Year: 2017

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Il suo nome è Robert Paulsen

Il suo nome è Robert Paulsen

“Questa è una persona! Un mio amico! Voi non lo seppellirete in giardino!” Tayler Durden, quello sfigato, era fuori di sé mentre osservava il corpo esanime di Bob, steso sul tavolo della cucina con la testa ridotta ad un cratere. ”Signore, è stato ucciso mentre serviva il progetto Mayhem.” Le scimmie spaziali, i suoi dissennati accoliti, i disperati che lo avevo eretto a leader, sembravano non capire la follia di quel momento. “Questo è Bob!” Urlò sconsolato Tayler alla folla di squilibrati che lo circondava e che egli stesso aveva raccolto tra le mura della sua fatiscente casa occupata. “Signore, nel progetto Mayhem non abbiamo nomi.” Uno dei suoi soldati si fece avanti rispondendo come se quello fosse un test. Gli occhi di Tayler si sgranarono in un furia disperata. “Ora ascoltatemi bene! Questo è un uomo, e ha un nome, e il suo nome è Robert Paulsen, ok?! Robert Paulsen. E’ un uomo ed ora è morto per tutti noi. Capite?!” Per un attimo tutti rimasero in silenzio, osservando il loro leader prostrato sul cadavere del loro compagno. “Io capisco.” Si fece avanti uno dei presenti: ”Nella morte, un membro del Progetto Mayhem ha un nome e quel nome è Robert Paulsen”. Tayler, travolto dall’incubo a cui aveva dato forma, si mise le mani tra i capelli mentre i suoi soldati iniziarono a ripetere ossessivamente all’unisono: ”Il suo nome Robert Paulsen”.

Stavo arrampicando sulle spalle dei “due troll”, due fatiscenti e friabili speroni di calcare a poca distanza dalle più solide e splendenti “rocce degli elfi”. Ero ad un paio di metri d’altezza, in equilibrio sui piedi mentre con le mani sondavo la resistenza delle prese. I due Troll sono roccia “marcia” avvolta dal muschio e dalle piante, spesso nemmeno la vegetazione sembra riuscire a tenere insieme quel cumulo di sassi che si alza per quasi cinque metri dal fondo del bosco. Un tempo, qualche millennio fa, dovevano essere massi spettacolare, ma ora le intemperie ed il mondo vegetale si sono infiltrati tra le pieghe dei suoi strati trascinando verso il basso i suoi fianchi rocciosi. Tuttavia mi piace arrampicarci sopra: restare immobile, mantenere posizioni scomode e valutare con attenzione ogni gesto nel mondo che lo accoglie. Non puoi arrampicare di forza, devi distribuire il peso, scivolare leggero sul ogni passaggio. Poi, sopra o sotto, qualcosa si stacca comunque: tloch! tlach! Ma se sei stato furbo, se hai ponderato bene la tua strategia, riesci a cavartela comunque. L’equilibrio nella follia: padroni del proprio destino in un mondo fragilmente in trasformazione. Una sensazione che vale la pena sperimentare.

Arrampicavo, in salita ed in discesa, sul crinale destro. Poi con un lungo traverso in discesa verso sinistra sono sceso dal piccolo tetto fin dentro lo stretto camino di sassi incastrati. In opposizione rimonto, poi allungo un braccio appoggiando il fianco ad uno delle pareti, afferro qualcosa di solido e risalgo verso l’alto avvitandomi tra i massi. Se qualcuno mi avesse visto in quel momento sarebbe rimasto stupito nel veder fare qualcosa di tanto inutilmente strano in mezzo ad un cumulo di sassi.

Oltre il camino una sorpresa, una profonda grotta si inabissa tra i sassi incastrati stringendosi fino a diventare poco più di un piccolo buco. Ci infilo la testa dentro ed inizio a curiosare in quella che è evidentemente diventata una tana. Poi, in mezzo al fogliame depositatosi sui lati, trovo un cranio. “Oilà! E’ tu chi sei?”

Non ne avevo mai visto uno e ci sono voluti un paio di giorni per avere la conferma che quello sconosciuto munito di zanne è in realtà un tasso: la cresta ossea, tra tutti i dettagli, ne è la prova più evidente. “Un teschio di Tasso…”. La cosa mi dava molto da riflettere: ogni volta che girovago tra i sassi erratici della valle mi imbatto in una tana di Tasso e questo consolida la scelta di aver chiamato il nostro gruppo “Tassi del Moregallo”. Imbattersi nei resti di un tasso morto non è quindi qualcosa da prendere alla leggera. “No, questo non è un semplice tasso: è un Tasso del Moregallo. Il destino ci ha fatto incontrare: il suo nome è Robert Paulsen!”

Davide “Birillo” Valsecchi

Eccovi alcune foto di “Bob”:

Viaggio ad Occidente

Viaggio ad Occidente

Nella mia mente un pensiero fulmineo: “Birillo, è tempo di andare a vedere la Est del Rosa!”. Le parole escono quasi da sole: “Amore, che ne diresti di andare in gita a Macugnaga? Potremmo fare due passi fino ad un bel laghetto di montagna ai piedi del Monte Rosa. Sì, sì …quello che si vede dai Corni e si tinge di rosso al tramonto, soprattutto d’inverno!”. Da Valmadrera a Macugnaga con la mia vecchia Subaru ci sarebbe voluto un mutuo per pagare la benzina e non sarebbe stato da escludere un rientro con il carro attrezzi per la vecchia e gloriosa Impreza Awd. Con il Duster di Bruna, nuovo di pacca, le possibilità di andare e tornare erano invece piuttosto buone!

Sveglia alle cinque e mezza ci mettiamo in strada alle sei: Valmadrera-Giussano sulla SS36, poi fino a Cermenate per imboccare la temuta A36 fino a Gallarate, da qui con la SuperStrada Europea E62 dritto per dritto fino a PiedeMulera e quindi su per la tortuosa Valle Anzasca fino a Macugnaga. Due ore e mezzo di strada: un viaggio davvero insolito per uno stanziale dell’Isola Senza Nome cronicamente allergico alla guida!!!

La temuta Pedemontana è una strada quasi deserta, scorrevole e moderna. Il suo spaventoso pagamento on-line si è rivelato davvero poca cosa: vai sul sito, inserisci il numero di targa ed un email, aspetti qualche istante e via e-mail ti arriva un link dove pagare con la carta di credito. Si ha tempo 15 giorni per farlo ed il costo è stato di 4.8 euro. Anche la E62, che unisce Genova e la Francia passando dal Lago Maggiore e dalla Svizzera, è una buona strada moderna e a gallerie. Sia all’andata che al ritorno era scorrevole ed affollata il giusto. Pedaggio 5.50 euro.

