Year: 2016

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Terror Crest

Terror Crest

Ieri io ed il Guerra siamo stati sul versante est del Moregallo, siamo partiti dalla vecchie gallerie abbandonate sul lago risalendo fino alla cima attraverso mille metri di crinale: un viaggio incredibile nel cuore, immenso e sconosciuto, della montagna più selvaggia dell’Isola Senza Nome. Come se questo non bastasse avevo approfittato del sole invernale uscendo in esplorazione praticamente tutti i giorni: ora la fatica sembra volermi presentare un conto salato. Mentre risalgo con il Guero tra le piante del bosco sento lo zaino pesante e la gamba lenta: vado avanti sfruttando il ritmo, sbuffando per inerzia consapevole. Forse avrei dovuto riposare, ma Guero ci tiene tanto a sfruttare queste giornate favoreli …ed in fondo mi ha promesso una cresta semplice. Forse posso tenere duro e fare diligentemente la mia parte.

Il piano però comincia a farsi via via più chiaro mentre ci avviciniamo alla Torre Proibita. La torre è in realtà una struttura molto complessa dove una fila di alte guglie si innalza dal bosco formando un’imponente cresta dentata. Un anno e mezzo fa, insieme a Paolo Console, abbiamo aperto la mia prima via in questa valle: Il Bastone e la Carota. La foto di Ivan sdraiato in sosta su un’albero a sbalzo nel vuoto è l’immagine più iconica di quel giorno. La via risaliva il fianco del torrione più in alto e ci aveva dato modo di osservare la cresta individuandone la via d’uscita. Successivamente Ivan e Paolo avevano aperto due vie sull’alto torrione più in basso ed un mesetto fa, Io e Guero, avevamo risalito la seconda torre attraversando la cresta fino a giungere alla terza. Qui Guero aveva affrontato un tiro assolutamente terrificante raggiungendo la cima della terza torre: quei trenta metri di roccia, in una gelida giornata d’inverno senza sole, mi hanno mostrato chi è davvero Ivan Guerini e di cosa è capace sulla roccia. (“Mozzo di Colombo“)

Purtroppo, alla base della terza torre, comprendo il piano di Ivan e quale sia la cresta, tra le tante fatte, che vuole “completare”. Per un secondo il peso dello zaino vince la mia volontà e mi sdraio a terra osservando il mio precario futuro: “..ma davvero?”. Ivan vuole rimontare il fianco sinistro della cresta, affrontare un’infinito traverso obliquo e raggiungere un diedro canale che, nelle nostre previsioni, risale alle spalle della terza torre raggiungendo il punto in cui Ivan aveva attrezzato la sosta di calata. Se raggiungiamo quel punto possiamo riprendere la cresta e completare la salita fino alla quarta torre e l’uscita di “bastone e carota“.

Se le mie batterie fossero al 100% sarei agghiacciato, ma visto che parto già in riserva non posso che essere tristemente rassegnato. Ivan parte, rimonta una decina di metri verticalmente su roccia mista ad erba e poi ingaggia il lungo traverso verso destra stendendo la corda come una ghirlanda tra le piccole pianticelle che costeggiano la stretta cengia erbosa sovrastata da una piccolo tetto concrezionato. Trentacinque metri di corda stesa ed arriva dentro il canale: “Provo a fare sosta più in alto, cerco di arrivare al sole che qui fa freddo”. Qualcosa non mi torna, forse più probabilmente vuole risalire il canale per evitare di farmi stare in sosta tra i sassi che cadono nel tiro successivo. L’unica cosa certa è che da lassù non può ritirarsi con una calata e che per recuperare il materiale devo per forza chiudere il traverso. Mi aspettavo un canale rognoso, quarto/quinto grado con detriti ed erba ma Ivan sembra metterci più del previsto. Gli vedo piazzare e raddoppiare friend, ma quando sento piazzare uno, due e poi tre chiodi capisco che la faccenda deve essere radicalmente diversa. Le corde, strozzate dalle protezioni, non scorrono più, Ivan sfrutta una piccola pianta e chiama la sosta: ora tocca a me.

Mentre recupera la corsa penso al lavoro, forse dovrei tornare a fare l’informatico, ora dovrei essere in un bel ufficio con le luci al neon e le scrivanie in formica, la tazza di guerre stellari e la macchinetta del caffè. Le riunioni, i colleghi, il capo represso. Un’ora di macchina andata e ritorno, il traffico, la coda. Lo stipendio fisso, i ticket a pranzo per la mensa. Passare il week-end davanti alla playstation, ingrassare serenamente di trenta chili ed aspettare di morire placidamente di infarto nel mio letto. Mio dio, questa potrebbe essere la mia vita, quasi desiderabile!! Ma una vocina interiore mi parla sprezzante come l’ufficiale di “Caccia ad Ottobre Rosso”: “Bravo coglione, prima però devi evitare di ammazzarci su questo cazzo di traverso!”

Respiro, i pensieri sono brusio di fondo, quasi lontano. Il mio presente è fatto di piedi sull’erba e piccole concrezioni sopra la mia testa da affrontare con la schiena arcuata all’indietro. Gli addobbi natalizi sulle pianticelle non reggeranno la severa potatura di un pendolo. Respiro ed avanzo, lasciando che lo stupore trasfiguri il mio equilibrio. Sono alla base del canale e sono già mentalmente bruciato, quello che ho davanti semplicemente mi incenerisce. “Ma sei fuori?! Sguero, tu non sei un terrorista: sei un dannato maniaco! Come accidenti hai fatto a passare!!” Il canale di “quarto” strapiomba, è un incubo di roccia disgregata e terra. “Biriz, se vuoi da qui possiamo calarci…”. Rispondigli di sì, dannazione Birillo, rispondigli di sì!! Ma la realtà è semplice: Ivan vuole vedere questa cresta, è la seconda volta che arriva a sfiorarla dopo aver superato difficoltà che avrebbero annichilito chiunque altro. Se ora sono io a negargliela probabilmente non potrà mai più tornarci, non avrà altri tentativi. Non capisco appieno perchè voglia raggiungere posti simili, forse semplicemente perchè ne ha la capacità, perchè in lui alberga lo stesso desiderio che mi spinge sui fianchi del Moregallo, affrontando difficoltà che per altri sembrano follia. Vivere significa mettere a nudo la propria natura, smettere di nascordersi a se stessi, liberare la propria anima nel cuore della tempesta. “Okay Sguero! Ma sono terrorizzato e devi darmi una mano come si deve questa volta!”.

Una fessura sulla destra mi permette di alzarmi ad incastro fin sotto lo strapiombo, ora dovrei cercare di spaccare per attraversare a sinistra per poi rimontare nuovamente. Ma l’altro lato del canale è un’incubo ed io non so dove andare ad incastrarmi. Vedo il primo chiodo di Ivan, un universale lungo, tutto fuori, infilato giusto di punta e strozzato con un cordino. Una parte del mio cervello è in preda ad una crisi isterica: nella mia testa omini terrorizzati corrono strillando per tutta la plancia di comando, solo un paio di bastardi senza gloria sembrano intenzionati a riportare in porto il Titanic. Azzero su quel chiodo con il terrore che mi schizzi in faccia prima di buttarmi di sotto: la corda gira attraverso un paio di friend messi in asse ma fortunatamente è abbastanza dritta perchè Guero possa aiutarmi. Schiodo ed il mio viaggio della speranza riparte fino ad afferrare con due dita l’anello del piccolo friend giallo verticale in una sottile fessura terrosa: si dice ancora azzerare quando appendi la disperazione ad un friend?

Il mio presente diventa troppo complesso, il cervello smette di registrare gli eventi ed investe tutte le sue risorse nell’azione pura. Due movimenti, di cui non ho memoria, e sono finalmente in sosta. “Bravo Biriz! Sotto era “ottavo”, il movimento verso sinistra forse “nono” ed il tratto d’uscita “settimo più” su erba”. Io mi guardo intorno come un naufrago incrostato di sale approdato su una spiaggia deserta e lui si mette a dare i numeri… sono sempre state così le mie giornate tipo?

