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Utile Esperimento

Utile Esperimento

Incredibilmente per la mia natura, ho trascorso la quarta estate consecutiva seppellito nelle profondità di un ufficio. Per riequilibrare questo squilibrio estivo, quasi ogni giorno feriale, dopo le diciotto, parcheggio la mia vecchia Subaru in riva al Lago e mi butto in acqua. Sulla spiaggia il più delle volte mi aspettano Bruna e la piccola Andrea. La nanerottola, poi, sta iniziando a prendere confidenza con l’acqua e non sembra per nulla intimorita dal freddo o dalle onde. La spiaggia che frequentiamo è ai piedi del Moregallo, sotto le grandi pareti Nord. E’ una spiaggia gestita e ben curata, dove con grande serenità posso lasciare le “mie donne” confidando negli amici che la custodiscono. Francamente la considero come un’estensione di casa mia.

Normalmente la spiaggia ed il Bar restano aperti fino a tarda serata, ma il lunedì i cancelli si chiudono verso le sette. Ieri Bruna, per amicizia, si è offerta di aspettare una coppia di nuotatori di fondo che non era ancora rientrata, e poi chiudere tutto. Così, custodi della spiaggia (o forse solo del cancello), ci siamo ritrovati soli soletti tra la ghiaia del lago.

Visto che in acqua cominciavo ad avere freddo mi sono messo a girovagare con una strana idea nella testa. All’improvviso mi erano venute in mente tutte quelle foto, pubblicate su internet, delle bottigliette d’acqua riempite con mozziconi di sigarette. Così ho preso anche io una bottiglietta ed ho iniziato la mia ricerca. I gestori della spiaggia si danno realmente un gran da fare per tenerla in ordine, passano e ripassano più volte al giorno sostituendo i cestini dell’immondizia e raccogliendo quello che trovano abbandonato. Diversamente da quanto accade sulle spiagge a ridosso delle gallerie, qui l’accesso non è libero, sono proibiti i barbeque e ci sono chiare regole di comportamento. Io la considero una delle spiagge più pulite ed avevo poche speranze di riempire la mia bottiglia sebbene tutta la faccenda mi intrigasse come indagine statistica.

Una spiaggia per coppiette, per famiglie e ragazzi. Una spiaggia frequentata da subacquei, apneisti, nuotatori di fondo e canoisti. Quindi una spiaggia dove si presume la stragrande maggioranza dei fruitori abbia un’adeguata coscienza ambientale. Una spiaggia ben tenuta e curata, decisamente pulita. Una spiaggia dove non ho nessun timore a lasciare mia moglie e mia figlia. Tutto assolutamente perfetto eppure, in venti minuti, ho riempito con i mozziconi una bottiglia da un litro e mezzo.

Con grande soddisfazione, egocentrica e narcisistica, ho scattato la mia bella foto prima di scaricare il tutto nell’apposito bidone per i rifiuti che i gestori provvedono quotidianamente a svuotare e sostituire. Visto che ero ancora in costume e ciabatte sono tornato al mio stuoino per infilarmi mutande e calzoni. Quello è stato il vero momento topico di tutta la faccenda. Mi ero impegnato nel cercare e raccogliere mozziconi, ne volevo tanti per riempire la bottiglia, per fare la foto, volevo fosse “piena” e per questo mi ero impegnato a battere la spiaggia con avida attenzione, cercando di raggiungere il mio risultato nel minor tempo possibile. Ma riguardando la ghiaia che avevo già setacciato, con uno sguardo ora allenato ed un punto di vista differente, mi appariva enorme la quantità di mozziconi che non avevo nè visto nè raccolto. Tutto quello che avevo fatto era inutile, e sarebbe diventato ulteriormente inutile il giorno successivo quando altri cattivi fumatori avrebbero ridisseminato nuovi mozziconi. Non era stata la bottiglia a colpirmi, ma quello che nella bottiglia non avevo messo.

Vi confesso che è un esperimento che bisogna provare, qualcosa che risulta illuminante. Una sigaretta impiega circa 5/6 mesi a decomporsi, il filtro invece tra i 5 e 12 anni. Ci si aspetta che “gettare mozziconi in spiaggia” sia qualcosa di universalmente riconosciuto come sbagliato. Non parliamo di salvare l’Amazzonia ma di buttare quattro “mucci” nel bidone dappresso che qualcun’altro provvederà poi a svuotare. Eppure, quanto inizi a riempire una bottiglia, ti accorgi che non è così. Ti rendi conto che il problema non sono i rifiuti o l’inquinamento, sono le persone. Non importa quanto volenteroso sarà il contributo dei singoli, la massa, nella sua sconfinata ignoranza ed ingordigia, finirà per corrompere ogni cosa. Questa è la vera natura del problema.

Dubito che chi legge “Cima” possa essere tanto stupido da abbandonare un mozzicone sulla spiaggia di casa. Ne rimmarrei sorpreso. Tuttavia c’è un messaggio per tutti coloro che lo fanno: “Anzichè fumare, datevi fuoco!”