Perchè tutti questi dati? Perchè il Monte Rosa è la montagna che rapisce la mia fantasia ogni volta che raggiungo una cima dell’Isola Senza Nome. In autunno mi siedo sui prati sommitali del Moregallo e mi fermo ad osservarla. Nelle mattino d’inverno, con la neve in cima ai Corni dopo aver risalito la cresta del passo della vacca, ti giri e la vedi brillare come un miraggio.

Ma a giusta ragione quell’immagine ci cattura: il versante del Monte Rosa che noi osserviamo è la Parete Est, l’unica parete Himalayana di tutto l’arco alpino, 2600 metri di dislivello per una larghezza complessiva di quasi 4 km. I Tassi del Moregallo, “non so come, non so quando, non so chi”, ma scriveranno un capitolo importante della loro storia sul quel miraggio all’orizzonte. Per questo vorrei che la nostra scombinata compagni riuscisse a conoscere e frequentare con assiduità quella valle così lontana e così vicina. Ecco spiegato il perchè dei miei “conti della serva”: servono per pianificare le nostre future spedizioni ad Occidente.

Compagna di questo mia primo incerto sopralluogo non poteva che essere Bruna: grazie Moglie! Arrivati a Macugnaga il tempo sembrava avverso, le nuvole erano basse e dense, la grande montagna era coperta. Poi il sole di Luglio ha iniziato a filtrare tra le nuvole e con fare imperioso ha liberato la valle mettendo a nudo la parete.

Solo allora i ricordi sono tornati alla memoria perchè, in effetti, a Macugnaga c’ero stato già altre tre volte in passato. La prima, fino al rifugio Zamboni, durante un raduno dell’alpinismo giovanile: avrò avuto 8 anni, ricordo solo un gran caldo e le seggiovie che ci passavano sopra la testa. La seconda, fino al lago di Locce, sempre con una gita dell’alpinismo giovanile: ma avrò avuto 12 anni e per la gran nebbia non credo di essermi nemmeno reso conto dell’infinita parete che avevo sopra le testa. Ricordo solo Laura Broglia che si lamentava proprio perchè non si vedeva nulla. La terza in prima liceo come gita scolastica alle vecchie miniere d’oro: ricordo solo il viaggio in pullman ed il gioco della bottiglia in cui ho vinto un bacio a stampo ad Eleonora. Ricordi della parete Est nemmeno l’ombra!

“Bru, sei mai stata su un ghiacciaio?” “No”  “E su una morena glaciale?” “Neppure” “Okkey, allora vieni con me”. La fiumana di persone che da Pecetto era salita con la seggiovia ora era davanti a noi incolonnata sul sentiero che risale allo Zamboni. Così, per cavarci da quell’ingorgo umano, ho iniziato a seguire una flebile traccia che correva lungo il bordo della cresta morenica. “Mi raccomando, fai attenzione. Non dobbiamo mollare sassi sui turisti da un lato e dall’altro non dobbiamo franare giù sul ghiacciaio.”  Nonostante le miei precauzioni quell’esile traccia, snobbata da tutti, era in realtà più solida e sicura di quanto io stesso sospettassi. La linea moriva in cima ad un promontorio da dove, per via delle frane e della morena, era impossibile proseguire. “Ti piace qui Bruna? Facciamo colazione”. Ci siamo sdraiati sopra un grosso sasso e, lontano da ogni sguardo, ci siamo accoccolati al sole godendoci un panorama eccezionale: quella traccia abbandonata ci aveva infatti condotto in un’isolato terrazzo davanti al cuore della Parete Est.

Placidamente sdraiati davanti alla parete Est che brillava al sole mentre le nuvole, quasi a celebrare la nostra visita, sembravano non riuscire a scavalcare il crinale da nord. Lontano dal vociare dei gitanti diretti allo Zamboni potevamo finalmente “ascoltare” la grande montagna. La Est ha da subito messo le cose in chiaro: il rumore di sassi e ghiaccio che frana a valle era costante e quasi senza interruzione. La grande frana sotto la Punta Tre Amici sembrava senza sosta e, nonostante la grande distanza, era possibile vedere ad occhio nudo le enormi rocce, probabilmente grandi come automobili, che rotolavano rimbalzando verso il ghiacciaio e la morena sottostante.  

Nelle lenti del mio binocolo la magnificenza delle cornici e dei pensili era impressionante e sorprendente. “Incredibile, il papa è passato di là. Accidenti, devi avere un culo della Madonna per infilarti in quel casino!” Papa Achille Ratti, Pio XII, è infatti il famoso Papa Alpinista crescito ad Asso, sulle montagne dell’Isola Senza Nome e della Grigna. In gioventù risalì la Est del Rosa proprio per il temibile Canalone Marinelli raggiungendo la Punta Doufur. Con lui quella volta Giovanni Gandin, la celebre Guida della Grigna e dell’omonimo camino ai Corni. E lì accanto la via Brioschi, lungo la Punta Nordend, tracciata dallo stesso Luigi Brioschi a cui è dedicato il rifugio in cima alla Grigna. E poi la via dei Francesi, le vie di Zapparoli, le solitarie di Hermann Buhl, di Gonga. Quel mondo imponente, terribile e meraviglioso si dischiude e per un attimo mi inghiotte rubandomi il respiro.

Per un istante è di nuovo un pomeriggio d’inverno, un cupo, gelido e solitario momento ai piedi della Parete Fasana del Corno Centrale. Un’istante in cui il cuore inizia a pulsare più forte e la paura si trasforma in uno strano coraggio fatto solo di insensata determinazione: “Prima o poi salirò di qui”.  

Bruna dorme accoccolata sul mio fianco, godendosi quello strano contrasto tra la roccia fredda ed il sole caldo. Le accarezzo il viso senza distogliere lo sguardo dalla grande parete. “Un giorno, il giorno giusto. Non so come, non so quando, non so chi: ma verremo. A piccoli passi, ma saremo qui. Grande parete imparerai a conoscerci, con pazienza e dedizione ci faremo accettare. Ascolteremo i tuoi segreti, i tuoi umori, la tua rabbia e la tua gioia. Forse sarò io, forse la mia gente, forse la progenie dell’Isola, ma te lo prometto: balleremo insieme e la tua storia diverrà la nostra.”

Davide “Birillo” Valsecchi

L’alpinismo è un’attività sfiancante. Uno sale, sale, sale sempre più in alto, e non raggiunge mai la destinazione. Forse è questo l’aspetto più affascinante. Si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non sarà mai raggiunto (Hermann Buhl).

