Mentre cammino squilla il cellulare: “Sei in montagna?” chiede mio padre. “Sì, sto andando al Palanzone con la squadra.” rispondo io. “Palanzone? Ma è roba da pensionati!” Abbozza lui “Già, da pensionati…” replico senza fermarmi mentre cammino nella neve vergine. Lui: “A che punto sei?” Io: “Bhe, sono a metà strada. Siamo partiti da Scarenna, mi ci vuole ancora un po’…” Lui: “Da Scarenna!? Ma sei fuori? Ci vuole una giornata da Scarenna!!” Io: “Già – sogghigno compiaciuto – in effetti è una roba da pensionati…“
Curiosamente alla maggior parte della gente che va in montagna non piace camminare: preferiscono gli avvicinamenti brevi, preferiscono “vincere facile” sbandierando nomi importanti. Tuttavia i “giovani” della squadra hanno “voglia” e, visto che questi ragazzi mi piacciono, era il momento di metterli un po’ alla prova.
Ho evitato le mete altisonanti ed ho puntato ad occidente. Da Scarenna alla cima del Palanzone, passando per la val del Buri e Dosso Mattone, sono più o meno 1200 metri di dislivello con uno sviluppo andata e ritorno di circa 18km: si viaggia sempre sotto i 1500 metri di quota ma c’era abbastanza neve per fare qualche esperimento e “battere” qualche traccia vergine.
“Non basta essere all’altezza delle difficoltà che si affrontano, bisogna essere superiori ad esse.” recitava il grande Paul Preuss. Per questo nel facile dobbiamo esercitarti con il difficile. Se non sei pronto ad affrontare setto o otto ore sulla neve tra le nostre montagne non sei pronto ad avventurarti per quattro o cinque ore a quote più alte. Il nostro territorio è un magnifico campo d’allenamento che dobbiamo imparare a sfruttare al meglio. Questa è come la vedo io.
Così come mi aspettavo la squadra ha “divorato” la salita. Solo il buon Fabrizio, che ha ancora il ginocchio mezzo scassato, ha avuto qualche problema. Tuttavia Andrea si è dato un gran da fare nel dargli supporto e tutta la squadra ha fatto quadrato come si deve. Grazie Marzio! Bravi!
In vetta il panorama era spettacolare e tutti erano ancora belli carichi. Scesi al rifugio Riella abbiamo fatto scorta di birre ed affettati pranzando tra i tiepidi raggi invernali di sole. Ogni uscita una festa: molto bene!
Visto che la collaborazione tra i soci del Cai Asso e del Cai di Caslino si fa sempre più proficua mi è sembrato doveroso che il nostro viaggio, iniziato da Asso, proseguisse appunto per Caslino. Quindi giù! Siamo scesi dalla Bocchetta di Palanzo fino al Foro Francescano e quindi in paese.
Il Cai di Caslino aveva organizzato una mostra fotografica e per questo la nostra squadra ha fatto tappa per salutare Gianni e gli altri amici. L’occasione è stata propizia anche per fare due chiacchiere con i Presidenti della sezione di Caslino e di Merone, sezioni a cui appartengono i giovani della squadra.
I “clan” della valle stanno stringendo nuove alleanze e spira un vento nuovo, frizzante e pieno di novità!
Dopo questo “aperitivo” credo che la squadra sia pronta per il “Gran Tour Invernale” e, sistemata qualche pecca nell’equipaggiamento, anche per spaziare oltre il lago. Bravi!
Davide “Birillo” Valsecchi
NB: Un grazie speciale a Claudia, anima e cuore della squadra, per aver scattato le fotografie e per aver portato la torta al cioccolato!!
«Siamo al Cerro Torre o ai Corni di Canzo?!» Una cascata di neve e ghiaccio rotola giù per la roccia verticale bussando innocua sul mio casco. Luca e Stefano, abbarbicati al ghiaccio sopra di me, se la ridono allegri mentre mi copro di bianco. No, non siamo in Patagonia ma lo scenario è davvero d’eccezione ed eccezionale. La ferrata del Venticinquennale ai Corni di Canzo è imbiancata ed in condizioni strepitose: roccia grigia colma di neve farinosa negli appoggi e di ghiaccio bianco negli anfratti e nei colatoi. Un autentico spettacolo!
