, troppo sconosciuto”.
Il cuore accellera prima che me ne renda conto. La mia mente ed i miei occhi corrono tra le rocce, con la frenetica razionalità di un robot cercano linee e schemi che mi permettano una via d’uscita. Il mio cervello diventa una macchina fotografica e le immagini si riempiono di tracciati luminosi che ballano tra le rocce: ”Se sbaglio… se non vi è uscita oltre la cresta… se c’è uno strapiombo… se resto bloccato…”. La sensazione che mi ha investito è intensa, pervade ogni mio gesto. “Scusa Birillo, ma hai paura?”.
Le emozioni sono roba forte, roba che ti salva la pelle o che ti spedisce sotto terra. Faccio qualche passo, raggiungo un pianerottolo e mi siedo comodo. Tolgo lo zaino, estraggo la bottiglietta d’acqua ed il sacchetto di frutta secca. Il cuore rallenta e la mente si riallinea: sono nuovamente io il capitano di questa nave tra gli scogli.
Mentre sgranocchio ripenso ad un passo del nuovo libro di Ivan, “Il Trono Remoto”: “Arrampicate solitarie e relative difficoltà: ….la Solitaria Esplorativa Integrale – parete sconosciuta senza mezzi tecnici si affronta una difficoltà incognita e intata – è tra tutte la più impegnativa per la condizione ignota che affronta e l’incognita intatta che supera. Le altre tipologie si rivelano nient’altro che solitarie adattate alle differenti “capacità o incapacità” degli scalatori che le praticano “abili o mediocri” che siano.” Rido pensando a come quel vecchiaccio spesso abbia ragione da vendere.
Guardandomi attorno mi rendo conto di non essere sull’immensa parete del Manduino ma, in modo proporzionale, questo non fa molta differenza. L’invisibile nemico che aveva cercato di aggredirmi non aveva nulla a che fare con la montagna su cui sto salendo. Non era fatto di roccia e vuoto, era “materia” che avevo portato io fin qui sù e che non apparteneva a questa cresta.
Rinfilo le mie cose nello zaino che, per intenderci, è quello che Ivan usava in val di Mello e che ha poi regalato a Bruna. E’ uno zaino troppo piccolo per infilarci cose inutili: abbandono le incertezze che mi sono tirato dietro e ci infilo la piccola lezione appresa.
Affronto un passaggio un po’ esposto ma su roccia buona (“basta non cadere….”) e finalmente raggiungo la cima della cresta. La strapimbante valle muore in un canale erboso, tiro fiato e smonto dalla cima per affrontare la cresta successiva, quella che corre sul lato sud dell’anticima del Moregallo.
Imbocco un canale e rimonto seguendo una linea di piante arrampicando tra l’erba. Poi, piegando verso sinistra piego verso il filo di cresta raggiungendo il grande tetto che mi ero ripromesso di osservare. In quel punto, sul versante opposto, una cengia rocciosa risale verso l’alto attraversando la strapiombante parete Sud dell’Anticima. Noi “Badgers” abbiamo chiamato quel tratto il “Corridoio” ma nessuno di noi si era avvicinato abbastanza da osservarlo direttamente.
Per scendere fino alla base del tetto devo disarrampicare per tre o quattro metri una piccola placca appigliata. Sotto la placca però ci sono cento metri di vuoto senza appello. Trovo un paio di clessidre in cui infilo il cordino da quattro metri che avevo agguantato per sfizio uscendo di casa. Aggrappato “a mano” a questa solida sosta provo ad abbassarmi arrampicando in discesa. I piedi non danno però sicurezza e qualcosa si muove. “Dannazione, ci sono così vicino! Se solo avessi avuto lo spezzone da dieci metri e qualcuno a farmi sicura!”. Attendo ancora un istante, poi desisto. Le due clessidre sono solide, sono un buon segno, un regalo che non va spReCato con scelte sciocche.
Rimonto la cresta arrampicando sul limite del bosco: è davvero un bel posto. Finalmente raggiungo la cima e mi siedo un istante ad osservare il panorama. Era tanto che volevo salire quassù. Alle mie spalle un placido prato scende fino al sentiero, ma seguire quella strada non sarebbe stata la stessa cosa.
Davanti a me, oltre la grande valle, una folta comitiva di arrampicatori risale la crestina OSA. Urlano, sbracciano e fanno un gran baccano gridando al compagno di recuperare corda. Li guardo e mi viene un po’ da sorridere: in settimana l’ho ripetuta in notturna con la luna piena e spesso la percorro slegato ed in solitaria.
Tuttavia anni fa, sempre in solitaria, avevo dovuto disarrampicare tutto il primo tiro perchè giunto al primo passaggio esposto il mio zaino colmo di “materiale inutile” aveva cominciato a pesare troppo. Forse erano stati gli scarponi da trekking che scivolavano sulla roccia o forse anche la Crestina voleva insegnarmi qualcosa (…e vi garantisco che ho imparato!).
Sulla strada di ritorno ho incontrato due ragazzi che, nella luce del tramonto, osservavano le guglie del Moregallo. “Ciao, tu sai se quella è la Crestina Osa? Vorremmo salirla, ci hanno detto che è facile ma noi siamo alle prime armi”. Mi fermo, gliela indico e gliela racconto. “Solo un coglione vi dirà che la crestina è facile. Quello è il regno dei tre vuoti: al più possono dirvi che se fate le cose nel modo giusto non è difficile. Tuttavia non pensiate di poterla predere sotto gamba: portatevi una buona scorta di fettuccie, sceglietevi un buon giorno e godetevi la vostra avventura”.
Ci salutiamo stringendoci la mano. “Grazie mille per le informazioni: ci alleniamo ancora un po’ al pannello e poi proviamo a farla”. Ecco, appunto, non avete capito un cazzo…