La Via “Dei Magnifici Quattro”: un anno dopo

La Via “Dei Magnifici Quattro”: un anno dopo

[TeoBrex] Il cielo era di un blu profondo, vivido, un blu introvabile nemmeno nelle acque dei mari e degli oceani più cristallini del pianeta. Parlo di quel colore che puoi ammirare solamente in Montagna, a certe altitudini ed in luoghi non proprio raggiungibili da tutti. Perché la Montagna non è per tutti come vogliono farvi credere; è solo per chi accetta lo sforzo fisico e mentale portato all’estremo, la fatica come insegnamento per crescere, la rinuncia come saggezza (se non riesci a salire non modificare la Montagna, modifica te stesso) e la roccia come mezzo per conoscersi in profondità. Tutto il resto sono solo chiacchiere sterili ed inutili. Punto.

Iniziò così quella giornata: chilometri di salita a piedi con gli zaini zeppi di ferraglia e cordini, centinaia e centinaia di metri di dislivello positivo, rocce di dolomia vergine, quattro persone pronte ad esplorarle per primi e quel blu… Mai più rivisto uguale. Le calme acque del piccolo lago riflettevano ed amplificavano quell’incredibile vividezza del cielo mentre ci avvicinavamo ai primi imponenti bastioni appena fuori dal magistrale anfiteatro naturale in puro stile dolomitico che ci si presentò dinnanzi.

Come sempre scherzavamo e ci prendevamo in giro lungo il cammino; eravamo carichi e felici della giornata appena iniziata e tutti contemplavamo la magnificenza, la pace ed il silenzio che quei luoghi, sconosciuti alla maggior parte della massa, emanavano.

Lungo le prime pareti esplorate Ivan saliva con stile magnifico portandosi legate all’imbrago le due mezze che sarebbero servite a Veronica per seguirlo da seconda ed a me per raggiungerli in sosta raccogliendo cordini, moschettoni, friends e nuts lasciati come protezioni; Giuseppe saliva in libera senza nemmeno avere addosso l’imbrago ridendosela come solo lui è in grado di fare.

Primi tiri molto belli e rilassanti nonostante la crudezza e la severità dell’ambiente che ci circondava. Prime vie liberate e roccia rimasta inalterata così come il grado di difficoltà, soste su naturale con cordini e discesa dai pratoni che partivano a picco dalle sommità dei bastioni appena esplorati. La Montagna rimase così come lo era prima del nostro passaggio, restò vergine.

Lasciammo questa meravigliosa zona per portarci alla base di alcune pareti molto alte e delicate, qui la compattezza della roccia non è più una sicurezza, ma qualcosa da valutare prima di ogni movimento, ogni minima DISTRAZIONE ora diventa pericolosa.

Ivan e Giuseppe seguivano il loro diverso istinto esplorativo partendo entrambi da primi in due diverse cordate, mentre io e Veronica da secondi li seguivamo recuperando il materiale utilizzato per la sicura, alla fine di ogni nuovo tiro ci si ritrovava tutti in cima cercando il modo migliore per scendere di quota e poi riportarsi alla base delle pareti.

Estate, le condizioni meteorologiche cambiano molto velocemente e pericolosamente quando ci si trova a certe altitudini, minacciose nuvole iniziavano ad apparire all’orizzonte mentre insieme decidevamo sul da farsi. Presagio? Scendendo dall’ultima via aperta, Giuseppe scorse una parete completamente diversa da quelle affrontate, è inutile aveva davvero un fascino irresistibile per forma e per sostanza.

Ivan si irrigidì subito, ancora non capimmo il perché, ma lui aveva già compreso che qualcosa sarebbe accaduto, alcune persone hanno un rapporto così stretto con La Montagna che a volte sembrano fondersi in una sola cosa con lei e lui è questo, difficile spiegarlo meglio, riescono ad abbattere la barriera dello spazio e del tempo per dare uno sguardo avanti nel futuro per evitare il peggio.

Ciò che ricordo fu questo, ciò che accadde me lo raccontò Ivan dopo alcuni giorni in una telefonata delle nostre…
Arrivati alla base della parete, Giuseppe cominciò a guardare in su, conoscendolo aveva già trovato la sua via molto tecnica ed estetica individuando i punti dove preparare le sue soste su naturale a prova di bomba.
Ivan era pensieroso, silenzioso e cupo come stava diventando il cielo in quel momento, non è da lui e la cosa mi lasciò un poco perplesso in verità, mentre preparavo le corde per fare da sicura a Giuseppe.

Dietro di me, su un sasso, Ivan spiegava a Veronica come utilizzare i cordini nelle clessidre e come allestire una sosta senza ausilio di fix o spit e di come a volte essere in quattro su tiri molto delicati può rappresentare un problema…

Giuseppe chiude magistralmente il primo tiro e prepara la prima sosta della via, giusto sotto un tetto che poi avremmo dovuto aggirare per montare su una parete laterale e partire col tiro successivo. La roccia è molto instabile, ma lui salendo più leggero e stiloso di sempre fa sembrare il tutto semplice e sicuro. Unico.

Mi da il segnale, parto cercando di assaggiare prima di ogni movimento la roccia, sembra che non voglia farsi toccare da me, sembra voglia spostarsi, inizio ad essere un po’ teso, qui si muove tutto ciò che tocco, non sono tranquillo e questo non mi piace.

Picchietto col palmo della mano una sporgenza che suona di vuoto, ma che sembra non essere troppo delicata se al posto di “tirarla” la volessi usare solo per appoggiarmi appena e cambiare postura per passare via velocemente quel pezzo troppo delicato per restare del tempo fermo nei paraggi, insomma non era il classico posticino tranquillo dove fermarsi un secondo e studiare la situazione. Appoggio appena il palmo della sinistra ed appena sopra “un televisore a tubo catodico da cinquanta pollici” decide di sganciarsi improvvisamente e di tentare di buttarmi giù. Un grave ERRORE di valutazione!

La mano sinistra resta schiacciata sotto tra il masso e la montagna nel mio vano tentativo di rimettere al suo posto e di non far precipitare al suolo quel gran pezzo ormai diventato troppo pesante da sorreggere, un dolore pungente al mignolo e la roccia che cambia colore diventando di un rosso vivo mi fa capire che ormai devo lasciarmi cadere e con me “la tv”, non posso più fare altro, nessuna scelta.