Davide “Birillo” Valsecchi

Vedretta Scerscen Inferiore

Vedretta Scerscen Inferiore

I ghiacciai si stanno sciogliendo. Il riscaldamento globale è una pericolosa realtà che il nostro sistema cognitivo individuale non è in grado di percepire autonomamente. Non essendo il problema percepito direttamente dal singolo non vi è possibilità che in tempi brevi, o in maniera condivisa e democratica, sia approntata dall’umanità una soluzione efficace. Alcuni teorizzano che neppure con una “tirannide ecologica” avremmo la capacità di applicare i cambiamenti necessari e sufficienti a scongiurare il tracollo. Altri ritengono che semplicemente sia un fenomeno inevitabile perché legato ed indotto da fattori più ampi, e forse ciclici, dell’aumento del CO2 apportato dall’uomo nell’era industriale.

Come ho detto, questi sono problemi troppo complessi ed estesi perchè siano portata di un singolo indiviso. Tuttavia le strategie di problem solving sono sempre le stesse: a) ridurre un problema troppo grosso in problemi più piccoli b) trarre da ogni problema un opportunità.

Step a) I ghiacciai si stanno sciogliendo. Okay, tra i ghiacciai del mondo scegliamone uno sulle nostre Alpi. Magari in Lombardia. Prendiamone uno a caso, uno in avanzato “stato di decomposizione”, ma che sia facile logisticamente da raggiungere. Okay, prendiamo quello vicino alla casa di Nick: lo Scerscen. Ma non il superiore, invaso dai turisti a caccia di selfie sul Bernina. Prendiamo quello inferiore, quello che era turistico ma che oggi è abbandonato, romanticamente decadente. Quello che è possibile raggiungere senza particolari complicazioni tecniche: lo Scerscen inferiore.

Step b) I ghiacciai hanno un legame diretto con il tempo, non ampio come quello delle stelle o dei pianeti, ma comunque umanamente difficile da comprendere. Dai miei primi, ed approssimativi studi, l’apice dell’ultima grande glaciazione sulle Alpi avvenne più o meno nel 9.700 prima di Cristo, una glaciazione, quella di Würm, che aveva avuto inizio circa 110.000 anni fa. Comprendere il Pleistocene come prima delle due epoche che compongono il Quaternario (iniziato 2,58 milioni di anni fa) è qualcosa che, onestamente, è al di là dagli spazi computazionali della mie mente. Tuttavia mi è chiara una cosa: quello che sta emergendo, “qui ed ora”, dallo scioglimento dei ghiacciai è stato “nascosto” dal ghiaccio per un periodo di tempo superiore ad 11.000 anni. Questo è certamente un problema, ma è indubbiamente un opportunità.

Come disse il famoso esploratore artico Roald Amundsen, “Non esiste avventura, solo cattiva pianificazione”. Per questo la prima tappa di ogni viaggio è doverosamente in biblioteca, o nel mio caso nella “stanza dei libri” (ora in parte occupata dalla nanerottola). Il primo libro da cui partire è certamente una copia di “Ghiacciai in Lombardia”, edito dal Servizio Glaciologico Lombardo nel 1992. Nelle specifico su questa copia è graffettato un biglietto da visita di tale “Avv. Giuliano Sala – Assessore all’Urbanistica e al Territorio della Regione Lombardia” su cui è a penna è riportata la firma, una data ed un augurio “22.07.97 In bocca al lupo! Giuliano Sala”. Il nome non mi suonava nuovo, ma mi ci è voluto un po’ per comprendere che si tratta dell’attuale Sindaco di Milano. Nel ‘97/’98 il Cai Asso aveva in ballo le spedizioni allo Spantik e al Drifika ed è probabilmente per questo motivo che questo “libro-regalo” è finito tra i miei scaffali. Speriamo che gli auguri fossero per il Drifika, scalata con successo, perchè sullo Spantik la nostra piccola sezione prese sonori “calci in culo” proprio sul ghiacciaio!!

So che ne esiste una versione aggiornata, edita nel 2012, ma a caval donato… Riporto qui un breve estratto della descrizione dello Scerscen Inferiore ed alcune foto dell’archivio del Servizio Glaciologico Lombardo come confronto con quelle realizzate più recentemente (il mese scorso) da Niky.

Molto intenso e ininterrotto è stato il ritiro di questo ghiacciaio che nella fase di massima estensione nella Piccola Età Glaciale occupava completamente l’inclinato pianoro ad occidente del Pizzo Tremoggia. La sua lingua scendeva nel Vallone di Scerscen, ma, ostacolata dalla massa del Ghiacciaio Superiore, per mancanza di spazio compiva una brusca deviazione di oltre 90° e occupava la parte destra, ricoprendo a volte in contropendenza alcuni dossi e la valletta che scende dalla Forcella d’Entova. In corrispondenza di questa, sul fianco destro della lingua si formava a partire dal 1910 un lago di sbarramento glaciale, denominato Lago dei Seracchi, nel quale galleggiavano numerosi icebergs. Dopo il 1920 il lago raggiunse la sua massima estensione; poiché era sostenuto a valle solamente dalla parete laterale della lingua in riduzione, si svuotò parzialmente nella notte tra il 6 e il 7 agosto 1924 senza recare danni a valle. Riformatosi poi nei due anni successivi, si svuotò completamente il 10 agosto 1927 per un probabile distacco del ghiaccio dal fondo roccioso. I danni furono notevoli: l’acqua del lago, valutata in mezzo milione di metri cubi, scendendo dalla forra sottostante; distrusse baite e ponti fino a Lanzada (988 m) ove asportò la diga di presa di un impianto idroelettrico. L’onda di piena fu avvertita fino a Sondrio (Corti, Nangeroni, 1929). Quest’ultimo descrive la fronte nel 1928 come alquanto articolata con due lingue maggiori ancora confluenti con quella del Ghiacciaio Superiore. Il distacco avvenne a metà degli Anni Quaranta e le misurazioni alla lingua di destra iniziarono nel 1950 ad opera prima di Riva e poi di Saibene, Smiraglia, Catasta; da allora questa fronte si ritirò senza interruzioni fino ad oggi arretrando nel complesso di circa 900 m. Il settore di destra del ghiacciaio sta subendo attualmente le maggiori modificazioni, con la formazione di un’altra lingua che dal 1989 al 1990 si è ritirata di ben 216 m, mentre quello di sinistra ha mostrato minori riduzioni, con una piccola pulsazione positiva nel periodo 1980-1985. AI centro della fronte dopo il 1963 è venuto scoprendosi un lago che ancor oggi il ghiaccio lambisce.
Testo di Guido Catasta