La sosta è una pianticella che sembra essere cresciuta bucando la buccia della roccia, poi abbiamo un friend in un buco ed un paio di chiodi. “Vedi Biriz, te lo dicevo che era una bomba la sosta!” Mancano una decina di metri alla cresta ma sono tutti sopra la mia testa: “Avrei voluto uscire più sopra ma le corde non scorrevano più. Dove c’è quella piccola pianta ci deve essere la clessidra passante”. Quando Guero aveva risalito la terza torre dall’altro versante aveva trovato una lunga clessidra, passante e verticale, larga quanto un polso.

Guero riparte, si alza e compie un paio di movimenti. Poi appoggia la mano su uno spuntone, il suo corpo sembra attraversato da una scossa elettrica ed il suo movimento successivo diventa insolitamente rapido e scattante: “Biriz, quando arrivi qui non toccare questo spuntone”. Incuriosito osservo quel grosso pezzo di montagna, immobile a sbalzo nel vuoto sopra di me… cos’era quella scossa? Una percezione fisica o mentale? Lo avrà davvero toccato o solo sfiorato?

“Qui è più duro ma più solido”. Ivan infila le mani ad incastro nel diedro e si alza verticale. Il concetto si solido è assolutamente relativo e sporco di terra, ma finalmente, quasi trionfante, raggiunge la piccola frana consolidata ed il chiodo su cui si era calato l’altra volta.”Sosta Biriz! Sosta!!” La paura è un sentimento strano, quando non riesce a travolgerti è costretta a trasformarsi in rassegnazione, qualcosa con cui sembra persino possibile convivere. Quello che conta ora è uscire dal canale e scoprire se davvero la cresta è “piacevolmente” a gradoni così come aveva promesso Ivan.

A cavalcioni della cresta percepisco tutto l’immenso vuoto che ci circonda. Il tiro sull’altro versante della terza torre è spaventoso, non riesco nemmeno a sporgermi per scattare una foto. “Biriz, ora seguo la cresta fino a quell’albero, poi quando smonti la sosta prova a recuperare quel chiodo lassotto.” Ivan parte sulla cresta, la roccia fa lo stesso rumore delle piastrelle e si sgretola crollando lungo i lati riempiendo l’aria di un profumo tipico. “Non mi piace buttar giù sassi ma questa volta se non lo faccio può essere pericoloso per la corda”. Il fragore riempe la valle, forse è solo una sensazione ma tutta la cresta trema sotto le mie dita.

La corda corre lungo gli spuntoni della cresta per poi sfilarsi sul lato sinistro rimontando di lato un piccolo pilastro. Per schiodare il vecchio chiodo di Ivan dovrei distendermi a testa in giù oppure appendermi nel vuoto affidandomi completamente alla corda. Ma se la corda scavalca gli spuntoni rischio di fare trenta metri di pendolo sull’altro lato della cresta. “Ivy, recupero il cordino di calata ma il chiodo se vuoi te lo pago: io non vado laggiù a riprenderlo!” Ivan trenta metri più sopra ride, io smonto la sosta e parto lungo la cresta.

Abbiamo fatto un lungo viaggio per giungere fin quassù e quello che vi abbiamo trovato infrange ogni mia possibile aspettativa. La cresta è meno impegnativa del canale ma qualità della roccia, così profondamente spaccata e scomposta, la rendono altrettanto spaventosa. “La cresta del Terrore, ecco come chiamerò questo dannato posto!”. Mancano due o tre tiri per uscire: io non devo cadere, lei non deve crollare. Aggiro le cornici nel vuoto e cerco di muovermi sulle parti verticali senza tirarmi addosso niente. Nella mia testa la voce di un amico si manifesta come una domanda semplice: “Come fai ad arrampicare su roccia così?” Io mi guardo la punta del piede sinistro cercando qualcosa di solido su cui appoggiarmi “Semplice, devi trovare i punti che sembrano migliori e convincerti che siano solidi: solo se ti convinci che possono tenere allora potranno farlo per davvero”. Una verità inverosimile che diviene la sola certezza a cui potermi aggrappare.

Un tiro, due tiri, finalmente sulla cresta l’erba si fa più frequente ed appaiono le “fatte” dei camosci: Siamo fuori!! Un ultimo tratto tra rocce e piante e finalmente siamo nel bosco. Ivan inizia ad insaccare diligentemente il materiale mentre io mi sdraio a terra sull’erba con le braccia e le gambe larghe. “Oh Ivy! Questa volta è stata davvero dura! Questa volta me la sono fatta sotto dall’inizio alla fine!” Parlando della qualità della roccia della cresta finale gli racconto con autoironia del mio dialogo interiore sulla volontà che sostiene gli appigli. Lui però mi risponde serio: “Ci sono componenti psicologiche fondamentali in un’arrampicata come questa. Ci vuole un animo intimamente delicato per arrampicare su roccia simile” All’improvviso sembra di ascoltare un maestro di arti marziali “Animo delicato non significa cedevole o arrendevole, significa che possiede la sensibilità necessaria per trasformare la forza in delicatezza. Tu forse non te ne rendi ancora conto ma non è così scontato il modo in cui ti ribalti, il tuo ruotare gli appoggi e spingere anziché tirare. No, quella di oggi era una salita decisamente impegnativa.”

Una strana quiete ci avvolge mentre ridiscendiamo nel bosco. Non provo più fatica o paura, ogni difficoltà sembra ora distante, tanto sulla montagna quanto nella vita quotidiana. Non ho idea del perchè faccia tutto questo, il senso ancora mi sfugge sebbene ogni cosa attorno a me si muova per assecondarlo. Posso davvero oppormi?

Davide “Birillo” Valsecchi

Nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po’ stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità. E l’ebbrezza di quell’ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia. (Giusto Gervasutti)

Addobbi Natalizi

Addobbi Natalizi

Vagabondiamo per un’oretta attraverso il bosco ma ormai, girovagare fuori sentiero con lo zaino pesante, è diventata la parte rilassante della giornata. Il sole caldo ci accompagna tra gli alberi e per la fatica arranco sudando in maglietta nonostante sia il mese di Dicembre. Ahimè, a furia di sfacchinare sono diventato bello stagno ma non c’è stato modo di smuovermi dagli 84kg: volevo diventare una ballerina ma resto un “tank” …cocciuto, pesante, corazzato.

Quando in lontananza cominciamo a vedere la parete innalzarsi oltre gli alberi inizio a preoccuparmi: “Ivy …è alta come l’antimedale! Con le giornate così corte non credo si riesca ad uscire in alto..” Ma Sguero non è preoccupato, la nostra è soprattutto una ricognizione. Questa struttura, a cui in effetti non abbiamo ancora dato un nome, è la più lontana da raggiungere, anche più lontana della Torre Prora: non sappiamo come sia, non sappiamo neppure se sia possibile salire. Tuttavia ormai conosco bene Ivan: qualcosa faremo lo stesso!

Dal basso la parete appare di roccia ottima, Ivan dice che assomiglia a quella dell’Avorio, sulle bastionate del lago. Ci sono grandi placche, pilastri ed alti diedri. Dalle spaccature della roccia, come selvaggi tentacoli alieni, emergono coriacei e ritorti alberi di Rubinia(?) aggrappati al calcare contro ogni apparente logica. Il loro tronco è grosso, deformato in forme contorte e vive, più simili a quelle di una creatura marina che a quelle delle piante da giardino. Mi piacciono le piante. Tempo fa ero diventato “famoso e famigerato” per aver abbracciato le piante di Asso scongiurandone l’abbattimento, spero che queste loro cugine ora abbraccino me evitando di farmi cadere!!

“No, il sole si sta già nascondendo” mi dice Ivan “Non abbiamo abbastanza luce per uscire in cima. Proviamo ad arrivare al grande cengione che c’è a metà, poi ci caliamo in doppia seguendo quelle piante”. Calarmi in doppia non piace molto: statisticamente i più grandi arrampicatori della storia ci hanno lasciato la pelle proprio durante questa manovra ed io, onestamente, non sono neppure un grande… Tuttavia, visto il piano, posso lasciare lo zaino alla base e concedermi il lusso di arrampicare “leggero” (mica roba da niente!)