Coi piedi mi preparo, un colpo di reni ed eccomi appeso nel vuoto a pendolare dopo aver sganciato quella bomba come fossi il B-29 che sganciò la prima orribile arma nucleare della storia. E l’effetto poteva essere ugualmente tragico…

Guardo di sotto profondamente terrorizzato, ma non per ciò che mi è accaduto, ma perché laggiù sulla traiettoria del sasso c’erano Veronica ed Ivan. Ma questo mi verrà raccontato poi da Ivan dopo alcuni giorni, così come la dinamica completa dell’accaduto.

Dall’alto, serafico, Giuseppe annuncia fiero: «Tranquillo Teo, la sosta ha perfettamente tenuto!» «Già, evviva Amico!!!» Dolorante e provato raggiungo la sosta e dopo di me sani e salvi (non mi sarei mai perdonato se fosse accaduto qualcosa a loro) anche gli altri. Il dito della mano sinistra fa molto male (probabilmente è presente una frattura), il taglio sull’avambraccio destro è profondo; Veronica ed Ivan mi medicano con garze ed il solito nastro bianco multiuso per arrampicatori, mentre racconto a Giuseppe l’accaduto.

Decidiamo di proseguire, i tiri successivi sono impegnativi ma la roccia è più compatta e la cosa psicologicamente mi aiuta parecchio perché salendo dopo aver vissuto una caduta del genere non è stato per nulla semplice, la paura di disgaggiare di nuovo era diventata terrore puro. Con un poco di lavoro mentale ed alcune pause durante l’ascesa, sono comunque riuscito a concludere la via che richiederà un’altra sosta ed un’uscita meravigliosa che domina ogni vetta circostante.

Di nuovo tutti insieme, tutti a rimirare un paesaggio difficile da raccontare, meraviglioso e grave, terrificante e rilassante. Il nome che daremo alla via sarà: LA VIA DEI MAGNIFICI QUATTRO.

E non poteva essere altrimenti a conclusione di un’avventura del genere, una cordata magnifica ed una via magnifica.
Le nubi sempre più minacciose, ci fanno puntare dritti verso il primo rifugio a portata e subito ordiniamo birre e vino a profusione parlando della giornata trascorsa e di ciò che è accaduto. Ivan scherza, ma è molto pensieroso, ormai lo conosco e gli voglio un gran bene.

Giunti in valle ci concediamo un ricco aperitivo composto da prosecco e torte fatte ed offerte dall’unica Donna della spedizione, ognuno farà poi ritorno alla propria vita, alla propria casa…

Qualche giorno dopo Ivan mi chiamò per sapere come stavo, più che altro era interessato a come stavo di spirito e di mente e se avevo ben compreso quel che avevo fatto lassù in quei secondi e delle scelte che avevo preso senza pensare, ma solo seguendo l’istinto. «Ivan, ma di cosa stai parlando? Cosa avrei mai fatto? Scelte? Istinto? Ma che dici!!!» «Teo, brutta testa di lampadina che illumina le grotte, non ti sei nemmeno accorto di quello che hai fatto? Testone! Ho visto che hai picchiettato per vedere se la roccia era buona, ma hai mosso quel pezzetto che ha poi sganciato il sasso. La prima cosa che hai fatto, è stata di tentare di rimettere il sasso dentro con la sola mano sinistra, mentre con l’altra tiravi con tutte le tue forze per non cadere giù. Una cosa così non l’ho mai vista tentare da nessuno, solo tu potevi pensare ad una cosa simile, ma so perché lo hai fatto, in quel momento non pensavi a te ma a noi che eravamo sotto…»

«Poi hai fatto una cosa ancora peggiore, sei riuscito ad appoggiare il sasso sul tuo braccio destro in tensione per sostenerlo e poi farlo cadere alla tua destra, altrimenti sarebbe arrivato dritto sulla nostra traiettoria se lo avessi lasciato andare subito, hai rischiato di tagliarti la corda facendo così, oltre che ad esserti aperto l’avambraccio!»

«Certo, mica potevi sapere che mentre salivi io mi ero spostato di venti metri più a sinistra, avevo la netta sensazione che qualcosa sarebbe successo, lo sentivo ed ho dovuto anticipare gli eventi, in modo da evitare il peggio. Più volte ho detto a Veronica di spostarsi da là, ma sosteneva che nessuno e niente le avrebbe mai fatto del male, non quel giorno.»

«Alla fine l’ho convinta ed è stata con me alla sinistra della partenza della via. Quando hai mollato il sasso e ti sei lasciato andare dalla parete cadendo e restando appeso alla corda, ho visto che guardavi la traiettoria del sasso. Hai visto dove si sfracellato in tanti pezzi? Lo hai visto Teo, brutto vecchio millenario che non sei altro? Appena alla destra del sasso dove poco prima eravamo seduti noi della seconda cordata, terrificante.»

 LA MONTAGNA PERDONA GLI ERRORI, NON LE DISTRAZIONI.

Matteo “TeoBrex” Bressan

Le Mura del Funzi

Le Mura del Funzi

Quando ero molto piccolo i miei genitori, dopo l’asilo, mi portavano spesso al cinema teatro di Canzo dove, il pomeriggio, venivano proiettati i primi film della Walt Disney. Era un’epoca in cui le televisioni erano gusci di vivace plastica colorata su cui apparivano immagini in bianco e nero. Uno dei film proiettati era “La bella addormentata nel bosco”. La storia era assolutamente noiosa e petulante: le fatine qui, quo e qua, il fuso, la tipa che si addormenta, tutti che piangono eccetera, eccetera… Poi, finalmente, arrivava il principe sul cavallo, con tanto di spada e di scudo, e la noia esplodeva diventando una vera battaglia epica. “La tua tomba sarà una foresta di rovi, folta ed intricata che nessuno la scovi!” Urlava la strega malvagia avvolgendo di spine il castello prima di trasformarsi essa stessa in uno spaventoso Drago. Tre minuti e mezzo di pura azione, uno scontro tra i rovi e le rocce contro il possente drago che culmina in un crescendo: “Spada di verità, vola diritta, provoca del male la sconfitta!” E BANG! Giù il drago, applausi in sala e limonata finale con la belloccia addormentata! Ecco, a cinque anni questa era la mia visione perfetta del mondo! Probabilmente è per questo che ancora oggi mi aggiro trasognante inseguendo il drago nel nostro comune reame di rovi e rocce.

In queste settimane ho iniziato un nuovo lavoro e per questo sono chiuso in un ufficio nel centro di Lecco. Quando la sera emergo da quelle mura infilo i calzoncini corti e mi lancio sui sentieri dietro casa in cerca di avventura prima del tramonto. Senza meta mi sono infilato in un sentiero che, curiosamente, non aveva mai percorso imbattendomi in qualcosa di assolutamente inatteso: il Crotto di Funzi!!