SCERSCEN INFERIORE Catasto CGI: 432 WGI: 1-4L01123-01 432.0
Tipo: montano
Quota max bacino: 3593 m
Lungh. max: 4100 m
Sup. accumulo: 112 ha
Forma: circo-pendio
Quota max: 3360 m
Largh. max: 2300 m
Sup. scoperta: 587 ha
Alim.: diretta + valanghe
Quota minima: 2550 m
Largh. media: 1440 m
Sup. totale: 590 ha
Esp.: E

Lat.: N462100 Inclinaz. media: 11° Anno del rilievo: 1990
Long.: E095100 Alt. mediana: 2930 m Attività: regresso forte
UTM: 32TNS 6620 3340 S.L.: 3100 m AAR: 19 Operatore: G. Catasta

Lierna – TGS – Monte Pilastro

Lierna – TGS – Monte Pilastro

Qualche giorno prima ero stato con Bruna ed Andrea sui prati di Ortanella e, sdraiato sull’erba, mi ero guardato intorno. Così, il giorno successivo, avevo scritto a Nicola: ”C’è una valle intera, a Nord delle Grigne, in cui non sono mai stato: facciamo un giretto domani?”. Tutto questo ci ha portato a Lierna, ai piedi del Monte Cucco (1436m), risalendo verso l’omonima Bocchetta di Lierna (1356m). Il sentiero sale ripido ed impegnativo ma, fortunatamente, al mattino quel versante è all’ombra è questo ha alleviato non poco la calura di una salita a bassa quota. Lasciando la traccia, in cerca di uno scorcio da cui fotografare una grande parete che emerge dal bosco, ci siamo trovati faccia a faccia con un camoscio che ci fissava dall’altro versante della valle. Ma quello è stato solo il primo di una lunga serie di incontri “selvatici”, durante la nostra “passeggiata” abbiamo incontrato più animali che esseri umani (un gita perfetta quindi!). Dalla bocchetta abbiamo risalito il bosco fino alla cima del Monte Palagia (1549m). All’improvviso, curiosamente non me lo aspettavo, ci sono apparse davanti le Grigne, offrendosi in una visuale insolita. Il profilo integrale sull’orizzonte del Cresta Segantini ed il Sasso Cavallo nel suo profilo laterale, quello forse meno possente (dai Corni sono abituato ad osservarlo frontalmente, nella sua imperiosa imponenza). Siamo quindi ridiscesi verso la Bocchetta di Calivazzo (1420m) e quindi, inventandoci un po’ il sentiero, sulla Cima degli Eghen (1557m). Qui abbiamo incontrato il tracciato del TGS (Trail Grigne Sud) con cui abbiamo raggiunto dappirma la cima del Monte Pilastro (1827m) e poi la cima del Monte Croce (1780m). Da lì tutta discesa, o quasi, prima verso la Bocchetta dell’Alpe (1122m) e giù nuovamente verso Lierna. Senza mai superare i 2000 metri di quota si macinano 1960 metri di dislivello positivo per circa 17km di percorrenza, tuttavia lo sforzo è ripagato da un continuo susseguirsi di inaspettati punti di vista sul Grigne, sul Lago e sull’arco montuoso all’orizzonte. Dalla cima del Monte Pilastro si ha una straordinaria visuale del Pizzo d’Eghen e, confesso, mi fa sempre un certo effetto ritrovarmelo davanti: ho elettrizzanti ricordi di quella grande parete! Ottima gita, vi lascio ora alle foto di Nicola.

Davide “Birillo” Valsecchi

Ortanella

Ortanella

“Portami ad Ortanella!”. Le voglie di Bruna si fanno più strane di giorno in giorno e così, preoccupato ma non sorpreso, ho semplicemente chiesto “E dove starebbe questa Ortanella?”. Bruna, ben decisa, si è limitata a rispondere “A mille metri di quota! Lassù farà fresco ed è tutto in piano! Ci vivono 21 abitanti!”. Così, con l’aiuto di Internet, ho scoperto che Ortanella è una frazione di Esino Lario, in quelle valli poco conosciute a nord del Grignone, a ridosso del lago. Preparato il necessario per il picnic abbiamo sistemato in macchina la nanerottola e ci siamo messi in strada. Ovviamente abbiamo discusse so fosse meglio uscire dalla superstrada ad Abbadia Lariana o a Bellano. Ovviamente ho vinto io puntando a Bellano, ovviamente ho poi sbagliato dimenticando che la “diretta” per Esino Lario passa per Varenna. Così sono finito prima in Valsassina, Taceno, Cortenova e poi sul passo dell’Augelio, scoprendo finalmente la differenza tra Parlasco e Perledo. Tuttavia, nonostante le curve e la strada stretta, ho fantasticato all’idea di curiosare nel Pioverna. Giunti ad Esino, dopo un interminabile ma piacevole viaggio,  abbiamo imboccato che la stradina che ci ha condotto fino alla piccola frazione di Ortanella.