Ivy si insinua come serpente in un diedro verticale scivolando tra le pieghe della roccia fino ad appoggiarsi come un boa ai rami di una grossa pianta. Se non avessi le mani occupate a manovrare la corda che gli fa sicura dovrei farlo un video e mostrarvi come accidenti si muove “kundalini” mentre esplora verticalità ignote. Ancora oggi è qualcosa che riesce a stupirmi, qualcosa che però bisogna “vedere” per poi istintivamente “imitare” quando poi ci si trova nelle difficoltà. Non lo trovi su YouTube uno che si muove come il Guero, ed è un vero peccato!

Guero supera il diedro, rimonta l’uscita proteggendo a friend e si infila in una serie di massi prima di scomparire al di sopra di una placca ancora illuminata dal sole. Io, all’ombra imbacuccato nel giubbotto di piuma d’oca, mi sento come mio fratellino quando lo portavamo a giocare a calcio: avrei voglia di sedermi in mezzo al campo e fare mucchietti con la terra. Sono stato al Moregallo ieri, ho curiosato in solitaria tra i misteri del versante Est. L’incertezza di affrontare la roccia riaccuisce la stanchezza e la tensione. Tolgo la giacca, infilo le scarpette, appoggio le mani sui primi sfuggenti appigli: “Cominciamo!”.

Il diedro iniziale sembrava repulsivo ma senza zaino il baricentro sembra nascondersi nello strapiombo e le prese, per quanto non proprio comode, bastano a darmi la giusta stabilità. Se non dobbiamo uscire in cima posso andare anche un po’ più lento del solito, posso concedermi qualcosa in più nello scegliere i movimenti. Afferro la pianta e mi isso tra i suoi rami: assomiglio più a King Kong che a Kundalini ma va bene lo stesso… In piedi, comodamente sui rami, mi sembra di essere sulle zanne di un grosso elefante.

Il passaggio successivo il diedro si fa ad incastro salendo con i fianco destro e sfruttando le prese e gli incastri a sinistra, poi, a metà dell’azione, c’è un cambio completo di fronte in cui si inverte il fianco e tutte le prese per uscire fianco sinistro sul lato destro. Guero, in quel punto, mi era sembrato uno dei “MastersOfUniverse”, uno di quei mitici giocattoli snodati degli anni 80. Tutta la parte superiore del corpo era rimasta immobile, incastrata ed ancorata nel diedro, le gambe invece avevano lasciato i loro appoggi e si erano quasi distese verso il basso prima che il bacino ruotasse completamente assumendo le nuove posizioni. Poi era stata la volta del tronco: prima si è assottigliato allungandosi verso l’alto, accorciando le spalle, per poi ruotare nelle nuove prese e nei nuovi incastri. Il respiro del serpente che si avvolge…

King Kong ha invece girato il bacino con la stessa rigidità plastica di “He-Man” ma è poi riuscito a risdraiarsi dentro il diedro uscendone scalciando e sbuffando. Ma se quello era un passo tecnico il difficile è appena dopo, quando tra fessure e sassi incastrati, raggiungo Ivan alla pianta su cui fa sosta. “Naaa… Ivy, accidenti! La parte più difficile è sempre quella che sembra più facile!”

Il secondo tiro è strano, rimonta una spaccatura guadagnando la base di una bellissima placca compatta. A quel punto si deve però seguire in un traverso una sottile cengia coperta di foglie prima di poter entrare sulla placca attraverso uno scivolo verticale che risale fino a diventare un diedro a placche parallele. “Ecco Birillo, siamo nel traverso marocchino!” Per un istante il caldo invernale mi trasporta in qualche paese esotico dove il traverso, ora un mercante arabo di un Suq affollato di foglie, cerca di imbrogliarmi incantandomi con i suoi profumi d’oriente. “Birillo, se scivoli e pendoli vai a dare un’occhiata alla parete che c’è dall’altra parte della montagna!” I piedi sono un po’ precari ma le prese per le mani sono piccole ma eccezionali. La punta della dita esplorano la roccia, scostano alla cieca la terra e la polvere accomodando il grip, poi si serrano consapevoli e compiaciute del loro ruolo chiave in quel balletto.

Rimonto la placca e mi infilo nel piccolo diedro: una struttura alquanto curiosa. Di rimpetto alla placca una colonna di sassi impilati forma l’incrocio dei due piani separata da una profonda fessura, che il realtà è lo scollamento della colonna dalla placca. L’esterno della colonna si sfalda in grossi blocchi ed è quindi intoccabile. Mi ritrovo con i piedi in appoggio opposizione a destra sulla placca solida, il braccio destro, con il palmo rivolto verso di me, che di sbieco a sinistra traziona l’interno della colonna mentre il braccio sinistro, disteso verso l’alto, cerca di tenere il corpo quanto più possibile all’interno del diedro per non sollecitare troppo la colonna.

Una posizione faticosa, curiosa, statica, ma solida. Trasoformarla in dinamica riuscendo a farla camminare verso l’alto è stato piuttosto curioso. Fortunamente, prima dell’uscita, una bella presa mi ha permesso di rigirare le anche e salutare il diedro senza dovere abbattere a calci la colonna. La bella ed appigliata placca finale, inondata di luce, era una piccola e piacevole ricompensa per l’impegno nel piccolo diedro.

La parete si perde in una ripida cengia erbosa piena di piante (persino pini) prima di ricominciare a salire verticale. “Che bello qui! Guarda che belle pareti si nascondevano quassù!” Per un istante ho la tentazione di continuare a salire, ma il sole è basso all’orizzonte e sembra volere correre a nascondersi. Così facciamo un traverso di una trentina di metri lungo la cengia fino ad un piccolo sperone. “Però un’occhiata vado a darla!” Confessa divertito Ivan mentre gli faccio sicura sullo sperone. Rimonta fino ad una piccola pianta, poi raggiunge una seconda e si alza sul passaggio chiave superandolo. “Da qui in poi le difficoltà si abbattono e piano piano appoggia fino a raggiungere le piante: venti o venticinque metri”. Sarebbe uno spettacolo raggiungere anche il successivo bosco pensile ma il tempo corre e la luce si affievola. Sguero pianta un chiodo, uno che canta, lo lega con un cordino alla piccola pianta e si lascia calare mentre recupera friend e fettucce.

Dalla pianta a cui siamo appesi lo calo fino al bordo della cengia, il margine della parete. Attrezza un’altra sosta su una pianta a sbalzo e mi cala a sua volta. Quando lo raggiungo mi trovo davanti tutta la verticalità della parete: “Accidenti, ma basta?” La nostra singola da 60 è la scelta migliore per gli ingaggi da combattimento in cui ci infiliamo, tuttavia un paio di gemelle da 60 farebbero davvero comode per ritirate come questa. “Non so, ti calo e vediamo” Mi dice divertito Ivan. Quando sono con il culo nel vuoto parte la solita scenetta “Chissà se la pianta regge il tuo peso…” “Ivan!! Per Dio, guarda dove accidenti sono! Lasciami in pace e calami piano!!”

Piano piano scendo, spostandomi sulla parete affinchè la corda non sfrisi contro la roccia. “Metà! Biriz dove sei?! Quanto manca?” Ovviamente la corda finisce sempre quando giri appeso in una nicchia sotto un tetto. “Ivy!! Mancano quattro metri! Sono nel vuoto e mancano quattro metri!”. Ivan mi cala e finalmente raggiungo terra. La calata è di trentacinque metri, la corda da sessanta, quindi niente doppia: al vecchiaccio tocca frazionare mentre io mi reinfilo le scarpe comode! Sguero si cala e prima del tetto pianta un buon chiodo che raddoppia con un vecchio nat usato che ci è stato regalato (il materiale qui inizia a scarseggiare!!) Gira le corde e starnazzando divertito come un bambino che gioca sull’altalena discende i dieci metri che ancora ci separavano. Nuovamente insieme ci stringiamo la mano con assoluta mancanza di serietà ma sincera soddisfazione ed amicizia. “Bene! Bene! Bene!”