La stalla, ricavata dalle cavità della roccia sotto un grande tetto, è stata recentemente sistemata dai Volontari da Valmadrera ed è certamente uno dei luoghi più caratteristici ed interessanti da visitare nella zona di San Tomaso. Qualcosa però non mi convinceva. Avevo giocato su una breve placca all’inizio del sentiero ed uno strano “vuoto” oltre le piante sembrava chiamare la mia attenzione. Aggrappato alle piante mi sono sporto oltre: “Accidenti, ma qui sotto c’è un’altra parete ed un’altro tetto!! Bio, tocca andare a vedere.” Così sono sceso nuovamente alla base del sentiero cercando una via d’accesso che mi portasse ai piedi di quella parete.

Mi sono caparbiamente infilato tra la roccia ed i rovi ma ho guadagnato a fatica davvero poca strada. Riuscivo a vedere la roccia oltre l’intricato groviglio di spine ed alberi abbattuti ma non c’era modo di riuscire a passare. Non riuscendo a proseguire ho cercato di uscire da quella trappola puntando dritto verso l’alto, sfruttando una spaccatura nella parete. Così mi sono ritrovato aggrappato all’edera ed alla roccia marcia guadagnando però il filo di cresta e l’accesso ad un delicato diedro di grossi massi incastrati. Superato il diedro potevo vedere la base della parete oltre i rovi ma avrei avuto bisogno di una corda per calarmi di sotto, oltre il tetto. Così ho ripiegato verso il crinale raggiungendo nuovamente il sentiero: “Sabato! Se Sabato mattina non piove torniamo a vedere!”Ed eccomi qui, Sabato mattina, con un paio di guanti di cuoio ed un coltellino a serramanico. Volevo provare a passare attraverso i rovi ma non volevo aprire la strada a chiunque, non sapevo cosa ci fosse laddietro e non volevo creare un facile accesso ad un potenziale mondo di guai. Testa bassa, pazienza e sano spargimento di sangue (il mio) ho arrancato tra i rovi e le rocce cercando di allargare l’evidente “corridoio tra gli spini” tracciato da un animale selvatico. Solo poi, alla base della parete, ho avuto la conferma dell’esistenza di una lussuosa tana di Tasso (poteva essere diversamente?). Dopo quasi mezz’ora di ravanata ho potuto finalmente raggiungere la base della parete, delle “Mura del Funzi”.

Nonostante la fitta vegetazione che ricopre ogni cosa i segni mostrano come un tempo i contadini o i pastori frequentassero quel luogo. La scatoletta di metallo può essere stata lanciata dall’alto ma qualcuno deve aver per forza segato i vecchi rami di una pianta ancora viva. A differenza del Crotto del Funzi, che è letteralmente sopra, non ci sono muretti o strutture per il ricovero degli animali.La parete ricorda quella della falesia di Santumas, che non è poi troppo distante, anche se la roccia è inevitabilmente meno pulita e certamente meno compatta. Ovviamente la roccia, dopo gli intensi acquazzoni della settimana trascorsa, era fradicia ma non è detto sia la consuetudine. Una grossa spaccatura rimonta un tetto piuttosto inquietante. Sembra possibile arrampicare, la qualità della roccia sembra buona ma ci sono molti grossi massi incastrati sotto il tetto la cui tenuta non sembra incoraggiante. Tutto il tetto, nonostante la muraglia che lo sovrasta, è una spessa fetta di roccia, uno strato calcareo obliquo, che si è staccato dalla parete. In quello spazio sono attecchite grosse piante e scorre la pioggia che filtra poi nella fessura sottostante. In pratica il tetto sta lentamente crollando, tuttavia se questo avvenga domani o tra mille anni non mi è dato saperlo.

Io sono prudenzialmente portato a spingere la roccia piuttosto che tirarla. Per questo ad interessarmi maggiormente è stato il secondo tetto, quello più a destra. Una rampa compatta, ma lavorata, porta alla base di un secco tetto obliquo. La roccia sembra decisamente più compatta e la possibile salita più lineare. Si tratta di rimontare la rampa, proteggere la base del tetto prima di sporgersi in fuori cercando di raggiungerne l’estremità. Qui capire come e se proteggere prima tentare il passaggio. Una bella pianticella sopra il tetto sembra incoraggiare promettendo una buona protezione prima di affrontare il restante muretto. Sebbene di dimensioni quasi da boulder è un passaggio atletico che richiede ingegno per essere risolto.

Visto che affrontare nuovamente i rovi non mi allettava ho affrontato di petto una porzione di parete non strapiombate. Mi sono alzato di tre o quattro metri in una spaccatura, IV° grado scarso + rovi, fino a raggiungere le radici di una grossa pianta su cui mi sono issato a forza guadagnando l’uscita.

Quindi, sebbene di modeste dimensioni, posso dire di aver aperto in libera due vie sule Mura del Funzi. Niente di speciale, certo, poco più che una verticale ravanta, sicuro, ma abbastanza per reclamare le Mura del Funzi come NoSpitZone!!

Bisogna ancora fare qualche valutazione sulla roccia, su quello che si muove e quello che rischia di crollare, ma tutto sommato è un bello spazio, anche abbastanza vicino da raggiungere. Credo possa valere la pena dare una pulita ai rovi, sistemare e prendersi cura delle piante buone (magari a settembre/ottobre). Purtroppo ogni volta che qualcuno apre una nuova falesia sembra sia esplosa una bomba: piante segate o spezzate, roccia rotta ovunque: questo non fa affatto parte della mia filosofia. Pulire significa prendersi cura, togliere i rovi perchè il bosco e le piante possano respirare, così come spostare i sassi instabili non significa demolire la parete. Un tempo i contadini si prendevano cura di quell’angolo di montagna, credo si potrebbe riprendere questa tradizione e vedere, magari senza troppe pretese, se quella piccola parete di roccia può regalare emozioni agli arrampicatori o ai boulderisti.

Se qualcuno vuole andare a curiosare e tentare i tetti può farlo liberamente, non sono né geloso né possessivo, ma deve tenere a mente tre cose: a) Non fatevi male b) Non fate cadere sassi sulla mulattiera sottostante c) siete sull’Isola quindi rispettate le regole della casa: niente trapano, niente demolizioni, niente deforestazione (…e niente magnesite che è roba da fighetti). Le piante, in questo piccolo gioco, sono le migliori alleate: quindi rispettatele!