Corno Rat, uno sperone di roccia posto sul versante Orientale del Gruppo dei Corni di Canzo. Non supera i 784 metri di quota: questo lo rende un “ottimo posto” quando è in inverno ed una specie di inferno rovente durante l’estate. La ferrata del Corno Rat è una specie di test, una prova o forse un’iniziazione. In particolare il primo tratto, che risale il Sasso OSA, è stata la bestia nera di più di un neofita e riesce ad esigere rispetto anche da chi ha qualche pratica in più.
Spesso è capitato di dover tirare un pezzo di corda per aiutare chi, lavorando tutto di braccia, si è ritrovato senza benzina e con le braccia di legno a metà del primo tratto.
Con la squadra saliamo fino a San Tomaso. Io sono mezzo addormentato e sprofondo nei miei pensieri lasciando che i passi si susseguano da soli fino all’attacco. Poi ci imbraghiamo, facciamo un rapido check ed iniziamo. Mi piazzo a metà del Sasso OSA e tengo d’occhio il primo gruppo. Francesco corre sulla roccia come una lepre mentre il buon Carlo, che ha qualche anno più di Francesco e me, arranca in un passaggio difficile: lo seguo stretto ed insieme risaliamo fino alla cima del Sasso Osa. Da lì, a rotta di collo per il sentiero, torno ai piedi della ferrata per dare supporto alla seconda metà della nostra squadra: “Hey Birillo! Guarda che il primo giro è gratis ma il secondo si paga!” mi urlano dalla parete.
Sono l’ultimo della fila ma la squadra avanza senza problemi. I “ragazzi” ormai se la cavano bene ed io naufrago nei miei pensieri lasciando che se la godano in autonomia: appoggio le mani sulla roccia ed inizio ad arrampicare. La roccia qua e là è un po’ unta ma arrampicando la ferrata si riempie di passaggi di tutto rispetto: c’è molto con cui divertirsi!
Alla fine siamo tutti in cima. Paola, alla prima esperienza, ha affrontato la ferrata supportata da Franco e, visto le difficoltà, se l’è cavata alla grande. Tornati a San Tomaso infiliamo i piedi sotto la tavola mangiando tutti insieme: festa!!
Mentre vi scrivo le montagne si stanno imbiancando di neve ed il tempo, ancora instabile, scrive e cancella i miei piani. I “Ragazzi” hanno voglia: Sabato o Domenica tocca portarli ancora da qualche parte. Stay Tuned!
Giovedì Mattia ed io eravamo in cima al Dito Dones per la Via Lunga quando ha cominciato a piovere seriamente: costretti a ripiegare ci siamo rintanati in trattoria a Ballabio abbuffandoci per pranzo. Visto che la giornata, sebbene umida, era ancora giovane abbiamo deciso di dare una svolta al pomeriggio: “se non possiamo arrampicare all’aperto allora arrampicheremo al chiuso”. Nel nostro caso la parola “indoor” non significa “palestra” ma “grotta”.
Visto che non c’era tempo per recuperare tutta l’attrezzatura speleo abbiamo deciso di concederci un diversivo esplorativo: le miniere abbandonate del Liscione.
Risalendo da Onno abbiamo lasciato l’auto poco distante dal Cosmopolitan ed abbiamo iniziato ad inoltrarci nel bosco: dopo un paio di metri nella boscaglia abbiamo trovato la carcassa fresca di una pecora. L’animale, probabilmente investito sulla strada soprastante, sembrava un vecchio materasso a brandelli tra le piante: “…come inizio non è affatto male!”
Il Cùrlasc, l’ascia curva, serviva per aprire la via tra i rovi e come picca da “extreme tooling” sulle roccette bagnate. Dopo una decina di minuti nel bosco incontriamo finalmente il primo ingresso. Le miniere erano sfruttate alla fine dell’800 per cavare cemento giallo. Il materiale estratto veniva calato fino alla rive del lago e traghettato sui Comballi verso Mandello e l’altra sponda dove veniva cotto.
Gli ingressi nella maggior parte dei casi sono crollati e monolitiche “fette” di roccia sono collassate creando intricati e spaventosi cunicoli ormai celati dalla vegetazione. “Ticca” alla mano e cascehtto sulla testa abbiamo infilato il naso in questi cunicoli iniziando la nostra esplorazione. Non statò a dirvi dove sono gli ingressi perché sono ormai davvero mal messi (statevene alla larga!), tuttavia appena ci si addentra i tunnel sono scavati nella roccia viva e diventano solidi come un rifugio anti-atomico. Molto presto, quando gli ingressi collasseranno definitivamente, queste “cavità segrete” diverranno un ricordo leggendario custodito nella montagna e, onestamente, lo trovo un peccato.