Insacchiamo la corda e ci rinfiliamo nel bosco mentre la luce continua ad affievolirsi. Sancho Panza e Don Chisciotte, Gianni e Pinotto, Stalio ed Olio: ancora una volta la strana coppia si muove attraverso la boscaglia puntando determinata verso la terra promessa: la birreria. “Sai Sguero, tutto questo però non è normale: ogni volta usciamo, andiamo ed apriamo una nuova via in qualche posto sconosciuto. Gli altri non fanno così, nessuno di quelli che conosco fa così: davvero, non è normale!!” Ivan divertito saltella tra le foglie come un folletto arancione: per lui è normale, anzi, probabilmente è la sola normalità che conosce. Questo è il suo modo di essere libero. Ed io? Io non lo so, io temo che fra un po’ sembrerà normale anche a me, anzi, sarà la sola normalità possibile.

Davide “Birillo” Valsecchi

Argo Express

Argo Express

1-1-dscf7448La faccenda era imbarazzante: in uno dei miei recenti giri esplorativi sul versante orientale del Moregallo avevo intravisto, isolata su una cresta al sole apparentemente irraggiungibile, una piccola casetta di sassi. “Birillo, lassù hanno costruito una casotta e tu non hai la minima idea di come fare ad arrivarci! Come la mettiamo?”. Già, il versante est è infatti un territorio sconosciuto fatto di prati verticali e salti rocciosi che in spaventosi canali precipita nel lago. Studiando le mie foto mi ero fatto una mezza idea ma le incognite erano ancora moltissime. Salvo il sentiero del Cinquantesimo Osa non ci sono sentieri “ufficiali” e quelle poche ed ataviche “linee” conosciute sono tutt’altro da sottovalutare e che, anzi, spesso hanno complessità e difficoltà che sfociano nell’alpinismo esplorativo.

Così, di buzzo buono, sono andato a controllare. Giunto al sasso di Preguda, usando il cannocchiale, ho potuto “confermare” l’esistenza della casotta ed il fatto che in qualche modo fosse anche ben tenuta da qualcuno. “Quindi ci si arriva, ma da dove?” Da qualche parte un piccolo segreto permetteva di vincere canali e pareti sconfinando nel “mondo selvaggio” fin laggiù. Molto probabilmente era possibile arrivarci risalendo il leggendario “sentiero della teleferica”, un tracciato aereo su erba verticale che vince un passaggio di roccia grazie a dei muretti a secco costruiti dai vecchi. Il buon “Guerra”, che l’ha già percorso, è stato molto chiaro nel mettermi in guardia dall’affrontarlo da solo senza conoscerlo. Per questo, anche per mantenere fede alla promessa di fare “il teleferica” insieme, dovevo trovare il modo di raggiungere la casetta dall’alto anzichè dal basso. Già, ma chi conosce quella zona può capire quanto rognoso possa diventare esplorare in discesa quei canali.

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L’idea era riuscire ad intercettare l’uscita della cresta per poi tentare la discesa. Il problema però era innanzitutto riuscire ad orientarsi scegliendo la cresta giusta, evitando al contempo di trovarsi a sbalzo su salti troppo alti o troppo difficili da ridiscende. L’alternativa, attraversare i canali, sembrava anche più dissennata e quindi, per scendere, non potevo far altro che salire.

Al primo tentativo ho sbagliato e sono salito fin al grande torrione che simpaticamente ho ribattezzato “il naso di Smugg” per via del il grande tetto “a naso” che lo contraddistingue. Ho attraversato il canale franoso che attacca alla base della parete e raggiunto la successiva cresta erbosa. Oltre il crinale mi si è spalancato davanti un universo di canali e strapiombi di cui neppure immaginavo l’esistenza. Il vento che soffiava da nord aumentava, e di non poco, l’ansia di trovarsi da solo in posti luoghi così remoti, complicati ed aerei. Curiosamente in quel momento Ivan Guerini mi ha mandato un “what’s-up”: “Biriz, quanti chiodi ti sono rimasti per domani?”. Gli ho risposto che ero impegnato inviandogli però una foto della cresta davanti a me. Un gesto semplice, forse, ma che è riuscito ad alleggerire (e di non poco) la tensione di quell’isolamento: “qualcuno ora sa dove sono”.

1-dscf7398La mia cresta erbosa, oltre ad essere sbagliata e temibilmente in ombra, sembrava morire in un salto roccioso molto alto. Così ho riattraversato il canale inseguendo il sole ed il conforto del bosco. Tutavia avevo scoperto abbastanza per fare un ulteriore tentativo su una cresta promettente, dove paglione e betulle sembravano invitare verso una strada sicura. Sotto di me la cresta, ora ben visibile ed ancora illuminata dal sole, scivolava infatti verso la casotta. Tuttavia il crinale impenna in un significativo dislivello, tutto da decifrare, dove il paglione si mischia a piante e roccette a sbalzo verso il canale. “Qui si salta un po’…”

Esplorare in discesa è un vero casino, il rischio di scivolare si somma all’impossibilità di valutare i salti di roccia fino quando non ci arrivi a ridosso: bisogna essere davvero cauti e prudenti perchè il rischio del “tuffo” è in agguato. “Sì però, Birillo, dall’alto non si vede davvero un ostia!” In qualche modo mi abbasso tra le piante disarampicando su roccette esposte ma solide. Senza cadere, ovviamente, cerco di arrampicare fuori dal paglione per riuscire ad orientarmi nella discesa.

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Poi succede qualcosa di assolutamente imprevisto. Aggrappato a degli speroni mi muovo per raggiungere una comoda cengia erbosa su grosso sasso. Quando però carico il piede sull’erba della cengia questa crolla all’improvviso: quello che sembrava un grosso sasso coperto dalla terra è in realtà due massi incastrati su un canale, l’appoggio si trasforma in un buco, in una trappola. La gamba sinistra precipita nel buco fino a metà coscia mentre io piombo di schianto con il gomito e con il petto su uno dei due massi: il panico!

Per un istante rimango raggelato, solo all’ultimo mi ero reso conto della situazione e solo fortunatamente ero riuscito a reagire con abbastanza prontezza perchè la gamba non andasse in torsione. “Puttana eva!”. Avevo sbattuto duro ma avevo impedito che il corpo sbandasse facendomi precipitare o spezzandomi la gamba nel buco. Una stramaledetta trappola assassina: se avessi rotto la gamba in quel punto della montagna sarei stato davvero fottuto oltre limiti accettabili…

La gamba, a penzoloni nel vuoto tra i due sassi, è fortunatamente intatta ma lo spavento è stato una mazzata. “Stramaledetto buco!” Per qualche istante la mia mente pensa solo ad “fuggire” dalla montagna tornandomene in fretta sui miei passi. Poi però mi acquieto e la mente, quasi in automatico, trova i passaggi successivi. “Forza, tirati su: se risolvi queste roccette lassotto sembra esserci persino una specie di sentiero”.

Riprendo a disarmpicare cercando di infilarmi tra diedri e canaletti maledendo la mia incapacità di “vedere il trucco” che probabilmente rende possibile vincere quel passaggio con maggiore facilità. Finalmente sono di nuovo sulla cresta erbosa ed in men che non si dica raggiungo la tanto agognata casetta. Il punto di osservazione attorno a me è incredibile: è pieno di cose che non avevo mai visto! “Ma quelle placche son roba vera?!?”

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Mi guardo intorno felice e, proprio in quel momento, succede un’altra stranezza inattesa. Mi vibra il cellulare e mi arriva un’email. Già, sto in un posto fuori dal mondo e mi arriva un email! Mi scrive infatti Giuseppe, che ancora non conosco, perchè dopo aver letto il mio articolo su “Cima” (“Sequesto è un uomo“) voleva condividere con me le sue esplorazioni di quella zona ed il modo che aveva scoperto per raggiungere proprio la casotta davanti a cui mi trovavo in quel momento. La tempistica era quasi surreale e rendeva quel fortuito incontro a distanza ancora più speciale. “Sì Giuseppe, dalla casotta si possono vedere davvero una miriade di altri luoghi interessanti dove poter curiosare: ben volentieri spero di esplorarli insieme!”