Davide “Birillo” Valsecchi

Note a margine:
il Vecchiaccio mi scrive via What’sUp: “Cosa fai di bello?”. Visto che da mesi siamo “litigati” gli rispondo sdegnoso solo con un immagine del tetto delle Mura del Funzi che più mi piace. “Ma c’è una baita li vicino?”. Sospiro e gli mando una foto del Crotto di Funzi. “Sì, ho fatto il tetto sulla sinistra anni fa, tornando dal pilastro a sinistra del Ratt”.  Ed anche questa volta Sguero ci ha messo lo zampino… Comunque sia questo vuol dire che le Mura del Funzi sono arrampicabili, che il primo tetto è fattibile (tenendo presente il soggetto che l’ha risalito) e che il secondo è ancora vergine. Quindi posso serenamente affermare che le Mura del Funzi sono decisamente NoSpitZone 😉 

Generazione Settantesimo

Generazione Settantesimo

Sabato sera il CAI Asso festeggiava i suoi 70 di storia. Nella sala del teatro Pio XI, dedicata al Papa alpinista cresciuto tra i Corni di Canzo e le pareti del Monte Rosa, si sono ritrovati i soci della sezione per celebrare l’anniversario di fondazione. Foto, video, ricordi, una tradizione per la montagna che nel tempo ha unito gli alpinisti di tutta la Vallassina. Una serata speciale a cui, per l’occasione, ha partecipato anche Vincenzo Torti, il Presidente Generale del Club Alpino Italiano, il “gran capo” a livello nazionale.

Confesso che è stato un piacere incontrarlo e scambiarci due chiacchiere: la “sede centrale”, che spesso alle piccole ed agguerrite sezioni come la nostra appare una realtà “lontana”, sabato sera è parsa davvero più “vicina”, più importante. Anzi, poter mostrare ad una simile carica nazionale la nostra storia, i suoi volti ed i suoi racconti, è stato un ulteriore motivo d’orgoglio.

Immagini, spesso sbiadite, scorrevano sullo schermo del teatro riportando tutti noi al cospetto dei padri fondatori, degli amici scomparsi, dei compagni di oggi a volte lontani. Una festa di “compleanno” capace di unire tutti sotto un’unica bandiera, un gagliardetto che in settantanni di storia ha primeggiato sulle cime italiane e spesso del mondo. Un gagliardetto che è stato presente nei momenti di momenti di gioia, di trionfo ma anche di cordoglio, di solidarietà e caparbia dedizione.

Sabato sera era davvero bello essere del CAI Asso, sentirsi parte della sua storia. Sabato è stata una grande festa ma i festeggiamenti forse più veri, quelli più importanti per il futuro, credo siano avvenuti Domenica: il tributo alla nostra sezione è stato fatto anche in montagna, con i suoi membri più giovani e più promettenti. Tre giovanissimi, accompagnati dal Presidente e da un pugno di veterani, hanno festeggiato i settantanni della sezione insieme alla loro “prima volta” in Grignetta con una salita tutt’altro che banale.

Dai Resinelli hanno infatti percorso la celebre Direttissima, la visionaria linea tracciata da Eugenio Fasana nel 1911, che risale fino al Colle Valsecchi attraverso i canali e le più famose e note guglie della Grignetta. Dal Colle Valsecchi si sono avventurati nel selvaggio ambiente dello Scarrettone raggiungendo la Bocchetta di Giardino e la linea della Traversata Alta. Quindi su per il canale Federazione, fino alla cima della “Sentinella”. Un lungo ed impegnativo percorso che i tre giovani, tra cui una sorridente ragazza, hanno affrontato con sicurezza muniti di imbrago e doppia lounge. Un lungo ed impegnativo percorso che ha fatto della loro “prima volta” un intenso periplo attorno alla celebre montagna ed ai suoi differenti aspetti, fin sulla sua vetta.

Dalla cima, disertando l’affollata Cermenati, il gruppo ha fatto rientro al Pian dei Resinelli scendendo lungo il panoramico e severo Sentiero dei Camosci. Nonostante la loro giovane età, Davide, Marco ed Aurora, hanno così festeggiato i settantanni della loro sezione affrontando una salita degna di escursionisti esperti, tanto per l’impegno fisico quanto per le difficoltà tecniche di un ambiente tanto severo e grandioso.

Il passato diviene lo slancio per il futuro: ad un vecchio, caparbio e glorioso alpinista settantenne non si potrebbe chiedere di più! Buon compleanno Cai Asso!

Davide “Birillo” Valsecchi
Nostromo dei Tassi del Moregallo, Veterano del Cai Asso.

Bru Na: Il Ritorno

Bru Na: Il Ritorno

Sabato io e Bruna siamo andati ad un matrimonio: lei con i tacchi alti, io con i calzoni corti. Arrivati in municipio ci siamo accorti che l’ingresso era sull’altro lato del palazzo e che si accedeva alla sala della cerimonia solo attraverso un piccolo ponticello sospeso: noi, ovviamente, eravamo alla base del muro di cinque o sei metri sopra cui correva il ponte. “Che si fa? Facciamo il giro?” “Nope, siamo in ritardo. Te la senti se prendiamo la dritta!”. Mi sono sfilato le scarpe da trekking e le ho allungate a Bruna. Lei mi ha guardato un istante ed ha sfilato i tacchi infilando le mie scarpe: poi abbiamo iniziato ad arrampicare su per il muro. “Non le volevo le tue scarpe! Volevo anche io arrampicare a piedi nudi!”

La concitazione e la complicità del momento hanno lasciato in secondo piano l’incidente al piede e gli acciacchi che ancora fastidiano il dito di Bruna. “Come è andata?” “Bene, mi è venuto spontaneo arrampicare! Mi sono anche divertita!”. Così, mentre Luigi ed Erika si scambiavano le promesse matrimoniali, io ordivo il mio piano per rimettere in pista Bruna l’indomani: “Ti va se domani facciamo un giretto dietro casa?”

Se fosse stato meno caldo avrei puntato alla Crestina Osa, ma non potevo azzardare di ritrovarmi in pareti con il dito dolorante, le scarpette strette ed un afa asfissiante. Quindi ho optato per un lungo giro che da Valmadrera saliva fino al Cornizzolo passando da San Tomaso e San Pietro. Purtroppo giunto all’imbocco del sentiero del “Luisin” ho trovato la strada sbarrata dalla gara di tiro al volo per il 50° dei Cacciatori di Valmadrera. “Mi spiace, ma non si può passare. Il sentiero è sulla linea di tiro”.