La valle adiacente è attraversata da un fiumiciattolo e da una magnifica cascata. Tutta l’area, sebbene circoscritta a monte e a valle da due strade, è estremamente “selvatica e selvaggia”. Le cronache raccontano che qui, negli anni ‘60/’70, un giovane pescatore di vent’anni perse la vita avventurandosi tra le roccette cercando di risalire il fiume: è un posto da affrontare con prudenza e testa.
Appeso per un braccio ad una roccia mi sono ritrovato a penzolare piacevolmente nel vuoto, un colpo d’anca ed ho piazzato in spaccata i piedi in un diedro viscido scendendo poi in opposizione: a volte i passaggi migliori vengono quando meno te li aspetti…
I tunnel erano alti quasi sei metri e si addentravano nell’oscurità seguendo il percorso della “vena” di roccia. Il più lungo effettuava un paio di curve e si estendeva per oltre cento metri (110m secondo vecchi rilievi). La fine del tunnel descriveva il modo in cui erano stati realizzati: prima si scavava una nicchia nella parte alta, probabilmente alzandosi con scale di legno, e poi si scavava verso il fondo asportando tutto il materiale. Raggiunto il pavimento si ricominciava l’opera guadagnando ulteriore profondità.
Sulle pareti concrezioni calcaree e l’effetto argentato e stroboscopico che alcuni reazioni chimiche creano nell’umidità. Un mondo nascosto, vecchio ormai di quasi 200 anni e che presto diverrà uno vuoto buio e dimenticato nel cuore della montagna.
Davide “Birillo” Valsecchi
NB: le miniere abbandonate sono in cima alla lista dei posti da cui converrebbe tenersi alla larga. Mi raccomando!
Se si ricerca sul Web informazioni su Erminio Dones si scopre che era di origine veneziana e che nel 1920, nei giochi olimpiadi di Anversa, conquistò la medaglia d’argento nel due di coppia di Canottaggio. Andando però a rileggere i diari di alpinisti eccellenti scopriamo invece anche la sua valenza come arrampicatore: scopriamo che era compagno di cordata di Eugenio Fasana(che battezzò il Sigaro Dones in suo onore proprio per una vittoria nel campionato europeo di canottaggio) e che anche Riccardo Cassin ebbe modo di elogiarlo proseguendo alcune delle esplorazioni che il “buon vecchio Dones” aveva iniziato su alcune pareti eccellenti ed inviolate del nostro territorio.
Le medaglie, soprattutto quella olimpionica, lo immortalano nell’ Olimpo del canottaggio, mentre a memoria dell’alpinista abbiamo la monumentale testimonianza del “Sigaro Dones” e del “Dito Dones”. Onestamente credo sarebbe davvero interessante sapere di più sulla storia di questo personaggio tanto poliedrico di inizio ‘900!
Mattia ed io, dopo aver reso omaggio a Fasana sul Sigaro la scorsa settimana, abbiamo deciso di fare omaggio anche al suo “socio” attaccando il “Dito”.
Tutta l’area adiacente al pilastro del “Dito Dones” ed alla scogliera dello “Zucco di Teral” è interessata da un recente crollo franoso (Gennaio 2013) ed è quindi in buona parte interdetta. Noi, un po’ come contrabbandieri, siamo sgattaiolati attraverso il fronte franoso raggiungendo l’attacco della “Via Lunga”: una via più recente tracciata nel 1995 dalla Guida Alpina Fabio Lenti e che conta circa 8 tiri di corda (un paio dei quali sono raccordi su terrazzi erbosi).
La via è molto bella, in alcuni punti la roccia è davvero fantastica ed appigliata mentre in altri è invece piuttosto “unta” dalle numerose ripetizioni. Il tempo era come al solito inclemente ma il freddo, soprattutto alle mani, non era così pungente come la settimana prima in Grignetta (c’è solo un tiro, uno degli ultimi prima del pilastro finale, che è particolarmente esposto al vento).