1-dscf7449Divertito dall’accadimento volevo lasciare un regalo anche allo sconosciuto amico che si prende cura della casotta. Volevo lasciargli una testimonianza ma allo stesso tempo volevo rassicuralo che non avrei turbato la riservatezza e la serenità di quel posto che di diritto gli appartiene. Così, infilandolo attraverso la feritoia della porta in legno, ho appoggiato sulla piccola panchina all’interno uno degli adesivi dei Badgers, fermandolo poi con un piccolo sasso perchè non volasse via scosso dal vento. Visto dove si trova il suo rifugio segreto ha di certo le carte in regola per essere uno dei Tassi del Moregallo!

La via del ritorno, ora in salita e partendo da un punto noto, è stata di gran lunga più semplice e la sottile traccia mi ha insegnato molti trucchi per aggirare i tratti esposti che avevo percorso in discesa. Superate le rocce il sole illuminava di rosso il paglione giallo scosso dal vento del nord, le difficoltà erano finite e potevo abbandonarmi alla bellezza del Lario, al fascino selvaggio del Moregallo nei colori dell’autunno: non male come giretto!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Gigi Cadorna

Gigi Cadorna

1-dscf7309Quando apro gli occhi nella mia testa inizia a suonare la sigla di Bojack’s HorseMan: il suo ritmo galleggiante, i suoi suoni ovattati ed i suoi slanci di Sax guidano i miei pensieri mentre assente cerco di svegliarmi. Bruna sta preparando il caffè mentre la mia realtà scorre ondeggiante davanti ai miei occhi ancora a mezz’asta. Bruna appoggia un bigliettino accanto alla mia tazza: è il suo calendario dell’Avvento per me, ogni giorno una piccola poesia. Già …e nella mia mente la musica continua a suonare: se non avete mai sentito la sigla di Bojack dovreste ascoltarla, è roba potente, può cambiarvi la giornata. (Bojack’s HorseMan MainTheme).

Due ore più tardi siamo io, Bojack e Sguero avvolpacchiati al caldo sole di Dicembre mentre un tripudio di luce irrompe sui colori caldi dell’autunno e sulla roccia intensamente bianca. La musica continua a suonare nella mia testa e l’universo mi scivola attorno nella più assoluta serenità. Davanti a noi la grande Valle Proibita mostra in un dipinto d’insieme tutte le sue strutture rocciose, i torrioni e le bastionate che abbiamo esplorato in questi lunghi mesi. Un curioso compiacimento saltella tra i miei ricordi mentre riconosco le varie vie e le varie esplorazioni fatte. A volte serve un certo distacco per riconoscere la meraviglia in cui si è immersi: “Ma dai… ma guarda che accidenti abbiamo fatto! Non mi pare neppure vero: guarda che bei posti visti da qui!” Già, perchè da vicino spesso erano stati piuttosto inquietanti…

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Io continuo ad oscillare la testa rapito dal suono del Sassofono mentre Sguero mi indica una bella muraglia bianca, un piccolo tetto rimontato da una spaccatura verticale netta ed intrigante, che si perde in uno sbuffo di concrezioni come zucchero caramellato sul compatto calcare bianco. “Birix, facciamo questa fessura. La roccia è assolutamente compatta e possiamo forzare un po’ il grado, così a Valmadrera non potranno più dire che sei bravo solo nella mastrufolata”. Ivan ride, io anche. La mastrufolata è l’antica e segreta arte di arrampicare aggrappandosi ai ciuffi d’erba. Io onestamente sono cintura nera in questa disciplina ninja e, ve lo garantisco, questo mio talento mi rende molto più orgoglioso di ogni tecnica avanzata di arrampicata ad incastro fino ad ora appresa.

Sguero parte innalzandosi sotto il tetto ed incastrandosi con i piedi a rana sotto l’imbocco della fessura. Io e Bojack, sempre accompagnati dal Sax, siamo appoggiati comodamente al sole manovrando con il reverso. Fosse per me avrei fatto il giro, ma le fessure ad incastro sono il pane di Guero, e lui sale con la solita classe e disinvoltura. Io, in qualche modo, cercherò di passar sù, ma per il momento sono ancora immerso nella rilassatezza più profonda: oggi niente cose terribili, oggi giornata di relax.

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Poi tocca me …e la mia rana sembra più un rospo. Nel mio zaino ho le mie scarpe, quelle di Sguero, e probabilmente anche gli zoccoli di Bojack: sbandiero come un disperato ma nulla riuscirà ad incrinare la mia quiete interiore. Nei due metri centrali della fessura c’è però da galoppare perchè il passo è una legnata fisica sulle braccia senza troppe scappatoie per i piedi. Spingo, sbuffo, sbraccio, ma in qualche modo approdo alla spiaggia di concrezioni caramellate. Salvo. Già, il Sax riprende a suonare ed io a ballare con la punta dei piedi sui graspoli concrezionati. Il sole illumina ogni cosa: forse è vero, a volte l’arrampicata è anche rilassante (quasi piacevole come una mastrufolata sulle pendici del Moregallo …quasi)

Il tiro successivo è un muretto seguito da un piccolo traverso tra le “fresche frasche” (leggisi: rovi) che conduce alla base di un diedro ragguardevole. Ivan si ingarella, si incastra, si alza e prova friend che saltano come trottole impazzite ogni volta che li carichiamo. Già, perchè Sguero non solo riesce a tenere posizioni impossibili, ma mentre lo fà carica anche i friend in modo che io possa testarli mettendo in tensione la corda. Il cuore del diedro si sbriciola ed i friend volano allegri mentre il mio vecchiaccio se ne resta ben saldo al suo posto. Visto che i friend non stanno passiamo ai chiodi: il guaio è che entrembi i due folti mazzi di chiodi li ho io all’imbrago e quindi iniziamo un piccolo numero da circo acrobatico, con tanto di lancio dei coltelli al trapezio. Ci vogliono un po’ di tentativi, i chiodi volano un po’ da tutte le parti sulla nostra cengia erbosa, ma alla fine il “Nostro lassù” è finalmente adeguatamente rifornito.

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Dopo il diedro è la volta di una bella cresta tonda: “Birix: aspetta che provo a trovare un passaggio che sia un po’ meno marcio” Appeso ad una pianta, con un filo d’erba tra le labbra, sospiro serenamente rassegnato: “Beh… quindi comunque vada: marcio è marcio…” Cosa volete farci: fessura da collezione, diedro intenso ma solido, come poteva finire se non in vacca sul muschio che tiene insieme la roccia? Splende sempre il sole nella NoSpitValley…

Finalmente sulla cima ci abbandoniamo al sole ben comodi sulle rocce. Siamo in anticipo e per una volta ci godiamo il panorama chiacchierando tranquilli con i piedi a ciondoloni “Hey Sguero, ma lo sai che l’altra sera gli AsenPark mi han fatto saltar su sulle cassette impilate? Ma anche ai vostri tempi facevate ‘sti giochi da mona?” Pare che alcune cose non cambino mai… Approposito: lo sentite anche voi questo suono galleggiante accompagnato da un sassofono?

Davide “Birillo” Valsecchi

Sequestro è un uomo

Sequestro è un uomo

19-1-dscf7245La testa mi scoppia e gli occhi sembrano implodere. Mi sono infilato sotto una doccia calda ma senza risultato, steso sul letto in mezzo ai gatti mi domando se sto per morire. Tutti gli esami dicono che sono sano come un pesce ed in discreta buona forma per un quarantenne, ma quando la testa inizia a martellare mi sento appeso ad un filo che si spezza. Forse il corpo è sano ma la mia mente sembra voler fuggire, scappare inorridita da una realtà che non riesce più a comprendere o tollerare. Curiosamente sono questi i momenti in cui ho più paura di morire …e spesso ci ho anche provato: ho chiuso gli occhi anche se avevo paura di non riaprirli più, ho cercato sollievo, ho sognato di ricominciare tutto da capo, in modo nuovo, lontano. Ma nulla: ero ancora vivo ed avevo ancora il mal di testa. Nessuna soddisfazione.