“Il momento presente è adesso: significa prepararsi costantemente all’imprevisto.” Ai piedi delle bastionate minori del Corno Birone non mi restava che tornare sui miei passi o inventarmi un’alternativa intrigante. “Saliamo su per il fiume?” Tornati ai grandi massi segati del Taja-Sass ci siamo infilati tra le rocce e l’acqua cristallina. “Mettiamo le scarpe nel mio zaino, a piedi nudi si rischia meno di cadere”. Così, immersi nell’acqua gelida ma corroborante, abbiamo iniziato ad arrampicare sul granito e serpentino in una specie di “Sentiero delle Vasche – Extended Version”.Bruna si diverte, le piace arrampicare scalza, senza corda. Si muove e segue i miei spostamenti tra i sassi e l’acqua: gesti fluidi, atletici ma tutt’altro che banali. Il caldo ed il male al dito sembrano solo un piacevole ricordo lontano. Il fiume è un misterioso incrocio tra una giungla ed un crinale di alta montagna. Bruna si diverte, finalmente può muoversi come più le piace, e forse anche io ne avevo bisogno, avevo bisogno di mettere fine a questo capitolo, all’incidente. Forse avevo bisogno di averla di nuovo vicino nelle mie scorribande. Una placca ad incastro ci riporta ai tempi di “Cuori infrangibili”, mentre a sbalzo le indico prese ed appoggi: “Vieni su ma non cadere!”

Il sole dell’Estate che avanza irrompe nei colori nascosti dell’Isola Senza Nome. Forse sono solo uno sciocco, un bambino che fantastica mentre gioca nel giardino di casa, ma ci sono angoli, luoghi sconosciuti ai più, la cui misteriosa bellezza non smette di attrarmi e conquistarmi. “Ma sai dove siamo?” “Non sono mai stato qui, ma so dove siamo”. Nella mia mente, come un puzzle, prende vita la mappa di ciò che mi circonda. Salgo in cima ad un sasso più alto ed indico un punto nel bosco, oltre il fiume, nel fitto della vegetazione. “Credo che il sentiero passi laggiù”. Bruna fa un’espressione scettica. “Naa, non ci credo. Stai inventando!”. Proprio in quel mentre un corridore, indossando vestiti fosforescenti e con passo pesante, passa di corsa sul sentiero oltre la vegetazione in lontananza. Sogghigno con aria compiaciuta “Mmm sei ancora convinta sia in errore?” Bruna sbuffa indispettita: “Bhe, se non era per il senso dell’orientamento non ti venivo dietro in questi posti!”.

Il fiume è ormai un rigagnolo stretto tra le piante. Così lo abbandoniamo prendendo di petto i grandi e ripidi prati che salgono alla cresta del Bevesco. Raggiunto il crinale ci si inoltra in uno dei luoghi più ampi meno frequentati del corno Birone, una ripida ed erbosa valle ad imbuto che si tuffa verso il basso slanciando oltre le vertiginosi muraglie. Ci si può addentrare solo in discesa, avendo costantemente davanti agli occhi il grande vuoto sulla città di Valmadrera. E’ un posto che scuote ed inquieta.”Non voglio scendere. Questo posto mi da strane sensazioni.” La prima volta che mi sono avventurato in questa valle da solo ero quasi terrorizzato, ad ogni passo temevo di scivolare sull’erba precipitando nell’abisso: sempre in discesa, sempre senza vedere bene dove stai andando mentre le prospettive ti disorientano. Non è per certo un posto facile. (Ma questa placca, battezzata “Placca delle Industrie”, merita una visista accurata)

“Okay, allora andiamo in sù e poi facciamo il giro attorno ai campi solcati”. Continuiamo nell’erba alta fino a raggiungere il sentiero che porta alla “Cascina Rotta” e da lì quadagnamo la colettetta del Pra Santo. Per cambiare un po’ scendiamo verso la val Ravella, spingendoci verso l’Alpetto Alto. Poco più sotto prendiamo sentiero che, con un lungo traverso, ci porta fino al Fo, il grande faggio oltre il Colmo della Ravella. Da qui, seguendo il Sentiero Carlo scendiamo di nuovo verso la Val Molinata, l’Acqua del Tufo e San Tomaso. Dopo una birra ed un ghiacciolo al ristoro dell’Osa abbiamo fatto rotta verso casa.

Dodici chilometri, mille metri di dislivello per un’escursione fatta di bouldering, canyoning ed esplorazione: non male per un “giardino di casa”.

Davide “Birillo” ValsecchiTracciato
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Intervista al Birillo

Intervista al Birillo

“In alpinismo con la locuzione via normale si intende il percorso più facile per raggiungere la vetta di una montagna. Spesso, ma non sempre, si tratta della via seguita dai primi salitori”. Questa è la definizione di “via normale” sul dizionario. Sempre sul grande libro delle parole ho scoperto che “Normale”, un termine oggi carico di un universo di sfaccettature sociali, in realtà deriva dal latino normalis, “perpendicolare”.

Ciò che oggi usiamo per definire la consuetudine, la normalità, è in realtà un concetto geometrico legato a rette, piani, triangoli e una “linearità” tanto palese da diventare estetica e facilmente individuabile da chiunque.

E’ sempre piuttosto sorprendente riscoprire come le parole racchiudano davvero una strana magia, una forza che attende solo di essere compresa e liberata. Il termine “intervista” invece deriva dall’inglese, “Interview”, che a sua volta ricalca il francese “entrevue”, incontrarsi.

Così io e Roberto, per ora solo virtualmente, abbiamo avuto occasione di “incontrarci” e di scambiare quattro chiacchiere sul mio progetto legato ai chiodi d’arrampicata. Una chiacchierata da cui è nato un articolo.

Roberto scrive per “VieNormali.it”, uno dei più noi portali Italiani dedicati alla montagna, una piattaforma che in oltre 12 anni ha raccolto migliaia di relazioni e salite fornite da più di seimila utenti. Condividere la mia piccola avventura con così tanti appassionati è davvero un piccolo ma intenso piacere.

Rileggere la propria storia attraverso occhi altrui è qualcosa di curioso e stimolante: davvero c’è un fulminato di nome “Birillo” che nel 2017 vuole mettersi a vendere chiodi da arrampicata e che se ne è messo in spalla un centinaio andando in giro per le montagne? Incredibile, ma pare proprio di sì!

L’articolo di Roberto è davvero ben fatto, affollato di immagini e di riflessioni interessanti. Mi è davvero molto piaciuto. Vi consiglio di leggerlo:

VieNormali.it: RockHound – Il mercante di chiodi.
Intervista a Davide “Birillo” Valsecchi

Grazie ancora a Roberto e a tutti coloro che hanno la pazienza e lo slancio per sostenere le mia curiosa visione di ciò che è “normale”.