La Via Lunga è una classica molto bella di cui potete trovare lo schizzo dettagliato sul sito di paolo e sonja: DITO DONES e ZUCCO DI TERAL. Quando siamo arrivati in cima ha cominciato a piovere seriamente ed abbiamo dovuto accantonare l’idea di attaccare anche la via del grande Casimiro Ferrari allo Zucco di Teral.
Per scendere abbiamo avuto la malaugurata idea di percorrere la ferratina anziché calarci in doppia: come ha avuto occasione di rimarcare il sempre ottimo “Girabachin” quello è «uno dei tratti attrezzati più ignoranti del lecchese». Oltre a folcloristici pioli c’è infatti un tratto di cavo di sicurezza che, senza alcun frazionamento, scende direttamente a terra: l’unico ed apparente scopo di quel cavo è assicurare che si centri correttamente il pianeta Terra in caso di caduta (da evitare!).
Quando la squadra si mette in marcia una pioggerellina leggera sembra intenzionata a rinforzare, ma è solo quando mancano un paio di curve a Pianezzo che il cielo decide di darci una bella sciacquata. Mantelline e copri-zaini: risaliamo fino al rifugio della SEV barricandoci attorno alla stufa. «Bene Signori, oggi una lezione tra le più difficili: vita da rifugio!» Qualcuno, che se la ghigna, mi sfotte alludendo ai quattro giorni in cui sono rimasto bloccato alla Capanna Margherita. Alle volte capita…
Stipati sulle panchette facciamo saltar fuori dagli zaini cordini e moschettoni: «Bene, è ora di imparare un po’ di teoria, quelle quattro nozioni base che diventano oro quando la situazione rischia di diventare rognosa». Un giro rapido di presentazione per sua eccellenza il Mezzo Barcaiolo e suo cugino il Barcaiolo, nodo delle guide infilato e dell’amore, poi ci si tuffa sulla piastrina gigi passando per il prussik ed il machard. «Un nodo può essere fatto solo in due modi: giusto e drammaticamente sbagliato. Vediamo se indovinate quale dei due vi salva la pelle?»
La compagnia trascorre al caldo una piacevole ora gingillandosi tra asole e trefoli. Poi, quando sembra iniziare a spiovere, ci rinfiliamo le giacche e torniamo fuori tra la nebbia. Allegri, sebbene un po’ infreddoliti, attraversiamo fino al crocefisso di legno arrivando all’attacco della Ferrata del Venticinquennale. «Che si fa? Saliamo?» Domandano «Manco per sogno! La placca forse è abbastanza asciutta ma ascolta le tue mani: lo senti il freddo? Lo senti come l’umidità morde le dita? Con la roccia viscida devi lavorare tutto di braccia e ti garantisco che con questo freddo umido la catena e la roccia ti gelano via le dita in cinque minuti. Niente gambe e niente braccia: solo guai! Per affrontare la ferrata ora devi essere capace e devi pedalare come si deve. Se restiamo dentro più di un ora o qualcuno si blocca sono rogne vere e per tutti.»
Il tempo è stato spesso inclemente durante le nostre recenti uscite ma io credo sia stato un bene: con il sole tutto sembra semplice, la gente impara poco ed ancor peggio rischia di montarsi la testa. «Fidati, qualcosa per incasinarti la giornata la troviamo lo stesso.»
Così la comitiva, diligente ed entusiasta come sempre, riparte risalendo il ghiaione e costeggiando la base del Corno Occidentale fino a giungere ai piedi del Caminetto. «Bene, nello zaino abbiamo tutto l’equipaggiamento, visto che ce lo siamo portati fin qui è ben indossarlo. Imbraghiamoci e caschetto in testa. Questo è il caminetto, un tracciato su roccia EE, ossia per escursionisti esperti. Sono quaranta metri, ben appigliati ma quasi in verticale. E’ un secondo grado, forse terzo: con il bagnato va affrontato con testa e metodo.»
Uno alla volta tutti si infilano nello stretto camino risalendo tra le due ali di roccia fino alla cima del Corno Occidentale. Tutti insieme ci stringiamo insime alla croce di vetta per una foto mentre tutto attorno a noi è avvolto da una densa coltre di nebbia. Io ed i miei quattro “scagnozzi” ci concediamo una foto tutta speciale.