La prima cosa che ti colpisce di Ortanella sono i prati: ero piuttosto dubbioso sulla meta ma avevo di che ricredermi! Ortanella è un posto davvero interessante. Innanzitutto si deve fare il giro del mondo per raggiungerlo ma, in realtà, è quasi a sbalzo sul lago, in linea d’aria a meno di un chilometro da Lierna (località “lo scoglio”). Tuttavia si deve guadagnare quasi 800 metri di quota in quei mille metri e, guardando in basso, sembra piuttosto interessante capire come! Questo offre una visuale incredibilmente ampia e panoramica: si vede la punta del Pizzo d’Eghen, i Corni di Canzo e le montagne del Triangolo Lariano, Bellagio in primo piano, le montagne di Como, il Sasso Gordona, Il Generoso, il Grona, il Bregagno e tutte le montagne verso la Svizzera. Inoltre tutta l’area sembra “predisposta” per accogliere una grande affluenza: c’è un percorso vita, un piccolo parco giochi, numerose panchine dotate di “barbecue” incorporato. I prati, ampissimi, sono ben falciati e curati. Normalmente, vista la mia misantropia, troverei tutto questo tremendamente fastidioso ma ieri, 13 Agosto, tutto era silenziosamente e piacevolmente deserto. C’eravamo solo noi: era assolutamente fantastico!

Abbiamo percoso l’anello del Monte Fopp e fatto una visita alla chiesetta romanica di San Pietro. Mangiato sdraiati sull’erba e giocato con uno scivolo ai bordi di una pineta. Credo che i figli siano la migliore “scusa” per fare ciò che ritenevamo inaccettabile e che, inaspettatamente, scopriamo piacerci.

Davide “Birillo” Valsecchi

Periplo del Barro

Periplo del Barro

Per lo più siamo abituati ad attraversarlo, il Monte Barro, lungo l’omonimo tunnel inaugurato ormai nel lontano 25 Ottobre del 1999. Ogni tanto ci si sale in vetta, ma i suoi 922 metri di altitudine spesso appaiono poca cosa, specie nei periodi in cui i “milanesi” posso raggiungere in macchina i 740 metri di quota dell’Eremo. Così il Monte Barro, con le sue “ciccatrici mascherate” delle vecchie cave, la minacciosa ciminiera dell’Inceneritore e le sue affollate falesie sportive vista parcheggio, sembra una meta poco attraente, alpinisticamente non rilevante. In realtà, il piccolo grande Barro, ha parecchio da offrire. Abbandonando le velleità della “Cima”, l’ossessivo slancio ad emergere, si scopre tutto intorno meraviglie inaspettate, spesso “quasi” in piano. “Niky, andiamo sul Barro! No, non in cima: facciamo il giro!”. Così ci siamo ritrovati sul versante Valmadrese del Barro per risalire il “Sentiero del Vento”. Recentemente mi era capitato spesso di percorrerlo in discesa, ma era dal mio primo o secondo Raduno Regionale di Alpinismo Giovanile che non lo percorrevo in salita. Probabilmente da quando avevo 9/10 anni, credo nel lontano 1986: in effetti la salita, in colonna sotto il sole, può risultare un ricordo traumatico… Purtroppo non ho trovato la data precisa del raduno, sebbene credo che tutta la faccenda avesse a che fare con la nascita del Parco Regionale del Monte Barro, che avvenne nel 16 settembre 1983. Sull’Isola Senza Nome la Zona di Protezione Speciale (ZPS) del Triangolo Lariano comprende la Foresta Regionale Corni di Canzo, la Riserva Naturale Regionale Sasso Malascarpa e parzialmente il PLIS di S. Pietro al Monte – S. Tomaso. Così, cercando le differenze, ho trovato che i Parchi Regionali sono “aree di notevole estensione, spesso coincidenti con un comprensorio naturale non ancora trasformato dalla civiltà industriale metropolitana, idoneo per vocazione ad assolvere finalità composite, tra le quali, accanto alla esigenza prioritaria della conservazione, trovino giusto posto anche gli scopi della ricreazione, della educazione e del tempo libero“. Mentre le riserve naturali sono “aree di estensione limitata, a volte addirittura identificabili con un singolo biotopo, fenomeno o entità naturale, pregevoli sul piano ecologico e paesaggistico, significative dal punto di vista scientifico e rappresentative di aspetti di determinati territori”. Questo è probabilmente parte dei motivi che rendono l’Isola “selvaggia” ed il Barro “accogliente”.