Davide “Birillo” Valsecchi

PitOnTour: ResegUp

PitOnTour: ResegUp

La sveglia strilla alle cinque: il piano è caricarsi in spalla 110 chiodi fino in cima al Resegone per presenziare alla ResegUp, l’annuale Skyrace della città di Lecco. I partecipanti alla gara partono dai 214 metri del lago per scollinare ai 1875 del Rifugio Azzoni: andata e ritorno!

Mezzo addormentato mi infilo nella mia malmessa Subaru e salgo a Ballabio, poi la strada provinciale per Morterone fino alla Forcella di Olino. Mi attendono settecento e passa metri di dislivello con venti chili di “ferraglia” nello zaino ed i pali sulle spalle. Lo confesso: qualche giorno prima ero tentato di desistere. Qualcuno mi aveva proposto di salire ai Piani d’Erna in funivia e di fermarmi lì: “Non fai fatica e c’è più gente”, mi dicevano gli amici.

“Però un’avventura itinerante come il PitOnTour” – aveva sussurrato qualcun’altro – ”merita qualcosa di meglio che un giro in funivia tra i milanesi in gita”. Come dargli torto! Casualmente mi è capitata in mano una vecchia fotografia, un’immagine che mostrava gli oltre cinquanta chiodi che Walter Bonatti aveva nel suo zaino per la celebre solitaria sulla Nord del Cervino. Guardando quella foto, dopo aver accuratamente contato i chiodi presenti, non ho più avuto dubbi sul da farsi: “Si va!”

Da Olino, dopo due ore e venti attraverso un bellissimo bosco di faggi, mi sono ritrovato sulla cima Cermenati, sotto la grande croce del 1925, davanti al grande diedro in cui corre, sulla cima Stoppani, una delle primissime e meno conosciute vie di Walter Bonatti. Il ricordo di una via che ho ripetuto lo scorso autunno e che, insieme a quella foto in bianco e nero, aveva spazzato ogni mio pigro tentennamento.

Mi infilo al rifugio per salutare il suo Capanat, Stefano Valsecchi. Infilo la testa nella finestra della cucina: “Hey rifugista! Posso montare il mio trespolo qui fuori?” “Allora ce l’hai fatta a venire! Mettilo dove vuoi: poi passo a vedere!”. Stefano era impegnato ai fornelli ma ero contento di incontrarlo di nuovo. Oltre ad essere il “giovane” rifugista dell’Azzoni è un membro dei “Gamma” ed uno tra i più esperti arrampicatori del Resegone …comprese la “Bonatti” ed “Altri tempi”.

E’ ancora presto, da poco sono passate le nove del mattino, attorno alla cima ci sono solo gli escursionisti che hanno dormito al rifugio e gli organizzatori. La maggior parte dei “tifosi”, la consueta folla che attende il passaggio dei corridori, salirà quassù solo più tardi. Mi godo la quiete e scatto qualche foto sullo spiazzo della Croce, poi sposto l’albero dei Chiodi sulla terrazza del Rifugio. Un ragazzo, uno sui vent’anni con un curioso paio di baffetti a punta, mi si avvicina con uno strano scintillio negli occhi: “Ma come mai tutti questi chiodi? E’ uno spettacolo!” Così attacchiamo bottone e salta fuori che è il figlio del “Mela” e che sta dandosi da fare a ripetere una via del padre sulla bastionata del Gavatoio.

“Guerini è venuto su a ripetere la Bonatti, ma Stefano l’aveva già ripetuta in solitaria” Mi racconta il ragazzo stendendo le lodi del suo giovane amico. Io scoppio a ridere divertito: “Accidenti cucù! Ma non l’hai capito? Ero io con Ivan sulla Bonatti!” – sghignazzo – ”Stefano è davvero forte e lo considero un amico. Ma se quel giorno avessi visto l’emozione e la commozione di Ivan capiresti come quella sia stata molto di più della semplice ripetizione di una via dimenticata”. Come due comari complici continuiamo a confabulare di storie di media-montagna e di ravanate domestiche. Ma chissà se poi avrà davvero capito: per la gioventù la vita è una meravigliosa corsa inarrestabile, ci vuole tempo ed esperienza per comprenderla e trasformarla in un grande ed intenso viaggio.

Alle undici posso finalmente riempirmi una tazza di birra e gazzosa, sdraiarmi all’ombra, ed osservare distratto chi si avvicina al mio albero di chiodi: mi affascina vedere come in modo irresistibile attragga i passanti: anche solo di sfuggita tutti si fermano a “toccare” i miei chiodi appesi. “Ma cosa sono?” Chiede una sorridente signora con ingenuità autentica. “Chiodi d’arrampicata” risponde competente il suo aitante accompagnatore. Davvero si può salire in cima al Resegone senza avere la minima idea di cosa sia un chiodo da roccia? In effetti qualcosa che mi lascia davvero stupito…

Un paio di papà si avvicinano con i figli, si chinano sugli “stecchetti di acciaio” e spiegano loro come, usando il martello, quei chiodi si usino per arrampicare sulla roccia. Guardando quei bambini mi è tornata alla mente un intervista in cui Bonatti raccontava come, alla sua primissima fanciullesca esperienza con l’arrampicata, fosse ansioso ed eccitato che gli adulti finalmente gli lasciassero “piantare un chiodo”. Ripensandoci mi sono ritrovato a sorridere sornione nel mio angolo all’ombra: alla fine sono anche questi piccoli momenti a rendere meno pesante lo zaino del PitOnTour.

Poi il piazzale inizia a riempirsi di gente. Si raduna una una delegazione dei “Beck” guidati da un accanito Maver armato persino di vuvuzela: tutti si preparano ad attendere l’arrivo dei corridori sempre più eccitati. Un drone vola sulla folla, i fotografi si appostano nelle posizioni migliori. Io ed il mio pesante carico siamo piuttosto ingombranti, la corsa ripercorre la mia strada di ritorno e così, per non intralciare e non attendere la chiusura della gara alle sei del pomeriggio, smonto il mio albero e mi abbasso alla sorgente delle Forbesette. Riempio la borraccia di acqua fresca e mi appoggio placido ad un faggio.

Non mi resta che attendere: la mia corsa è conclusa, ora tocca ai corridori. Testato lo zaino, vinta l’incertezza del peso, non posso far altro che fantasticare sulle prossime tappe del PitOnTuor: sogni di calcare e di granito.  Alla prossima!

Davide “Birillo” Valsecchi

Un sentito ringraziamento a Luigi e tutti gli organizzatori della Resegup per la magnifica organizzazione e per aver dato spazio, durante una Skyrace tanto importante, anche ai miei chiodi e all’arrampicata. Grazie!

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