Così come uno zombie mi sono alzato dal letto, ho cercato di infilarmi dei vestiti caldi, un berretto e sono uscito di casa. Il mio riflesso nella porta a vetri era la sentenza peggiore sul mio stato. “Sei ridotto uno straccio!!” Camminavo disorientato, quasi confuso ed assente. Riuscivo solo a pensare al ritornello di una canzone “Where is my mind?” dei Pixies. Dov’è la mia mente? Già, dov’è la tua mente Birillo?

Dal sentiero del vivaio, quello che passa davanti alla stalla del Don Guanella, volevo raggiungere il sentiero che risale da Parè verso il Sasso Preguda. Speravo che il sole d’inverno, il colore delle foglie ed il vento cristallino e grigio delle Grigne riuscisse a scuotermi, a trattenermi mentre scivolavo via. Mi muovo come uno di quei milanesi che affollano le statistiche del Soccorso Alpino, una voce dentro di me urla disperata “…vai alla chiesetta e torna a casa, non fare nient’altro!” Ma ad una svolta del sentiero tiro dritto, come uno stalker che con indifferenza si infila dietro le quinte puntando ai camerini.

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“Non sei lucido, traballi …e siamo a sbalzo sulle case di Parè. Dove stai andando? Dove hai la testa?” Ma il mio viaggio è una sequenza confusa e sconosciuta di crinali che come pagine di un libro scorrono verticali sul vuoto del lago, l’azzurro delle pareti, il giallo del riflesso del sole. Erba, roccia, alberi ed una gravità imperante: io no, ma il mio corpo sembra sapere esattemente cosa fare, muovendosi con leggerezza ed infito tatto.  Supero un primo canale mentre le barche bianche ondeggiano sotto le mie gambe: Parè è ormai lontana, sotto di me solo la cava. Ogni crinale è un’incognita ma la mia mente sembra incuriosita: sembra un bambino che all’improvviso smette di frignare davanti ad una nuova meraviglia da scoprire. Il mio corpo sembra cambiare, il mio passo rinsaldarsi, il mio sguardo aprirsi. Punto verso nord in un interminabile traverso e la mia mente, scossa dalle difficoltà, è nuovamente viva e vivace, padrona del momento. Osservo l’affascinante abisso che sprofonda verso il blu del lago: “Buongiorno Birillo!! Rischiavi di non svegliarti oggi…”

Poi giungo alla cresta che delimita la prima grande ed inaccessibile valle che sovrasta la vecchia strada del lago. Sono da qualche parte sotto il sasso di Preguda, esattamente dove mi ero promesso di arrivare molti mesi fa esplorando dall’altra riva del lago sul San Martino: la base delle costole oblique! Il canale ritorto! Forse la mia mente non era spenta, forse ero io che mi ostinavo a non seguirla mentre lei sapeva benissimo di cosa avevamo bisogno.

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Quelli del Cantiere navale e della cava hanno bloccato e recintato la strada costiera inibendo completamente l’accesso a quella zona (di per sè terribilmente inacessibile) del Moregallo. Di fatto la nuova galleria (e ve la raccomando a piedi!) è il solo modo per aggirare questo blocco improprio: nemmeno lungo la riva è oggi possibile passare (ed hanno messo pure le telecamere!). Il dito medio della mia mano sinistra si alza di concerto con il ghigno compiaciuto che appare sul mio viso: “Bastardi! Ho finalmente trovato il modo di dare il giro alle vostre recinzioni del cazzo!!” Sì, ora sono decisamente sveglio.

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“Bene, Robin Hood, ora che hai aperto il passaggio a Nord-Ovest come ce ne andiamo da questo guaio?” Bhe, di solito la soluzione è sempre quella: verso l’alto! Cos’ risalgo un po’ di roccette cercando di trovare i passaggi più solidi e meno esposti. Lecco è così lontana, ma forse persino bellina con i suoi ponti nella bassa luce dell’inverno. Trovo una specie di canale tra due strette creste rocciose, ci sono un paio di piante nel canale e questo trasforma quella spaccatura in un “ascensore” verso l’alto. Quando ritrovo la cresta sono rapito dalle belle maniglie rocciose che ne adornano la forma. “Lo so! Lo so! Non dovrei! Ma mi sporgo solo un pochino, solo un istante!” Afferro le prese migliori e piazzo piedi e baricentro ben piantati a terra, poi, guardo oltre: un muro verticale di erba e placche. “Spettacolo!”

La valle è formata da diversi canali: ne studio le forme, i salti, le vulnerabilità, i passaggi. “Secondo me si riesce sia a risalire che ad attraversare!” La parete del Tempo perduto è lontana, nascosta dietro una cresta che è ancora tutta da scoprire: niente di quello che osservo appare tra le pagine dell’Isola senza Nome. Ma lassù, dove ancora non so come arrivare, appare ben visibile una vecchia casetta in sassi: “Dannazione, guarda dove hanno costruito i vecchi!”

La mia mente ora tracima di fantasie ed idee. Un’ultima rampa e sono al sasso Preguda per un ultimo sguardo alle Grigne. Viviamo in un mondo buffo: “Birillo, anche oggi ti sei rapito da solo (e nessuno è venuto a pagare il riscatto!!)”

Davide “Birillo” Valsecchi

Introduzione all’alpinismo Invernale

Introduzione all’alpinismo Invernale

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Due cordate impegnate nella prima salita invernale della cresta Sud del Pizzo Coca, nelle Alpi Orobie (foto S. Calegari)

Dicembre 1968 – Chiedendomi di scrivere qualcosa sull’alpinismo invernale l’amico Luciano Viazzi mi ha messo – certo senza volerlo – in imbarazzo. Si tratta, infatti, di un argomento complesso e molto, molto vasto (basta considerare la mole – quattrocento pagine – del mio libro “L’alpinismo invernale dalle origini ai giorni nostri”, uscito proprio in questi giorni per i tipi dell Baldini & Castoldi). Un discorso sull’alpinismo invernale interessa una serie di temi e di problemi diversi (taluni dei quali dibattuti, e causa di polemiche), che non è certo facile schematizzare e sintetizzare: perché si pratica questa forma di alpinismo? Come è nato l’alpinismo invernale, e quando?  Quali le caratteristiche ambientali e climatiche in cui esso si svolge? E d in quale periodo di tempo lo si può praticare (d’inverno, d’accordo ma bisogna considerare obiettivamente cos’è e quanto dura l’inverno alpino)? E ancora, quale equipaggiamento ed attrezzatura sono necessari all’alpinista invernale moderno?

Una serie di quesiti cui hanno risposto – un po’ per uno, e ciascuno a modo proprio – gli oltre duemila alpinisti che, compiendo delle “prime invernali” sulle Alpi e sugli Appennini, hanno scritto la storia dell’alpinismo invernale fino ad oggi.

Comunque, considerata l’estrema attualità dell’alpinismo invernale (che oltre di stagione è anche di moda ora) ed il suo innegabile interesse, possiamo almeno cerca insieme di avvicinare questo multiforme argomento esaminandone gli aspetti essenziali

La pratica dell’alpinismo invernale ebbe inizio nel 1832 nell’Oberland Bernese ad opera del professor Hugi il quale, per verità, salì in montagna per studiare il movimento dei ghiacciai nella stagione invernale. Poi però, presoci gusto, tentò niente meno che l’Eiger! Trent’anni più tardi anche Kennedy affrontò d’inverno l’alta montagna: ma col solo intento di evitare le scariche di pietre che battevano i fianchi dell’allora inviolato Cervino.

Nel frattempo, però, Simony e Francisci avevano raggiunto, da soli, le cimi del Dachstein e del Klein Glockner. Gli alpinisti, ora, percorrono l’alta montagna invernale alla ricerca del nuovo: nuovo ambiente, nuove difficoltà, nuove sensazioni. A questo punto, e cioè fra i quattro episodi iniziali che restarono isolati e le imprese degli inglesi nell’Oberland e nel Delfinato (Moore e Walker, nel 1867), che segnarono l’inizio della conquista invernale sistematica delle Alpi, si colloca la prima ascensione invernale italiana. Protagonista il valdostano Antonio Laurent, che sa solo salì alla Testa Grigia nel 1864 (cioè dieci anni prima dell’impresa di Vaccarone, Martelli e Castagneri all’Uia di Mondrone, fino ad oggi ritenuta erroneamente la prima invernale italiana).