Già, la sensazione predominante lungo i sentieri ben curati del Monte Barro è di tranquillità, ci si può immergere nei suoi boschi anche in un’afosa giornata di Agosto trovandovi riparo dalla calura imperante. Raggiunta la giusta quota si può andare a zonzo senza pensieri, in piano, visitando il museo archeologico a cielo aperto o i vari punti ristoro. Probabilmente nei giorni di grande affluenza al Parco la mia misantropia può essere messa a dura prova ma, in un tranquillo sabato mattina, c’è abbastanza spazio per diluire la densità dei visitatori fino a renderli quasi invisibili l’uno all’altro (abbiamo incrociato 6 persone in tutto il periplo!). “Guarda che bel bosco e quanto spazio: ci porto Bruna ed i nanerottoli appena possibile!”. In effetti ero venuto con la piccola Andrea, spingendo il passeggino come Itto Ogami, già quando era neonata. Per compiere il periplo, invece, servirà ancora tempo. Tuttavia, con la giusta calma, non si può che rimanere colpiti da quegli insediamenti che risalgono al V° secolo dopo Cristo (…che a pensarci bene è un botto di tempo!). Serve poi un po’ di attenzione per rendersi conto che, sul lato sud, lungo il sentiero delle Torri, si cammina “sopra” la murata di un antica fortificazione che cingeva tutto il versante.

Fin della fiera un giretto di una decina di chilometri che, senza pretese, riserva molte più sorprese di quanto mi aspettassi e che può essere il preambolo di nuove avventure con i nanerottoli. Qui trovate qualche foto scattata da Nicola, il tracciato e due vecchi articoli sulle passate zingarate nel parco del Barro (giusto per comprendere come il tempo cambi ogni cosa).

Davide “birillo” Valsecchi

Prime Avventure!

Il Sasso della Vecchia

Vallone di Scerscen

Vallone di Scerscen

Nicola ha in affitto un appartamento a Lanzada, uno dei paesini nei pressi di Chiesa Valmalenco. Lo scorso week-end ci ha invitato lassù: io, Bruna e la Nanerottola. Il piano era salire in valle il Venerdì sera, andare io e lui a camminare il Sabato e rientrare la Domenica prima del traffico. L’idea mi è subito piaciuta, soprattutto perchè Bruna e la Nanerottola avrebbero trascorso la giornata all’aria aperta, lontano dal caldo. Le mete proposte da Niky per la nostra uscita era tutte molto interessanti: Sasso Nero, Monte del Forno, Valle Scerscen, Cima Fontana. Alla fine abbiamo optato per un giro ad anello attraverso il Vallone dello Scerscen. L’ultima volta che ero stato da quelle parti era per salire il Bernina: Carati, Marinelli, Marco e Rosa, cima e ritorno pancia a terra. Francamente non ho mai avuto tanta paura in montagna come in quei due giorni: c’era uno sproposito di gente che voleva salire alla vetta ed erano tutti intenzionati a commettere i peggio disastri: due cecoslovacchi mi hanno quasi ammazzato buttando giù sassi (enormi!) lungo la ferrata, uno svizzero è passato di sotto nel canalone Est perché gli si era sfilato un capo della corda durante una doppia(!!!), un’altro straniero ha perso lo zaino che, rotolando sulla neve, ha centrato e travolto un bergamasco (riconoscibile dalle imprecazioni!). Mi sentivo prigioniero di una zona di guerra, probabilmente è per questo che ho deciso che nel futuro avrei disertato come la peste le “mete prestigiose”. Tuttavia, ora insieme a Nicola, avevo la possibilità di godermi con calma e serenità la bellezza di quelle valli glaciali. Nicola, poi, è estremamente disponibile e mi sta aiutando ad “aggiustare”, una volta per tutte, le mie caviglie. La cura è semplice: macinare passi in totale relax, ascoltare i messaggi del corpo, far girare le gambe, il fiato, la testa.

La valle dello Scerscen è molto bella e mi intriga particolarmente andare a curiosare nella parte alta della Vedretta Inferiore di Scerscen. Certamente è impressionante osservare come il ghiacciaio si sia spaventosamente ritirato, tuttavia quello scenario in trasformazione, tra il ghiaccio che arretra, la roccia che riemerge dopo un tempo infinito, la natura “viva” che guadagna terreno, è qualcosa di misterioso ed affascinante.

|MappaSvizzera|

La sera siamo rientrati abbastanza presto, in tempo per andare tutti insieme a festeggiare alla Sagra di Vetto. Posso dire che il week-end prima del mio 43° compleanno è andato piuttosto bene!

Davide “Birillo” Valsecchi

Vedrétta s. f. [der. (di area ladina) del lat. vetus -tĕris «vecchio», propr. «campo di neve vecchia»; altri propongono una derivazione dal lat. vĭtrum «vetro»]. – In geografia fisica, ghiacciaio minore o di second’ordine, circoscritto entro la conca di un circo, senza una lingua ghiacciata vera e propria (ghiacciaio di circo), o che si presenta sotto forma di una falda o lamina ghiacciata che ricopre un versante (ghiacciaio di pendio).

Ecco qualche foto realizzate da Nicola:

Il signore dell’attenzione

Il signore dell’attenzione

IL SIGNORE DELL’ATTENZIONE di Ivan Guerini – Ricordando Giovanni Rossi.