«Quello che va su deve tornare giù, preferibilmente tutto intero!» Con una corda da 50 attrezziamo una fissa che scende lungo il percorso affrontato in salita. Qualcuno si auto assicura con un nodo machard, lo stesso usato per le calate in doppia, mentre per chi è più titubante stendiamo una calata con una statica da 30. Mentre osservo Franco manovrare il barcaiolo non posso che apprezzare come, nonostante il cattivo tempo, tutte queste manovre siano un’esperienza anche più importante delle “semplice” ferrata. «Presidente, ti dirò, queste uscite sbarazzine mi piacciono parecchio. Stanno imparando molto e soprattutto tutta roba che torna sempre buona». Anche lui è soddisfatto di come abbiamo dato una svolta alla giornata. Certo, c’è un po’ di delusione per la mancata salita in ferrata ma la squadra è comunque entusiasta e la cosa mi galvanizza. La pioggia comincia a mischiarsi a spruzzate di neve ed i Corni diventano piacevolmente Alpinistici: mi piace!
Ritornati alla Sev ci infiliamo a tavola: brasato, coniglio, polenta e vino rosso. Mi piace anche questo! Il clima è di festa, si fantastica, si fanno piani e si raccontano storie. Per qualche ora sembra di essere tornati all’epoca d’oro!!
Poi smette di piovere, le nuvole si diradano e l’azzurro appare all’orizzonte. L’idea di assaltare la ferrata stuzzica ma, io per primo, ho dato troppa confidenza al vino per andar tranquillo con dei ragazzi alle prime armi. «Bene truppa: andiamo al Corno Orientale a smaltire il pranzo!» La passeggiata, quasi pianeggiante, ci porta a sfilare sotto la magnificenza della Parete Fasana e la bellezza dolomitica del Pilastrello. Alla croce apprezziamo finalmente il panorama dei corni in tutta la sua bellezza concedendoci un’altra foto di cima.
«Okay, ve lo siete meritato: vi mostro la segretissima grotta del tasso!» Inerpicandoci sulle pendici del Corno Centrale porto la squadra a vedere la grotta dove io ed il buon Fabrizio ci siamo spaccati le ossa scavando ed esplorando questa primavera. «Oh ma è una figata! Ma ci sei mai venuto a dormire qui?!» La grotta è orizzontale, alta una quarantina di centimetri ma abbastanza ambia da accogliere otto o nove persone sdraiate. «Ancora no, ma appena arriva la neve conto di testare il bivacco invernale.» Rispondo ammiccando. «Acqua in bocca su dove sta: è un segreto!»
Dalla grotta tagliamo attraverso le roccette fino a raggiungere il sentiero attrezzato che scende dalla dorsale del corno Centrale. Li osservo muoversi sulle catene, fare attenzione ai sassi e tenersi d’occhio l’un l’altro: hanno imparato bene, davvero bravi.
Mentre lasciamo Pianezzo alle nostre spalle il sole irrompe caldo sul Lario. «Dannazione, sto davvero invecchiando: domani sarà una giornata magnifica e a me toccherà stare in ufficio.» Il socio mi guarda e ride «Forse più che vecchio ti stai semplicemente civilizzando!». Forse… o forse no. Comunque sia: alla prossima!
Il Sigaro è indubbiamente fra le più tipiche architetture, è un monolito fasciato d’aria e di vertigine, con i fianchi regolari, dritto, snello, isolato come un campanile. Fu salito la prima volta l’8 agosto 1915 da Eugenio Fasana, Erminio Dones ed Angelo Vassalli. Il Fasana, che oltre ad essere un rocciatore famoso, è un piacevolissimo scrittore di cose di montagna, lo battezzò con nome del secondo di cordata, che aveva vinto il campionato europeo di canottaggio. Così Riccardo Cassin descrive il Sigaro Dones nel suo diario.
Inseguendo i passi di un’ antica figura leggendaria ne abbiamo incontrata un’altra appena più moderna ma assolutamente gigantesca!
Normale al Sigaro Dones, Grigna Meridionale, Grignetta per gli amici. Quando Mattia ed io appoggiamo le mani sulla roccia non è certo Agosto, la nebbia avvolge ogni cosa e sebbene l’aria non sia fredda la roccia si è fatta umida e gelida: oggi è il freddo alle mani è l’avversario da battere. A metà di ogni tiro siamo costretti a fermarci nel tentativo di scaldare le dita che, sempre più violacee, diventano insensibili e mal sicure. La roccia è magnifica, densa di maniglie, clessidre ed appigli, un vero paradiso per chi arrampica di braccia. Il freddo però ci costringe ad arrampicare lavorando bene di gambe e non dando troppo fiducia alle mani che, spesso insensibili, si chiudono a morsa quasi alla cieca.