Lo sci- alpinismo nacque nel 1893 e contribuì in misura notevole alla conquista invernale delle Alpi. Ma, esaurita nel periodo tra le due guerre la sua impronta esplorativa, esso prosegue ora limitandosi al percorso degli itinerari più remunerativi già noti.

L’alpinismo invernale è nato sulle alte Alpi ghiacciate, e solo più tardi si è diffuso verso oriente, dapprima nelle Alpi Centrali, poi sulle Prealpi ed infine nelle Dolomiti: ed è naturale, perché sui colossi di ghiaccio gli alpinisti erano abituati alla neve che, viceversa, in Dolomiti non è certo un elemento fondamentale del paesaggio e dell’arrampicata. Viceversa, l’alpinismo invernale su grandi difficoltà, nato sulle Alpi calcare austro-tedesche ed affermatosi sulle Dolomiti – in due tempi: 1938 (Kasparek e Brunhuber) e 1950 (Buhl e Rainer) – si è poi esteso ai grandi itinerari in alta quota della Alpi Occidentali.

“L’alpinista è un vagabondo” ha scritto Mummery: e scarseggiano ormai le novità in fatto d’alpinismo, ecco che le scalate invernali consentono ancora di vivere l’avventura. Anche se, in fondo, le invernali sono soltanto scalate effettuate in particolari condizioni (taluni itinerari, infatti, posso rivelarsi più impegnativi in estate che non in inverno). Innegabilmente, però, l’alpinismo invernale ha contribuito ad un rinnovamento dell’alpinismo moderno, ampliandone il terreno di gioco che andava esaurendosi, affinandone la tecnica (anche in funzione dell’attività extra-europea), ed avvicinando fra loro, almeno al vertice delle difficoltà, gli opposti indirizzi di scuola “orientale” ed “occidentale”.

Le scalate invernali – si sa – richiedono una preparazione, un impegno (ed un equipaggiamento), certamente maggiori che non nelle estive: così, l’alpinismo invernale rappresenta il vertice della attività alpinistica ed insieme una magnifica e seria palestra di formazione.

La valutazione dell’impegno richiesto da una scalata invernale, a parte ogni altra evidente considerazione, deve spesso tenere conto dei problemi relativi all’accesso ed alla via di discesa perché, in inverno, la montagna può mutare aspetto profondamente. Così, anche la valutazione delle difficoltà tecniche può riservare, d’inverno, delle sorprese. Come sui versanti settentrionali, dove vie di roccia di 4° grado “estivo” si tramutano in vie di temibile “misto”. Ed allora è indispensabile che l’alpinista conosca profondamente tutte le caratteristiche dell’inverno alpino, onde prevedere le condizioni della montagna invernale.E qui si innesta un altro discorso: quello relativo alla delimitazione del periodo di tempo valido per l’attività alpinistica invernale. Purtroppo, sono discorsi troppo lunghi per essere riassunti qui in poche righe… Oggi, inarrestabile progresso della tecnica alpinistica ha trovato nelle scalate invernali un banco di prova formidabile: purchè non prevalga lo sterile tecnicismo! E se non si accettano i chiodi ad espansione, il cordino per il rifornimenti dalla base, il finanziamento pubblicitario delle imprese a lungometraggio, il “sistema” di tipo himalayano, se ci si vuole fermare insomma ai cosiddetti “sistemi tradizionali”, allora l’alpinismo invernale (e l’alpinismo stesso) è finito?

Io non credo. Perché, ad esempio, nel 1964 i 1700 metri della famosa parete orientale del Watzmann sono stati percorsi in invernale da una comitiva di ben cinquantasei alpinisti. E perché, sempre ad esempio, c’è ancora una parete Sud del Cervino che attende i suoi conquistatori…

Ercole Martina

Dicembre 1968 – Articolo pubblicato su “Rassegna Alpina”.

L’Asino chiama, il Tasso risponde

L’Asino chiama, il Tasso risponde

1-dscf7174E’ appollaiato sulla dodicesima cassetta impilata che mi rendo conto di quello che sto facendo. Dall’alto la colonna mi appare assolutamente inclinata, fuori controllo: fuori baricentro muovo tutto il peso fuori asse tentando di mantenerla in equilibrio. Provare ad aggiungere una cassetta ormai per me equivale a precipitare.

Per un istante mi sento come il Dottor Sam Beckett di Quantun Leap: «Che diavolo sono venuto a fare quassù? Ed ora come scendo!?»

Questo è l’annuale party degli AsenPark, l’Animal House per l’alpinismo del Lario Orientale. Ai piedi della colonna, con il naso all’insù verso un anziano Birillo incrodato sulle cassette di plastica dell’acqua minerale, c’è una platea di giovani arrampicatori, sciatori ed alpinisti. Berna ed il Tarlo ne hanno impilate venti: chissà, forse mi serviva un’altra birra per aggiungere la mia tredicesima. “Ciò che non riesce ad andare su deve per forza andare giù”. Speriamo che Gandalf tenga! Volo, la colonna crolla, cassette schizzano in ogni dove mentre resto appeso ad uno stravagante imbrago da lavoro! Accidenti! In dodici mesi è la seconda volta che volo: l’altra era sulla nord del Moregallo, ma la strizza è la stessa!

“Accidenti che agghiaccio! Andiamo a bere!”. La catarsi è compiuta, si accendono i falò, attaccano la musica e si riempiono i bicchieri: ora si inizia davvero a fare festa!   

1-dscf7217La mattina successiva è intrisa d’erba fradicia sulle pendici del Moregallo, ogni passo trasuda di quell’intruglio che è il “220”, una magica pozione composta da vino bianco, campari e gin che noi sull’Isola chiamiamo “Coppa Aurora”. Abbandoniamo il sentiero del Cinquantenario Osa per inseguire tracce ormai quasi dimenticate che si immergono sui fianchi delle valli più nascoste. “L’asino chiama ed il tasso risponde”. Lontano dagli uomini, sotto lo sguardo dei Mufloni, gli animali del Moregallo si scambiano i segreti pazientemente carpiti alla montagna selvaggia.

Vecchi casotti, scolorite indicazioni e passaggi insospettati per mille metri di dislivello fuori sentiero: gli animali dell’Isola hanno la loro arca di Noè.

Davide “Birillo” Valsecchi

La conquista del Cervino

La conquista del Cervino

dscf8868Il Cervino è una piramide strana, unica nelle Alpi. La sua cima di gneiss alta 4478 metri è sostenuta da quattro creste regolari separate da quattro pareti che dominano ghiacciai tra i più importanti delle Alpi. Visto da Zermatt, il Cervino è una splendida cima, una montagna ideale, una delle più belle apparizioni che un turista, alpinista o no, possa desiderare di vedere. A destra, la cresta di Zmutt urta in una sporgenza a forma di naso a strapiombo; a sinistra, la cresta del Furggen termina con scarpate incredibili, e queste due creste sembrano da sole riassumere tutto ciò che la natura possa offrire di grandioso ed equilibrato al tempo stesso. Bisogna poi aggiungere la cresta dell’Hörnli che sviluppa la sua architettura di precipizi su 1500 metri di altezza. Vista da Valtournanche, in Italia, la quarta cresta e la sua sporgenza, detta “della Becca”, danno alla montagna l’aspetto strano di un leone accovacciato.

Tra tutte le montagne, poche incarnano meglio l’idea di una cima inaccessibile ed ostile la cui vista soltanto basta a scoraggiare i più audaci. Per molto tempo guide di Zermatt, guide del Breuil, viaggiatori, alpinisti attraversavano il colle del Théodule, a piedi dalla cresta del Furggen senza immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui un uomo avrebbe potuto vincere quella terribile cima.