Nell’ambito della mia vita e in rapporto a chi ho conosciuto, l’amicizia intercorsa con Giovanni Rossi è iscritta ben sopra le ragioni inerenti l’ambito della società alpinistica grazie alla quale ci siamo conosciuti.

Le nostre voci s’incontrarono telefonicamente per la prima volta all’inizio degli anni ’70 quando mi chiese informazioni sulle prime ascensioni che a quel tempo avevo compiuto assieme a Mario Villa nelle zone più disertate delle Alpi Centrali, mentre stava aggiornando la guida Masino Bregaglia Disgrazia di Aldo Bonacossa.

La nostra amicizia trovò un fermo punto d’incontro tre decenni dopo, nel 2004, in occasione di un elogio che espresse a proposito de: La Natura Verticale alla luce della libera esplorativa, la prima monografia che scrissi sull’Annuario Accademico CAAI, importante “sciabolata Etica” al pensiero ignavo dei pavidi Anti-Etici.

Giov, come era consuetudine chiamarlo nell’ultimo decennio della sua vita in cui assieme a Monica lo frequentammo con costante assiduità, dall’alto del suo nono decennio d’età e cultura tradizionale non ebbe resistenze verso la mia cultura singolare, così ci trovammo talmente bene che sua figlia Sabine tuttora stenta a credere come la nostra amicizia fosse potuta attecchire.

Come la sua proverbiale rettitudine abbia mai potuto reggere con tanta pazienza al mio balzare di palo in frasca in balìa della deflagrazione di mille argomenti e interessi nati contemporaneamente che di volta in volta gli sottoponevo con abituale irruenza, è davvero un mistero che credo sia la fonte che alimenta la stima e l’affetto tra individui ineguali.

Sono certo che per un professore come Giov, con quella sua spiccata predilezione per la sintesi, i nostri dialoghi telefonici estemporanei e soprattutto prolungati, avranno certamente rappresentato delle vere e proprie prove.

Dal giorno in cui andai con Monica a trovarlo per la prima volta nella sua villa di Varese, gli appuntamenti con lui non s’interruppero più. Ogni volta, dalle cose che ci stavano più a cuore, dette e ridette come scorci con differenti angolature, scaturivano riflessioni impensate, considerazioni impreviste, sfumature osservative sfocianti in tematiche sempre nuove.

Di tante di queste il tempo vissuto ci ha consentito di realizzarne solo una minima parte ma, come suggerisce una visione della vita priva di confini spaziali o scadenze temporali e proprio per questo: “Tutto ciò che non si è fatto in tempo a fare trova risposta in tutto ciò che non avremmo mai pensato di fare”.

In quegli incontri eravamo circondati e come osservati dalle foto di montagne che sua moglie Luciana, scalatrice caparbia, aveva appeso ai muri della tavernetta, diventati specchi meditativi dei ricordi che l’hanno confortata negli ultimi mesi della sua inesorabile malattia; dal malinconico primo piano di Teresa la seconda figlia persa prematuramente e dall’immagine della gatta Ippolita immortalata in un momento in cui osserva attenta Giov mentre corregge la bozza di una delle tante traduzioni inedite di testi alpinistici tedeschi o britannici realizzati uno dopo l’altro con instancabile e irriducibile costanza.

Tanti furono i pranzi conviviali, durante i quali noi tre discorrevamo con ironia: sorvolati dai salti degli scoiattoli in volo sulle alte fronde degli alberi del giardino, osservati dalla comparsa delle nubi temporalesche d’una giornata che ci aveva concesso comunque il tempo per una camminata prealpina e una volta anche rallegrati dal fuoco del camino che per se difficilmente accendeva se non in compagnia di amici.

E puntualmente a una certa ora del primo pomeriggio le sfiancanti chiacchierate terminavano con una mano davanti agli occhi di Giov: era il segnale discreto che per noi era ora di andare.

Giov era una persona assai disponibile laddove ci fossero la necessità l’urgenza o l’importanza, era invece notevolmente insofferente dell’inutilità dispersiva di tutto ciò che è banale e non occorre ad avanzare a livello personale, sociale, ambientale; mai lo sentii screditare chi non la pensava così ad eccezione dell’ambiguità deplorevole di quel pensiero diffuso che intende sostituire l’altezza dell’Autenticità con i bisogni della Mediocrità: dall’Alpinismo, allo Stato, al Cristianesimo non più Tradizionale che rimpiangeva con nostalgia e del quale fù osservante e studioso, soprattutto di quello Medievale.

Pareva snob ed era invece umile volontario a fianco dell’Etica anche Alpinistica, dalla maggioranza oggi così disdegnata o ignorata; e dall’Etica fu nobilitato, tantè che appena “prima di lasciarci riuscì a lasciarci” il primo libretto che parlasse di lei: “Alpinismo Si o No”, che fece stampare di tasca sua in cento copie numerate chiedendomi di distribuirle alle persone più sensibili.

Le avvisaglie di questo legame indissolubile si avvertivano già nella scelta del quadro di Caspar Frederich in cui si vede allontanare una figura femminile in un orizzonte di luce che inserimmo nell’apertura d’uno scritto in ambito accademico, dove in didascalia stava scritto: “Dea Etica volta al Tramonto”.