«Porca vacca!! Che freddo alle dita!! Mica è divertente arrampicare in sta maniera. Possibile che riusciamo a complicarci anche le cose semplici?» Protesto allegro con Mattia che mi risponde sornione mentre recupera la corda. «Sono i Milanesi che ci vengono d’estate: qui di solito c’è la coda per salire. Oggi la montagna è tutta per noi». Già, guardandosi intorno in questa spettrale cattedrale gotica di guglie e nebbia si capisce anche perché siamo soli e perché la Grigna sia terra di confine tra il mondo degli uomini e qualcos’altro…
“Al sergente Alpino Angelo Vassalli, che amò i monti d’Italia e prode cadde sul Pertica. Il 1°dicembre 1917 l’amico e compagno di guerra e di gite alpine Erminio Dones in memoria pose 16-6-1924” Questo recita la targa posta sulla grande croce dipinta di rossa che sovrasta la punta del Sigaro. La montagna è un tempio ed un mausoleo, un dojo in cui gli allievi fanno l’inchino ai maestri prima di entrare. Forse non avrebbe neppure senso avventurarsi tra queste rocce senza rendere omaggio a chi ci ha preceduto: loro erano i “più forti anche della tempesta”, noi siamo solo i “figli del tuono”.
Dalla cima attrezziamo la doppia che scende per sessanta metri nel vuoto. Assicurato il discensore ed il Machard si fanno quattro passi all’indietro prima di essere completamente preda della gravità, prima di iniziare a mulinare tra le due grandi pareti di roccia verticale. Incredibile pensare che i “vecchi” scendevano da qui alla “marinara” con le corde di cotone. Quando tocco di nuovo terra alzo lo sguardo verso l’alto: le corde si innalzano verticali verso il cielo ed inghiottite dalla nebbia sembrano sostenute da una strana magia, la magia del “Fachiro Birillo”.
Dopo aver reso omaggio a Fasana Sensei, attacchiamo i Magnaghi. La via “Spigolo Dorn” risale lungo lo spigolo sud del Torrione dei Magnaghi Meridionale per poi infilarsi nel diedro della via “Canalino Albertini” e raggiungere la cima del torrione. Una vecchia croce, abbattuta ed accartocciata per terra, segna la vetta prima iniziare la discesa verso il “traversino” che permette di passare da un torrione al successive. Superato un passaggio obbligato aggettante si risale la cresta fina alla cima del torrione centrale.
Dalla cima del secondo torrione ci si abbassa arrampicando ancora in discesa e taagliando prima a destra e poi nuovamente a sinistra sulla piccola ferrata che porta alla Forcella Glasg (Gruppo Lombardo Alpinisti Senza Guida – altra scheggia di storia!).
Tralasciamo la via “Lecco” che, nonostante quanto fortemente credettero i nostri soci Luca e Stefano, non è affatto crollata in una nebbiosa giornata invernale di alcuni anni fa 😉
Attacchiamo invece la Bartesaghi. Lo storico riporta che «la via fu salita per la prima volta il 29 settembre 1957 da Angelo Longoni e Nino Bartesaghi. Per anni l’itinerario fu considerato privo di interesse e fu scarsamente ripetuto. Nel 2000 le guide alpine di Lecco in corrispondenza di un progetto di sistemazione delle vie classiche hanno provveduto ad aprire una variante d’uscita (Variante delle Guide) allungando così la “Bartesaghi”, che vantava uno sviluppo di soli 70 metri, di altre due lunghezze. Ora questa via è una valida alternativa all’adiacente “Via Lecco”.» (Sassbaloss)
Attraverso la spaccatura tra i due torrioni intravvedo i Corni di Canzo e la parete Fasana. Da quella angolazione quasi stento a riconoscerla ed il corno Centrale appare come un grande panettone verde solcato da questa strana e piatta conformazione rocciosa. Ero contento di vedere “casa” ma sospetto che ci fosse una punta di gelosia: attraverso la spaccatura tirava infatti un vento gelido e pungente!! La roccia era di nuovo tremendamente fredda e dovevo continuamente muovere le gambe per scaldarmi mentre facevo sicura. Anche Mattia era costretto a fermarsi spesso per scaldarsi le dita.