Quest’uomo fu Edoardo Whymper. Nel 1860 questo giovane inglese era una disegnatore sconosciuto. Cinque anni dopo, era divenuto il più famoso, ma il più disgraziato degli alpinisti del suo tempo. Il suo primo contatto con il Cervino decise della vita dell’artista e della sorte della montagna.

Whymper apparteneva a quella specie di uomini che in una battaglia vedono solo il successo; la montagna però non mancava di buone difese ed era così forte da poter sostenere un lungo assedio. Whymper dedica il 1860 all’esplorazione dei dintorni; la cresta italiana del Leone, la cui pendenza generale è minore, gli sembra la via più propizia per un tentativo. Fin dall’inizio del 1861, parte in compagnia di un abitante della Valtournanche, il solo che abbia potuto convincere ad un’impresa di tal genere.

Alla Cheminéé, primo serio passaggio che supera solo a prezzo di grandi difficoltà, il compagno dell’inglese si rifiuta di proseguire. La delusion è l’epilogo della prima di una lunga serie di avventure. L’anno seguente Whymper guida quattro tentativi con alterna fortuna; essi falliscono sia per il cattivo tempo o per le difficoltà, sia a causa di ciò che il tenace inglese chiama un tradimento: lo scoraggiamento dei compagni. Ma whymper progredisce sempre; egli diviene un alpinista più esperto ed impara a conoscere gli uomini che come lui hanno gli occhi rivolti alla montagna, quelli che saranno i suoi alleati o i suoi nemici.

Tra essi si trova Jean-Antoine Carrel, guida della Valtournanche, montanaro perfetto, scalatore audace, nobile cavaliere delle Alpi, e che considera Whymper uno straniero senza alcun diritto sul cervino, su quella montagna, cioè, elevata da Dio in fondo alla Valtournanche per essere conquistata da un italiano. Carrel diffida l’usurpatore, mentre l’inglese non è meno irritato dalle inesattezze e dalle fantasie del montanaro.

La loro rivalità, tuttavia, non esclude l’amicizia e la stima, e i due hanno in comune la stessa tenacia e la stessa certezza nella vittoria finale. In Valtournanche, Whymper aveva un altro amico nella guida Luc Meynet, il quale, nonostante la sua disgrazia – era gobbo -, lo aiutò e lo seguì con coraggio e bravura, non alla ricerca della gloria, ma solo della soddisfazione di avere dato un valido contributo.

Con lui Whymper effettuò parecchi tentativi che non ebbero maggior successo dei precedenti e che furono anche superati da quello di Tyndall, nel 1862. Nel 1863 e 1864, l’inglese diede la misura della sua coraggiosa ostinazione accingendosi a nuovi tentativi. Nel frattempo, Whymper aveva trionfato in numerose ascensioni e dopo aver scalato gli Ecrins e l’Aiguille d’Argentières, attraversato il colle del Dolent e il Moming Pass, egli si unisce alla più celebre guida del momento, Michel Croz, nativo di Argentières, l’uomo dal cuore di leone, famoso per la sua forza ed il suo ardore. Nel mese di luglio del 1865, mentre le nevi si sciolgono ancora sulla montagna, tutto è pronto per l’ultimo atto. Whymper ha appena compiuto un tentativo in compagnia di Croz, di Biener, e di Almer ed è convinto di una cosa: per la sua forma, la sua struttura, la cresta dell’Hörnli è la via migliore. Ma se Michel Croz ha un impegno a Chamonix, ove Whymper lo segue. Separato dalla sua guida favorita, Whymper effettua la prima ascensione dell’Aiguille Verte, che aumenta la sua fama.

Appena ottenuto questo successo, decide di ripartire per Zermatt e il Cervino, dove lo attende una delusione: Biener e Almer rifiutano di partecipare ad un tentativo. Whymper riesce ancora una volta a convincere Carrel, ma il suo vecchio rivale non è affatto entusiasta nella scelta di una strada che non è situata in territorio italiano. All’ultimo momento, Carrel adduce impegni precedenti e Whymper si trova solo, senza una guida del Breuil da poter ingaggiare.

Una luce di speranza subentra alla sua collera quando espone i suoi progetti a Lord Francis Douglas, che è appena arrivato con Taugwalder figlio. Decidono di recarsi a Zermatt, dove si assicurano i servizi di Taugwalder padre, partigiano dichiarato della cresta est. La speranza cede il posto all’impazienza allorchè Hodson, Hadow e Michel Croz, al ritorno da Chamonix accettano di unirsi alla compagnia. L’indomani, sette uomini decisi partono per il Cervino. Bisogna fare presto, perchè, dall’altra parte della montagna, Carrel e i suoi compagni sono già in cammino. Michel Croz e il vecchio Taugwalder sono montanari di eccezione, il reverendo Hudson ha già scalato il Monte Bianco ed il Monte Rosa in un tempo notevole, Douglas e Hadow sono robusti giovanotti di diciannove anni e Whymper ha già trascorso più di dieci notti su quella terribile montagna. La sera stessa, essi hanno già piantato un campo verso i 3350 metri ai piedi della cresta e passano la sera cantando. L’indomani, approfittando del bel tempo per accelerare l’andatura.

Sotto la guida di Michel Croz, le difficoltà non li arrestano. D’altra parte, come era previsto, nessun serio ostacolo si presenta lungo questa scala gigantesca, e, prima di dieci ore, la comitiva arriva verso i 4250 metri. Più avanti, bisogna guadagnare la Spalla con una scalata più ripida e una lunga traversata sulle rocce ghiacciate delle parete nord. E’ cosa da poco per l’abilità di Michel Croz e, alcune ore più tardi, essi calcano da vincitori l’ultima cresta e la neve della cima. Whymper e Croz vi arrivano insieme; la cima è conquistata molto più facilmente di quanto avessero immaginato. Ma sono i primi?

Divorato dall’impazienza, Whymper corre sulla cresta, soddisfatto di non notarvi alcuna traccia. Si china sull’abisso e lungo il pendio del versante italiano scorge gli uomini di Carrel. Grida, gesti, il fracasso di blocchi di roccia che vengono precipitati nel vuoto, lasciano capire a coloro che stanno salendo di aver perso la partita. La vittoria di Whymper e dei suoi compagni è ancora più completa di quanto si potesse sperare. Ognuno dà libero sfogo alla propria gioia. Con la camicia Michel Croz fa una bandiera che fissa ad un picchetto da tenda. A Zermat e al Breuil, la popolazione in delirio si prepara a festeggiare i vincitori. Per un’ora, essi si abbandonano al trionfo, assaporando l’ora più bella della loro esistenza. Infine, iniziano la discesa e, poco prima dei passaggi difficile della parte nord, si legano in cordata.

Ma il destino detesta gli eccessi di gloria: pochi istanti dopo si verificherà uno dei drammi più terribile dell’alpinismo.

Hadow fa un passo falso, Croz è rovesciato. Hudson e Douglas, tirati dalla corda, scivolano nell’abisso. Terrorizzati gli altri tre scalatori si aggrappano alla montagna e stringono la corda, che per una brusca scossa si rompe mentre i quattro infortunati precipitano nel ghiacciaio del Cervino, 1500 metri più in basso.

Il turista che percorre la valle del Viège non manchi di visitare il cimitero di Zermatt, dove la storia della conquista del Cervino è scritta in tutta la sua gloria ed in tutto il suoi dolore.

Tormentato, in preda al rimorso, Whymper devo affrontare il terribile problema morale che gli impone la morte dei compagni. Egli si dedicherà in seguito alle ascensioni extraeuropee e tornerà soltanto molti anni dopo sui luoghi dell’avventura che segnò così tragicamente le ore della sua giovinezza.

Tre giorni dopo Whymper, Carrel raggiungeva la cima. Ma nell’ombra del dramma la sua vittoria gli sembrò amara. Da allora sono state scalate tutte le altre creste e tutte le altre pareti, ma il Cervino resta sempre l’emblema del mistero e, per chi vede le nubi lungo i suoi fianchi, i suoi crepacci e le sue brecce, è assolutamente impossibile dimenticare il dramma della prima conquista.

Silvio Saglio

Enciclopedia “La Montagna” 1962

    

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