Giov scrisse colte presentazioni e scritti sintetici e forbiti per i miei due ultimi libri d’esplorazione alpina, uno su una valle e l’altro su un intero territorio. Immedesimandosi in esperienze alpine assai diverse dalle sue e centrandone la valenza intima con la precisione di un “fuciliere culturale” scelto, come a dire che la capacità conoscitiva, focalizzando l’essenza, si raccorda a tutte le cose.

Dopo magagne saltuarie, delle quali non si lamentò mai, ma sulle quali fece parecchia ironia, si manifestò la malattia che lo avrebbe accompagnato nella dimensione dei trapassati.

Alla progressiva debolezza reagì con lucidità e forza, scrisse fino all’ultimo e fino all’ultimo disse e pensò solo cose necessarie a se perché lo fossero anche agli altri, perchè raggiungessero il futuro nel quale ci attende riflettendosi nella vita di chi gli è stato amico.

Degli ultimi incontri, ricordo il rumore dei suoi passi dosati, sempre più secchi e scanditi come rintocchi di un metronomo diventato pendolo, per salire al piano di sopra, dove si trovava il suo studio: in senso assoluto il punto più luminoso della casa, pervaso dalla luce radiante della cultura perenne, dove saliva ogni volta a prenderci qualche libro o pubblicazione che riteneva indicativi e puntualmente, ogni volta, ci donava.

Rivedo come fosse ora l’ultima volta che ci siamo incontrati mentre risale lentamente le scale che lo avevano condotto in cantina per prendere le copie delle sue pubblicazioni e consegnarcele con la fatica di una picozza conficcata sul punto sommitale della vita.

E prima di congedarci seduto in poltrona con una mano sugli occhi mentre muoveva le dita eleganti al ritmo di parole misurate con le quali ci dava le sue ultime indicazioni: un congedo rimasto vivo che fa sentire netta e accanto la sua voce.

Stanco e mai vinto, come un soldato schierato al fronte della correttezza per la preservazione dell’Etica.

Ivan Guerini
6 giugno 2018

Addendum di Monica Mazzucchi
Giov soleva rafforzare i carteggi con noi con poesie dei grandi letterati anche tedeschi e britannici: Maurice Maeterlinck, Whintrop Young, Giosuè Carducci, Giacomo Zanella, ma anche raccontare sogni come preziosi doni di riflessioni o tremendi incubi come quelli in cui la montagna affiorava dal mondo urbano.

Al suo estro letterario ricambiavamo con sonetti spontanei fatti da noi, nello scrivere spicciolo usava parole del tempo che fù come: “fatto inaudito, pignolesche osservazioni, prognosi nefasta, famigerato legamento, evidente impresentabilità, pasto frugale, ubbie del pensiero, delusioni esiziali, megera”, con cui descriveva i fatti e i comportamenti d’individui particolarmente fastidiosi o estremamente gravi, con notevole senso dell’ironia.

Giov aveva pochi amici autentici con i quali si trovava, a partire da Carlo Zanantoni che fino agli ultimi giorni gli stette accanto, il Colonnello Masera, Fabio Masciadri, Bianca di Beàco.

Con Bianca fu un’amicizia che perdurò fino alla fine e proprio lui ci annunciò che era mancata l’ultima volta che ci incontrammo.

Giovanni Rossi, ottantunenne, alla Rocca di Orino durante una breve arrampicata sul muro di cinta della Fortezza. Uomo di grandissima cultura era attento a ogni espressione della scalata, sopratutto alpinistica, che stimava solo se eticamente corretta.

Giovani Vecchio Stile

Giovani Vecchio Stile

I problemi irrisolti del passato non possono essere risolti dallo stesso passato che li ha creati, non possono neppure essere risolti dal presente perchè, nel momento in cui prende coscienza del problema, questo diviene anch’esso passato. Il passato è inevitabilmente prigioniero del conflitto, di un gioco a somma zero. Per questo solo il futuro può risolvere un problema irrisolto. Può farlo perchè in modo spontaneo può superare il problema introducendo qualcosa di nuovo, qualcosa che ancora non esisteva: rivoluzionare il problema stesso, trasformare il passato in futuro. Quando questo accade il passato, il presente ed il futuro diventano solo punti nel tempo, perché la soluzione vive oltre questi punti. Ricordo che, discutendo con Ivan sulla questione dello spit e del trapano, accusai lui e la sua generazione di non essere stati in grado risolvere la faccenda per tempo, di non aver creato l’equilibrio che oggi manca. Poi il trapano, in modo quasi surreale, ha tentato di invadere i Corni, e quando questo è accaduto io sono diventato dapprima presente, poi inevitabilmente passato, senza che nulla fosse davvero risolto. Il conflitto ha avvolto ed avvelenato anche me. La realtà è che la soluzione ai problemi complessi quasi sempre è qualcosa di semplice, spontaneo, ma invisibile agli occhi di chi conosce il mondo senza riuscire a cambiare il proprio punto di vista. Per questo i giovani sono il futuro, mentre i vecchi, aggrappati a certezze e sicurezze artificiali ed artificiose, sono inesorabilmente il passato.