Quando è il mio turno risalgo fidandomi come non mai delle scarpette. Le mani sono andate, tengono ma onestamente non so perché, non sempre mi è chiaro come facciano presa sulla roccia. Sul passaggio chiave della via, un piccolo dietro con tettino, non c’è modo che le dita mi tengono per superare la pancia di roccia. Dovrei fermarmi, scaldarle e riprovare. Ma il tempo corre ed il freddo incalza. “Quando il gioco si fa duro anche i duri cominciano ad azzerare”.
Infilo una fettuccia in un chiodo ed urlo al socio «Blocca la gialla!». Tutto in opposizione con le gambe pendolo di un metro sulla destra e rimonto il tratto strapiombante a destra della pancia di roccia. La luce nella nebbia è cambiata, ora non è più bianca ma cupa e tetra: fa un freddo becco ed è tempo di mettere le ali al culo!
Sono un baro di professione ma il mio ruolo da secondo è quello principalmente di essere veloce. La scelta si dimostrata azzeccata: superato il tiro successivo siamo in cima al terzo Magnaghi, giusto in tempo perché finalmente inizi a piovere. Infiliamo le corde nello zaino, indossiamo la mantellina e ci concediamo qualche foto ricordo prima di darcela a gambe. Saltino del gatto e giù verso valle nel più classico degli scenari della Grignetta: buio, frontali, nebbia e pioggia.
La sentinella della Grigna ce l’ha fatta buona anche questa volta. Montagna bella ed assai crudele, ancora grazie, ora torniamo a “casa”…
«Guarda che spettacolo la mia maglietta dei Led Zeppeling!!» I ragazzi sono così: passano le generazioni, cambiano le sfumature, ma la “bella gioventù” resta sempre la stessa. Per me il loro sguardo pulito e la loro genuina volontà sono davvero uno stimolo corroborante.
Io sono 80kg per 1.75m ma in mezzo a questi quattro sembro un nanetto: tranne Francesco, che più o meno è della mia taglia, gli altri tre viaggiano sui 90kg e sparano verso l’alto dal metro e novanta ai due e zero cinque. Colossi dallo sguardo ingenuo!
Dallo loro parte hanno la gioventù, la vitalità e l’entusiasmo dei vent’anni, per contro difettano d’esperienza e malizia. Sono in un momento magico della loro vita, una “finestra” in cui l’esigenza di scoprire è pressante ed in cui è possibile tentare l’impensabile con la gioia nel cuore. Allo loro età io ero stato “arruolato” per il Pakistan ed ora, che mi avvicino alla quarantina ed alla mia seconda “finestra”, non posso che comprendere il loro entusiasmo e la loro voglia.
«No, una trentenne è troppo vecchia per me!» La frase scappa ad uno dei pischelli, rotola come un sasso sulla roccia e viene intercettata dal gruppo di over quaranta che chiude la squadra: «Bagai! Cosa dite?! Una trentenne è il meglio, altro che vecchia! Magari capitasse ancora una trentenne!!» La profonda discussione inter-generazionale si fa animata ed inevitabilmente si chiude con il botto/motto: «Grande Dio delle Montagne, noi ti preghiamo, concedici sempre roccia asciutta e figa bagnata!». Claudia, eccezionalmente unica presenza femminile della compagine, dall’alto ha scosso la testa sorridendo comprensiva come sempre.
La seconda uscita del ciclo Ferrate di quest’anno ha avuto come meta il Resegone. La compagine, condotta dai soci del Cai Asso, vede la presenza anche di membri del Cai Caslino, del Cai Merone e del Cai Erba: per le sezioni un’ ottima occasione per collaborare e per tutti un’opportunità di stringere nuove amicizie.
I partecipanti, alle prime esperienze sulla roccia, hanno affrontato la Ferrata del “Centenario” e la successiva ferrata “De Franco Silvano”. La prima è molto artificiale, con un’intensa presenza di pioli metallici, risale verticale attraverso la scogliera di roccia che porta fino al Pianserada. La seconda invece è più tecnica ed arrampicabile con un paio di passaggi moderatamente impegnativi ed un percorso molto più aereo ed esposto.
Tutta la squadra ha raggiunto la vetta e la croce del Resegone: ottima conclusione di una giornata di cielo incerto. Bravi!