Togliere piuttosto che aggiungere è il motto di questa nuova generazione di arrampicatori che dimostra con i fatti un futuro sostenibile anche nell’arrampicata. Peruffo ha appena realizzato un piccolo capolavoro di arrampicata tradizionale su una struttura inviolata a lato della Sisilla mentre Meggiolaro, assieme ad un amico veronese, ha salito un itinerario di decimo grado (scala UIAA) in Val d’Adige proteggendosi solo con chiodi dadi e friends. «Ci lascia perplessi – dicono all’unisono Meggiolaro e Peruffo – che questa foga di trapanare ovunque e comunque non sia appannaggio di noi giovani ma di gente ben più in là con gli anni dai quali ci si aspetterebbe un comportamento più rispettoso sia della storia alpinistica che dell’ambiente».

Questo è un passaggio del lungo articolo che il Giornale di Vicenza, domenica 28 Luglio 2019, ha dedicato all’arrampicata con un sottotitolo significativo: ”Nel vicentino un gruppo di universitari mette a segno grandi arrampicate ma con principi etici ed ecologici”. Molti di questi ragazzi li ho incontrati al Convegno TTT di Aprile. Guardandoli ed ascoltandoli ho percepito quanto sappia essere vibrante un futuro ancora inespresso. Non hanno conti aperti con i propri contemporanei, non devono dimostrare o contrastare. Il loro non è un battibecco tra vecchi che pretendono di avere ragione, loro non devono cambiare, torcere qualcosa ormai diventato rigido. Devono solo trovare il proprio modo di essere, nella maniera più leggera, elegante ed indubbiamente naturale. 

“La bellezza salverà il mondo” fa dire Dostoevskij al principe Miskin nel romanzo “L’idiota”. Una frase che ha avuto fortuna. Ma chi salverà la bellezza e, in modo particolare, la bellezza delle nostro montagne spesso oltraggiate? Alcuni universitari vicentini uniti dalla passione per la montagna e l’arrampicata e gravitanti tra Lumignano e le Piccole Dolomiti danno voce a un sentimento di protesta contro l’inquinamento dei valori fondanti del vivere e praticare turismo, escursionismo e alpinismo. “In montagna con Gandhi” (il riferimento al Mahatma è assolutamente accidentale) è il nome di questo gruppo di giovanissimi, dai 20 ai 24 anni, molto preparati, con idee ben chiare e il cui desiderio non è quello di impartire lezioni ma di suggerire al più vasto pubblico possibile una fruizione consapevole e rispettosa della montagne. Anche questi giovani studenti vicentini, nativi digitali come molti coetanei, comunicano attraverso i social ma non solo. «Oltre a una pagina Istagram che si chiama come il nostro gruppo – Spiega il ventenne Filippo Caon, studente di Musicologia all’Università di Trento – che ci permette di associare foto a didascalie il cui contenuto rimanda a considerazioni sulle dinamiche legate alla frequentazione del mondo alpino, stiamo realizzando anche dei piccoli fan-magazine detti appunto fanzine». Si tratta di opuscoli redatti da persone entusiaste di un argomento che sentono il bisogno di condividere il proprio prensiero. «Autoprodotti e autofinanziati – aggiunge Caon – vengono distribuiti in alcuni locali pubblici o negozi che sappiamo essere frequentati da gente, come noi, appassionata di montagna». Gli argomenti spaziano dalla tutela della fauna all’inquinamento acustico e visisvo, dalla potenziale dannosità dell’inquinamento artificiale a questioni di etica alpinistica. «Abbiamo poi sperimentato con successo poco tempo fa in Valdastico – racconta Piero Lacasella, laureando in Antropologia a Venezia – la formula dello story-trekking che consiste nell’accompagnare un gruppo di persone in una facile escursione alternando la passeggiata a letture di brani letterari legati ai luoghi» Scopo dell’iniziativa è far conoscere una valle o una zona trascurata dal turismo e dell’escursionismo di massa evidenziandone le caratteristiche ambientali, paesistiche e culturali più salienti. «Siamo stufi – affermano Caon e Lacasella – che si parli di Valdastico sul piano ambientale solo in riferimento all’autostrada o ad altri folli progetti ventilati di recente come la costruzione di una funivia di collegamento con gli impianti Fiorentini. Noi vorremmo piuttosto musei diffusi, ecomusei e iniziative turistico-culturali come lo story-trekking, appunto, il cui impatto sull’ambiente è pari a zero» Legato strettamente al mondo dell’alpinismo e dell’arrampicata è l’impegno di Leonardo Meggiolaro, studente ventiquattrenne di Sicurezza Alimentare all’ateneo berico, e Giacomo Peruffo, coordinatore della sezione vicentina di di Greenpeace ed impegnato nel servizio civile. Entrambi fortissimi arrampicatori, attivi nel Cai Montecchio si sono segnalati anche per la loro decisa presa di posizione contro l’imperversare sulle Piccole Dolomiti di aperture indiscriminate a spit-fix piantati con il trapano su percorsi già saliti anni fa da alpinisti del calibro di Solà, Scorzato «Non siamo contrari a priori all’uso delle protezioni fisse – dicono Peruffo e Meggiolaro – ma lo siamo nei confronti di chi vuole cancellare la storia, magari con il pretesto della sicurezza. Un pretesto che nasconde il desiderio di mettersi in mostra e riceve like sui social da parte di quelli che senza le protezioni fisse ogni mezzo metro non sarebbero capaci di ripetere itinerari che poco meno di un secolo fa venivano superati di slancio con pochi chiodi e tanta preparazione psicofisica»

di Eugenio Cipriani
Giornale di Vicenza – 23 Luglio 2019

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